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Euphoria: la gioventù bruciata di Sam Levinson

Euforia


/eu·fo·rì·a/


sostantivo femminile


Sensazione accentuata di benessere con tendenza all'ottimismo e all'ilarità, talvolta artificialmente prodotta dall'uso di droghe o di eccitanti, o anche derivante da malattie nervose.


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Non è il solito teen-drama americano



Il quarterback, la cheerleader, la ragazza facile (ma fragile), la nerd, la stramba, la tossica: tutte le pedine sembrano appositamente schierate per dare adito a un’ampia serie di cliché triti e ritriti. E invece (e tanto di cappello), Euphoria non è il solito teen-drama americano.


Tra fanfiction e mitologia del porno, body shaming e filosofia transgender, cyber-bullismo e dipendenza dalle droghe, la nuova serie tv targata HBO e firmata Sam Levinson compie il significativo miracolo di rapportarsi alle nuove generazioni toccandone le corde più segrete e problematiche, senza tuttavia mai degenerare nel ritratto macchiettistico dell’adolescente stupidamente “rebel without a cause”.


Se è infatti vero che la gioventù bruciata di Euphoria si barcamena tra le più ricorrenti e “scontate” dinamiche adolescenziali – la perdita della verginità, la scoperta dell’alcol e degli stupefacenti, l’accettazione da parte del gruppo, l’ansia di soddisfare le aspettative genitoriali – nessuno di questi scenari viene mai affrontato con superficialità, né tantomeno con la superbia di fornirne un’interpretazione extra-generazionale o (ancora peggio!) di offrire al soggetto “tarato” un manuale comportamentale buonista e salvifico.


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Eleggendo a protagonisti assoluti i Millennials più irrequieti, ovvero le pecore nere della cosiddetta generazione Z – come se l’identificazione tramite un nomignolo o, paradossalmente, un’anonimizzante lettera dell’alfabeto fosse sufficiente a comprendere la psiche e l’attitudine di un’intera fetta della popolazione – Levinson schiaffa in faccia allo spettatore le turbe giovanili più intime e pruriginose, evidenziando così lo scarto generazionale tra genitori e adolescenti che, nella maggior parte dei casi, sfocia nell’irrimediabile incomunicabilità.


Riprendendo un modello strutturale che a molti apparirà subito familiare – il riferimento è a Skins, serie tv UK di enorme successo che lanciò le carriere di attori del calibro di Dev Patel, Nicholas Hoult, Jack O’Connell e Kaya ScodelarioEuphoria dedica ogni singolo episodio a uno dei protagonisti, mettendone in luce le zone d’ombra e svelandone scheletri nell’armadio e/o i traumi infantili.


Figlie ognuna del suo tempo, entrambe le serie tv trattano simili argomenti: anche Skins, andato in onda per la prima volta nel 2007, seguiva le vicende, o meglio, gli eccessi di un gruppo di minorenni di Bristol. Ma con Euphoria ci troviamo di fronte a un salto di qualità lampante. Non solo sul piano contenutistico, ma anche (e soprattutto) su quello formale: accanto alle ammirevoli scelte registiche, a togliere il fiato sono una messa in scena a metà tra fiaba e orrore e la brillante acutezza di alcune soluzioni meta-cinematografiche e transmediali.


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A volte, quando sono parecchio fatta, mi sembra di essere una sensitiva



Virgilio di questo Inferno adolescenziale è lei, il motore immobile attorno al quale prende avvio, forma e fuoco l’intero progetto: la tossicodipendente Rue (una straordinaria Zendaya, qui stella cadente luminosissima). Nata il 14 settembre del 2001 – tre giorni esatti dopo l’attentato alle Torri Gemelle – Rue porta con sé, sin dalla nascita, il marchio del disagio esistenziale: affetta da disturbo ossessivo-compulsivo e da deficit dell’attenzione, bipolare e depressa, nasconde sotto i propri felponi e calzoncini «alla Seth Roegen» un’oscura, terrificante, inestirpabile natura autodistruttiva.


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Outsider “rediviva” che si trasforma in insider per lo spettatore, Rue diviene la voce onnisciente che – sprezzante del pericolo – ci prende per mano e ci aiuta a calarci dentro una bolgia costellata di luci al neon e glitter. Rapporti sessuali sfrenati, sbronze, trip, litigi e passioni: un tour de force che potrà forse sembrare esagerato (perlomeno a chi non abbia mai avuto rapporti diretti o indiretti con dipendenze da droghe o altro), ma che proprio nell’estremizzazione riesce a esprimere senza filtri e, paradossalmente, nella maniera più candida possibile la burrasca emotiva capace di travolgere un adolescente in preda al caos e desideroso di infrangere i propri limiti.


Nel caso di Rue, la potenziale luce in fondo al tunnel è rappresentata da Jules, la sua nuova migliore amica (o innamorata?): un’adolescente transgender (così come l’interprete Hunter Schafer) con la quale instaura immediatamente un legame tanto profondo e passionale quanto infragilito dall’imprevedibilità del loro stesso temperamento. 


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Mina vagante “extraterrestre”, Rue è un’anima allo sbando costretta a lottare contro tutto e tutti – soprattutto contro se stessa: la sua peggiore nemica – per riuscire a ritagliarsi il proprio angolo felice in questo mondo.


O meglio, un’anima talmente allo sbando da arrivare a fregarsene malinconicamente di tutto e di tutti – compresa se stessa – per riuscire a godere di un minimo frangente di felicità. Nonostante gli affetti, nonostante la presa di coscienza dei propri dolorosi errori.


Nel panorama contemporaneo (e non) delle serie tv Euphoria è un diamante grezzo raro e prezioso: nell’attesa della seconda stagione, il nostro caloroso invito è quello di lasciarsi trascinare a picco dentro il suo pozzo di eccessi. 


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Viola Franchini

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