Tra i più grandi registi della storia del cinema, non solo orientale, Akira Kurosawa è stato protagonista di una carriera indimenticabile, culminata con un premio Oscar onorario nel 1990. Protagonista dell'evento che abbiamo tenuto a Magica.Art questo weekend, torniamo a parlare di Kurosawa svelandovi quali sono i film preferiti di longtake tra tutti quelli che ha diretto!
10) La fortezza nascosta (1958)
Ampliando un soggetto già girato nel 1945 (Quelli che camminavano sulla coda della tigre), Akira Kurosawa realizza un notevole affresco di stampo epico-avventuroso, che fa dell'azione la sua principale ragione d'essere. Nessun approfondimento particolare delle psicologie individuali e poca voglia di puntare sulle differenze di classe, nonostante il contrasto tra la basica scaltrezza contadina e il codice d'onore dei guerrieri (tema già affrontato nel magnifico I sette samurai, 1954): il regista sembra votarsi al disimpegno e alla valorizzazione dell'immagine, con straordinarie inquadrature dei paesaggi e il dinamismo di una macchina da presa che insegue i protagonisti nelle loro (dis)avventure. Un divertissementforse a tratti un po' referenziale e gigione, ma la sceneggiatura (firmata dallo stesso Kurosawa con Shinobu Hashimoto, Hideo Oguni e Ryuzō Kikushima) è un meccanismo a orologeria e la contaminazione dei generi (dramma e commedia, farsa e tragedia) si dimostra funzionale a favorire e veicolare il clima fiabesco della pellicola.
9) Dersu Uzala, il piccolo uomo delle grandi pianure (1975)
Reduce dal disastro commerciale di Dodes'ka-den (1970) e da una profonda depressione causata dalle incomprensioni con i produttori, Akira Kurosawa sceglie di rimettersi in gioco adattando i testi biografici dell'esploratore russo Vladimir Arsen'ev: il risultato è un commovente apologo sulla forza dell'empatia, mezzo primario per resistere a una natura maestosa e indifferente. Il sottotesto profondamente umano dell'opera è incarnato dalla minuscola figura di Dersu Uzala (convinto che la terra respiri e il crepitio sia la parola del fuoco), metafora di un'attitudine e di un afflato universali nei confronti di ogni essere vivente. Parabola magistrale sul rapporto tra allievo e maestro (punto fermo nella poetica del regista giapponese, qui virato in un'accezione insolitamente positiva), il film si distingue per un impianto visivo di grande impatto emozionale.
Affascinato storicamente dal XVI secolo, che tornerà come fulcro centrale negli splendidi Kagemusha – L'ombra del guerriero (1980) e Ran (1985), Akira Kurosawa (anche sceneggiatore con Hideo Oguni, Shinobu Hashimoto e Ryuzō Kikushima) sceglie di mettere in scena il celebre Macbeth di William Shakespeare, apportando alcuni sostanziali cambiamenti (meno dialoghi in favore dell'azione) per condensare lo sviluppo narrativo e inserendo al tempo riconoscibili stilemi della cultura nipponica. Il risultato è un incisivo apologo su un'epoca degenerata e sulla rovina morale dettata dalla sete di potere: il regista dilata e stigmatizza la tragedia di Washizu, contaminando il climax di degenerazione con la rarefazione tipica del teatro Nō (i personaggi, simili a statue di cera, in balìa di un fato incomprensibile e incontrollabile) ed enfatizzando l'inadeguatezza del protagonista, soverchiato da una consorte assai più ambigua e glaciale dell'originale.
7) La sfida del samurai (1971)
Dopo La fortezza nascosta (1958), Akira Kurosawa continua nel percorso di demitizzazione del genere jidaigeki, ponendo al centro della narrazione un protagonista privo dei valori tipici dei samurai (Sanjuro è un ronin, un guerriero che si vende al miglior offerente), ma esaltandone comunque il profondo e radicato codice morale (la liberazione della segregata Nui alias Yōko Tsukasa, che porta alla luce il rischioso doppiogioco). Azione, dramma, un pizzico di western e tocchi di grottesca ironia: la sceneggiatura, firmata dal regista con Ryuzō Kikushima, procede tra un ritmo serrato e lampi di humor nerissimo («Uccidere è un commercio molto redditizio, qui»), fondendo elementi diversi per creare qualcosa di completamente nuovo. Presentato in concorso alla Mostra del cinema di Venezia, dove Toshirō Mifune vinse la Coppa Volpi come miglior attore. Sergio Leone prese ispirazione (rasentando il plagio) per il suo Per un pugno di dollari (1964).
