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Cibo e Favolacce
Siamo tutti fusilli scotti annegati nel sugo?

Abbiamo tutti lo stesso modo di consegnarci piegati al versamento dell’implacabile sciagura? Siamo pasta molle inondata da un cazzo di sugo, come lo chiama Vilma? 

Nelle Favolacce dei fratelli D’Innocenzo il cibo è un elemento nodale fin da subito quando vediamo una fetta di pane mezza abbrustolita rotta in tre punti accanto a un accendino quasi come volesse profetizzare che qualcosa si romperà, a breve, come se volesse agganciarsi all’immagine delle crepe attraverso le quali s’infiltrano le formiche anche loro, come sempre, in cerca di cibo.

C’è un’insistente masticazione in questo film come per enunciare che, nonostante tutto, si vive, ci si nutre, in qualsiasi circostanza. Tutte le calamità dell’umano – o disumano – sono cadenzate dal ridurre in poltiglia e deglutire il cibo. 

Cibo come principio di vita, ma anche come eventuale causa di morte come il feroce boccone di carne che quasi soffoca Dennis mentre cena con la sua famiglia nel giardino davanti casa. Un’altra predizione? Un pezzo di carne scatena l’innegabilità dell’imprevedibile, e la conseguente perdita di contegno, di padronanza di sé. Nel boccone killer si sente la transitorietà dell’uomo, di tutti i padri e le madri, di tutti i figli. 

I giorni andrebbero forse intrisi di una sostanza dolciastra e vitale perché siano meno coriacei? Come fa Ileana D’Ambra quando fa sgusciare una tetta fuori dal reggiseno e si strizza il capezzolo che schizza fuori il latte materno sopra un biscotto. Poi lo offre a Dennis, sempre più taciturno, sempre più soverchiato dall’indecenza di una comunità infetta. 

Il mare dove s’immergono i bambini, dove sott’acqua trattengono il fiato, anticipa l’acqua alla menta che una mamma serve per merenda, acqua intorno, acqua dentro, acqua per aiutare l’inghiottimento. Elementi naturali fusi a quelli commestibili, analogie e confronti. 

“Se volete giù c’è anche il cocomero, basta che non vi mangiate i semi che sennò vi crescono le piante in pancia”, eccola qui una favola nella favolaccia, quasi per moderare e attutire la spietatezza della trama vera.

Rumori di forchette e denti che macinano, masticazione come congiunzione alla visuale più stimolante della vita. Quella contenuta e discreta di Justin Korovkin e quella cafona e rimbombante di Gabriel Montesi. 

Gli avanzi del ristorante, una pizza sfigurata con funghi e salsiccia come rimedio temporaneo al morbillo, il ciambellone come palliativo contro l’imbarazzo. Cibo, ancora cibo. Cibo come materia e sostanza delle Favolacce.  


Hilary Tiscione

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