News
Analisi di "C'eravamo tanto amati"
In relazione al nostro Laboratorio di critica cinematografica 2.0 Quarta Edizione, con grande piacere pubblichiamo quest'ottimo saggio!

C’eravamo tanto amati: una rilettura 
di Letizia Piredda

Il film inizia con tre ciak dove ogni volta l’azione va un po’ più avanti.
Perché questo inizio così atipico?
È lo stesso Scola a spiegarci il perché. “Il film è un lungo flashback che dura il tempo di un tuffo di Gassman nella sua piscina. Le storie dei tre protagonisti vengono seguite a staffetta: un po’ una un po’ l’altra, passando da un evento all’altro, saltando in epoche diverse: mi era quindi sembrato giusto quell’inizio interrotto, progressivo, non concluso. Può anche sembrare un errore di montaggio, finché la quarta volta si rivela per quello che è: un avviso allo spettatore, un “consiglio per l’uso” di un film che non ha una tecnica di racconto piana, consequenziale, ordinata nel tempo”. [1]

Video: https://youtu.be/LAdtTgoJA-A

Ovviamente siamo d’accordo con Scola. E proseguiamo la nostra riflessione. 
Nei ciak iniziali c’è un fermarsi e ripartire: sembra un procedere per frammenti e per sovrapposizioni
Al contrario dell’azione, la musica procede, non viene spezzettata (Godard avrebbe spezzettato anche il sonoro come ne Il disprezzo)
I ciak sono tre, tre come i protagonisti del film; quindi tre storie, molti punti di vista: sembra volerci dire, non vi aspettate che tutto torni, lasciate che qualcosa resti incerto.
Sembra quasi un gioco, potrebbe sembrare un errore di montaggio dice Scola,  qualcosa di simile al jump cut diciamo noi, e subito ci viene in mente  Godard e Fino all’ultimo respiro [2].

Dicevamo prima un lungo flashback che dura il tempo di un tuffo, un tuffo che si interrompe, resta sospeso: e quindi trasmette una suspence, l’idea di una sospensione temporale.
Trent’anni di storia, il tempo di un tuffo.
Un tempo che si dilata, un tempo che si comprime.
Tre ciak come i protagonisti, e anche come le parole del titolo C’eravamo/tanto/amati
Ci si può chiedere: perché questo tempo al passato, anzi più precisamente al trapassato remoto?
E’ un tempo che sta a indicare qualcosa che è già finito nel passato: e il presente? Sta in pochi minuti all’inizio, nel prologo e alla fine, nell’epilogo.

E allora se mettiamo insieme tutte le cose dette, possiamo dire che prologo ed epilogo, il presente, costituiscono la cornice del film.
La foto, il contenuto, è ciò che è già passato, concluso, per dirla con Roland Barthes, la foto è sempre la traccia di una morte [3]
E cioè trent’anni di storia, narrati a partire dal fermo immagine di Gassman che sta per tuffarsi, forse costituiscono soltanto una parabola discendente: la resistenza, la liberazione , che ne segnano l’apice, sono già conclusi, dopo c’è il tradimento di quegli ideali (vedi Gassman pronto a compromettersi a livello lavorativo e familiare con il “palazzinaro” Aldo Fabrizi)  o quantomeno la mancata realizzazione degli stessi,  (vedi  Satta Flores che scompagina la sua vita privata, per inseguire dei miraggi utopici e Antonio, che con la sua semplice onestà continua a lottare, pur senza l’entusiasmo di una volta).