Reduce dalle traumatiche esperienze americane (feroci incomprensioni con i produttori e totali discordanze sui metodi di lavoro), Akira Kurosawa decide di tornare in patria e dedicarsi al tema a lui più congeniale – la condizione dei reietti – adattando (con Hideo Oguni e Shinobu Hashimoto, collaboratori alla sceneggiatura) un romanzo di Shūgorō Yamamoto, Kisetsu no nai machi(traducibile come Quartiere senza sole o Città senza stagioni). Il risultato è uno splendido e cupo apologo sull'umana disperazione, privo di qualsiasi catarsi (e per questo rifiutato dal pubblico all'uscita) e permeato da un pessimismo esistenziale che si fa simbolo di una tragedia universale, veicolando l'evidente stato di prostrazione del regista.
Raramente l'alienazione del quotidiano e la fondamentale inconsistenza emozionale dell'essere umano hanno trovato rappresentazione tanto compiuta: attraverso uno stile essenziale, ma non scevro da affascinanti e parossistici stilemi visivi, e una struttura funzionalmente complessa e discontinua (flashback, interruzioni cronologiche improvvise e inaspettate), Kurosawa stigmatizza il (non) senso di vivere, il terrore paralizzante di fronte alla morte e la necessità di essere ricordati per le proprie azioni. Desiderio illusorio, che sarà scempiato dall'indifferenza imperante in un finale amarissimo e quasi insostenibile. Rigoroso, definitivo, imprescindibile.
4) Kagemusha – L'ombra del guerriero (1980)
Akira Kurosawa, anche sceneggiatore con Masato Ide, confeziona un magistrale dramma storico a sfondo psicologico, ispirandosi alle faide politiche che dominarono il Giappone durante il XVI secolo. Sorta di preludio allo splendido Ran (1985), che il regista posticipò per mancanza di fondi, Kagemusha – L'ombra del guerriero scivola dal realismo al volo pindarico, delineando la tragedia di un uomo che perde la propria identità-ombra per assumerne un'altra (ma «l'ombra non può esistere senza la persona»). “La vita è sogno”, direbbe Pedro Calderón de La Barca: l'esistenza non è altro che illusione e la recita del kagemusha si trasforma in un dualismo tra realtà e finzione che si estende alla rappresentazione sul grande schermo, con più di un riferimento alla metacinematografia.
Magistralmente definito da una struttura a flashback (i testimoni evocano i tre indagati, che a loro volta esprimono il proprio punto di vista sulla vicenda), il film stigmatizza l'impossibilità di giungere a una verità definitiva, operando su due livelli: l'inadeguatezza morale di un'umanità condannata al caos («Gli uomini sono un vero mistero per i loro simili. Quanti mali, quanta miseria per tutti») e il paradosso della prospettiva filmica, con una messinscena che instilla il dubbio dell'inganno su un delitto tanto feroce quanto gratuito, operando minime variazioni nei movimenti della macchina da presa (ed evitando, ambiguamente e intelligentemente, riprese in soggettiva).
Maestoso affresco epico, I sette samurai è l'opera che ha contribuito a consacrare definitivamente Akira Kurosawa nel panorama cinematografico internazionale. Sceneggiato dal regista con Shinobu Hashimoto e Hideo Oguni, il film si ispira alla storicizzazione romanzata del jidai-geki (tradizione artisticamente radicata nella cultura nipponica), superandola in corsa e approfondendo le caratterizzazioni dei singoli personaggi, che si fanno metafora di tratti universali: la saggezza del mentore, l'ingenuità dell'allievo, il distacco dell'esperto stratega, la spensieratezza del guerriero burlone, le riflessioni solitarie e catartiche dell'adamantino asceta.
Un'epoca corrotta e invasa dal furore (il titolo significa appunto “rivolta”), in cui il caos si fa metafora dell'inadeguatezza contemporanea e la follia sembra l'unica soluzione («Da pazzo, vede infine i suoi misfatti»): Kurosawa, ormai settantacinquenne, si dimostra superbo lettore dell'anima e maestro nell'organizzazione di immagini dalla devastante potenza visiva, quadri rigorosamente geometrici ravvivati dai colori intensi di una fotografia in odore di espressionismo (opera di Asakazu Nakai, Takao Saitō e Shōji Ueda). Epico, impetuoso, straziante: un capolavoro senza tempo, da vedere e rivedere. Memorabile il personaggio di Lady Kaede (Mieko Harada), glaciale e vendicativa moglie del primogenito Taro, e almeno una sequenza da antologia: l'attacco al castello dove si è rifugiato Hidetora, tragica, macabra e tecnicamente sopraffina rappresentazione degli orrori bellici.