Per poter comprendere quanto sia importante Batman di Tim Burton è necessario fare un passo indietro di 30 anni, nel 1989, anno di uscita nelle sale del film. Difficile pensarlo oggi, soprattutto per le ultime generazioni, ma bisogna inserirlo in un contesto senza polemiche sul Marvel Cinematic Universe, in cui chiedersi se i film sui supereroi fossero o meno cinema aveva poco senso, banalmente perché non ce n’erano, se si esclude la serie su Superman.
Tim Burton viene contattato dalla Warner Bros. per dirigere il film dopo il successo di Beetlejuice, il secondo lungometraggio del regista di Burbank dopo Pee Wee’s Big Adventure. Non un biglietto da visita eccellente, secondo i fan di Batman, che inviano alla casa di produzione 50.000 lettere di protesta: il motivo? Innanzitutto la scelta di Michael Keaton, che anche Adam West rifiuta in quanto “attore comico” e che non soddisfa a pieno neanche Bob Kane, l’ideatore di Batman, che comunque continua a sostenere Burton. L’altro elemento criticato è il costume, che da calzamaglia grigia con mantello blu passa a nero, con le orecchie a punta e muscolatura scolpita nel cuoio: una maschera, a tutti gli effetti. Da parte sua, il regista ignora i fan e spiega la scelta di Keaton in ottica di analisi: «Se guardate Michael, vedrete nei suoi occhi tutta l’energia selvaggia che può portare un uomo a travestirsi da pipistrello. Diciamo che, se avesse seguito una terapia, probabilmente non avrebbe avuto bisogno del bat-costume. Non lo ha fatto, e dunque il bat-costume è la sua terapia». (Antoine De Baecque, Tim Burton)
Tim Burton, che ha come riferimento The Killing Joke di Alan Moore e Dark Knight di Frank Miller, modella atmosfera e personaggi secondo la sua poetica, senza compromessi, elevando quindi il film ad un’opera estremamente personale e, per questo, grande. A partire dai titoli di testa, un elemento cui il regista ha sempre posto molta attenzione: non fa eccezione Batman, in cui si vede la macchina da presa girare in quello che sembra un labirinto, muoversi alla ricerca di una via di uscita, trovata solo elevandosi e mostrando come quelle mura altro non fossero che i contorni del simbolo di Batman. E cos’era quel labirinto, se non la mente di Bruce Wayne?
La poetica di Burton si è spesso giocata nella dicotomia tra luce e buio, e alla cupa e malinconica esistenza di Bruce Wayne/Batman non possono che contrapposi gli eccessi e la follia incontrollata del Joker, interpretato in maniera strepitosa da Jack Nicholson. Coerenti nella suggestiva Gotham fumettistica di Anton Furst (Premio Oscar) in cui sono inseriti, Batman e Joker sono più che mai due facce della stessa medaglia, legati nelle loro origini (“Tu facesti me, prima”) e nella loro capacità d elevare il concetto di maschera, ripreso se possibile in maniera ancora più efficace in Batman – Il ritorno, del 1992. Infatti, come Bruce Wayne è ormai a tutti gli effetti la maschera dietro cui si nasconde Batman, lo stesso Jack Napier è ormai defunto – in senso simbolico e non, tanto che lo definisce “liberatorio” – e per tornare deve mettere del trucco sopra la sua pelle bianca e cadaverica, rischiando poi di “sciogliersi”. Come avviene nella sequenza nel Flugelheim Museum, tra le migliori dell’opera, al termine della quale Batman e Vicky Vale (Kim Basinger) fuggono su una delle Batmobili più belle mai realizzate.
La colonna sonora del film è un’autentica perla, il cui merito va suddiviso tra il cantante Prince (Partyman e Trust sono ben presto divenute iconiche) e il compositore Danny Elfman. In particolare è quest’ultimo a cui si deve l’epico tema principale, tornato poi nel sequel e anche nella serie animata del 1992, e una colonna sonora evocativa, capace di passare, per esempio, dalle tonalità cupe di Childhood Remembered al folle Waltz to the Death: luci e ombre. Opposti.
Diverse volte si è sentito dire che Tim Burton sia stato una sorta di apripista per i comic movies. Ma è inesatto, Batman era molto di più, ed è sbagliato anche definirlo un modello. Era semplicemente altro. E per questo impossibile da replicare.