Un film sulla memoria dunque: in uno dei passaggi più sensazionali, dove un’ellissi temporale ci porta dallo scoppio della dinamite contro il convoglio tedesco, allo scoppio dell’entusiasmo generale, nel giorno della liberazione, a un’analisi attenta, la musica non segue quell’entusiasmo, ma diventa malinconica: con un montaggio verticale il piano sonoro si muove su un altro piano temporale, quello del ricordo [4]
Consuntivo amaro, quello di Scola, di una sinistra che è venuta meno ai suoi ideali e che si trova schiacciata contro il tunnel del terrorismo. 
Ma la peculiarità di C’eravamo tanto amati sta proprio nella capacità di stabilire una contaminazione tra generi: il film si snoda, infatti tra dramma e commedia, tra parodia e denuncia sociale. In questo modo anche l’amarezza finale per il fallimento degli ideali di sinistra viene stemperata attraverso la lente di un malinconico humour.
Gli stessi protagonisti, costruiti sapientemente in modo emblematico, Nicola l’estremista radicale, Gianni l’opportunista, Antonio il comunista onesto, Luciana ingenua e complicata, Elide la moglie sradicata che cerca di confrontarsi con modelli che non le appartengono, fino a Catenacci, il palazzinaro che riassume in sé grettezza, avidità, ignoranza mista ad una sorta di protervia filosofica, oscillano continuamente tra il baratro e forme diverse di compromesso, dove gli ideali vengono negati, ridimensionati o perseguiti in forma utopica.

Il film è disseminato di omaggi, inevitabili, ai grandi registi del neorealismo: De Sica, in primis, a cui il film è stato dedicato[5]e poi Fellini, Antonioni e verso il finale Pietrangeli; omaggi che Scola fa con grande deferenza e con grande affetto, ma anche con una buona dose di ironia, come nell’episodio di Fellini impegnato nelle riprese della famosa scena della Fontana di Trevi: durante una pausa di lavorazione un assistente gli chiede di ricevere un Colonnello del Sifar, “ ce po’ fa comodo per i permessi”, il tizio avanza e con grande deferenza si avvicina dicendo “posso stringere la mano al grande Rossellini”[6].

Scola, a differenza di Monicelli, Risi e Comencini, introduce progressivamente rotture e sospensioni narrative nell’ambito della commedia all’italiana, rinnovandone il linguaggio e variando la messa in scena tipica del genere. Una di queste rotture narrative è data dalla sospensione dell’azione, che Scola ha mutuato dal teatro e, in particolare da uno spettacolo Strano Interludio, riportato anche nel film, visto da uno Scola ragazzo, quando, per avere i biglietti gratis, faceva parte della claque. In questo spettacolo i pensieri dei personaggi venivano isolati luministicamente, mentre tutto il resto si immobilizzava e restava nel buio. Questa sospensione dell’azione, usata per rafforzare stati d’animo e propositi inconfessabili, la troviamo varie volte nel corso del film: ad esempio quando Luciana e Gianni si incontrano dal Re della Mezza Porzione, (clip Antonio Luciana e Gianni) oppure quando Antonio e Luciana guardano al cinema il film Schiavo d’amore, e si sostituiscono agli attori per confessare l’uno all’altra i propri sentimenti. (clip Antonio e Luciana)

Né mancano gli elementi di metacinema. Ladri di biciclette è il film della vita di Ettore Scola, ma è anche la trappola in cui cade Nicola quando tenta la fortuna a Lascia o raddoppia? Pur essendo un critico, o proprio perché è un critico, preso dalla foga di dare la risposta più dettagliata possibile, confonde filmico e profilmico, cioè invece di rispondere alla domanda che riguarda il personaggio del film, Bruno il bambino, si sofferma a spiegare come nella scena clou l'attore che impersonava il bambino, cioè Enzo Staiola non riusciva a piangere, richiedendo l’intervento di un piccolo trucco da parte di De Sica [7]. Siamo in televisione, ma è la scena più metacinematografica del film. E ancora, quando Luciana e Antonio sono al cinema, il film che viene proiettato è un remake di Schiavo d’amore, ma non si tratta, come alcuni hanno ipotizzato, di un omaggio  al cinema americano, è solo un espediente che Scola usa per entrare e uscire dallo schermo, è una trovata di linguaggio, un esempio di metacinema  incentrato sul rapporto tra spettatore e film: Antonio e Luciana si sostituiscono con un doppiaggio mentale agli attori del film d’amore che stanno guardando.
Persone e personaggi sono la stessa cosa, hanno le stesse illusioni, gli stessi desideri: è questo il messaggio che Scola e gli sceneggiatori sembrano volerci far arrivare.
Ma come finisce il film?

Video https://youtu.be/P7r9WnZHDbY

Dopo la veglia notturna per l’iscrizione scolastica, dove la stessa musica malinconica dell’inizio, qui diventa entusiastica, i tre arrivano alla villa di Gianni per riportargli la patente. 
Ma è un’alba senza sole, grigia: qui vediamo Gassman che, sotto gli occhi sbigottiti e increduli degli amici, termina il suo tuffo in piscina, di fronte al quale l’unica parola che riescono ad articolare è “boh”, parola intraducibile del vocabolario gergale italiano. 
Un finale nello stile tipico di Scola: un finale non finale dove per aggirare il giudizio negativo sul borghese che ha tradito, sul fallimento dell’intellettuale e sul velleitarismo del proletario, fa convergere la discussione sul significato dell’interiezione “boh”, discussione che potrebbe andare avanti all’infinito, riaccendendo la focosa litigiosità sempre in agguato dei due protagonisti.
Non è un cinema affermativo, quello di Scola, non gli interessano i giudizi negativi, le certezze, preferisce terminare con qualche interrogativo, anzi parecchi interrogativi su cui riflettere.  

Il film ebbe un successo enorme anche all’estero, soprattutto in Francia: nelle sale di Parigi venne proiettato ininterrottamente per due anni e fu necessario fare altre copie, dato che quelle in uso si erano deteriorate al punto che non si vedevano più le immagini. La spiegazione di tanto successo forse risiede nel fatto che in Francia prima della guerra e, dopo, con la Nouvelle Vague ci sono stati film splendidi e grandi autori, mentre non ci sono stati molti film di satira di costume che evidenziassero vizi, difetti, errori di marca francese, come invece la commedia italiana e soprattutto la commedia all’italiana, ha fatto con autoironia, con ferocia e con tenerezza. Sembra cioè che i francesi abbiano riconosciuto in questi film le proprie vicissitudini e la propria storia e questo ha fatto scattare il meccanismo d’identificazione.

Infine con questo film si chiude un periodo particolarmente ricco, prolifico, intenso del nostro cinema, cioè quello della commedia all’italiana, che, oltre a Scola, ha avuto come protagonisti Monicelli, Risi, Comencini e Pietrangeli: pur con diversi stili e sfumature diverse hanno disegnato un ritratto graffiante delle contraddizioni degli italiani e della società in cui vivevano. Scola, in particolare, è riuscito a coniugare la lezione di Pietrangeli, con la sua sensibilità e la sua meticolosità, con l’accento satirico e la sfida dell’eccesso di Risi. E questa potrebbe essere la chiave per capire il suo eclettismo e le oscillazioni dei suoi film, ora verso la farsa, ora verso il dramma.

                                                                         __________________

Note

[1] Ettore Scola il cinema ed io. Conversazione con Antonio Bertini. Officina Edizioni, 1996
      p.127

[2] In Fino all’ultimo respiro Godard opera una serie di jump cut sulla nuca di Jean Seberg seduta nell’auto vicino a Jean Paul Belmondo. I jump cut sono degli stacchi fatti in successione senza che ci sia una variazione sul piano della distanza e dell’angolazione che li giustifichi. 

[3] Roland Barthes. La camera chiara. Einaudi, 1980

[4] Montaggio verticale: quando la musica invece di limitarsi a commentare l’immagine, crea un piano a se stante, che dice altro, spesso in contrapposizione, rispetto all’immagine.

[5] De Sica morì alcuni giorni dopo la fine delle riprese. Aveva partecipato al film nel ruolo di se stesso, e il film si apre con un’ampia citazione di Ladri di biciclette. Per Scola, figlio del neorealismo, De Sica era il regista che amava di più e così decise di dedicargli il film.

[6] Scola racconta il retroscena della vicenda: mentre giravano la scena della fontana di Trevi, una sera un signore gli domandò se poteva fare qualcosa; Scola gli disse di andare da Fellini e di stringergli la mano dicendo: “Posso stringere la mano al grande Rossellini?” il tutto all’insaputa di Fellini.

[7] Nicola confonde i due livelli filmico e profilmico e racconta come De Sica riuscì a far piangere il bambino Enzo Stajola: gli mise di nascosto dei mozziconi di sigaretta nella tasca della giacca, e poi fece finta di trovarglieli addosso per caso, dicendogli “ciccarolo” e “bugiardo”).
Maximal Interjector
Browser non supportato.