“Facendo dei film non mi propongo altro che di seguire questa naturale inclinazione, raccontare cioè col cinema delle storie, storie che mi sono congeniali e che mi piace raccontare in un’inestricabile mescolanza di sincerità e di invenzione”.
Tra i registi più importanti della storia del cinema italiano, Federico Fellini, autore dalla poetica inconfondibile, nasce a Rimini il 20 gennaio 1920: in occasione dei 101 anni dalla sua nascita, ecco la classifica dei suoi 10 migliori film.
Federico Fellini trasfigura il Satyricon della scrittore romano Petronio Arbitro (26 d.C. – 66 d.C.) reinventandolo sequenza per sequenza. Se l'originale aveva molto da dire sulla società del tempo, i suoi vezzi e i suoi vizi, all'autore romagnolo interessano più che altro le pulsioni mortuarie del mondo di oggi: Roma si tramuta così in uno sfondo macabro e debordante, pregno di colori saturi che assumono connotazioni sinistre. Domina incontrastato il senso per l'invenzione arbitraria e personale, al servizio di una messa in scena di crudezza visionaria e di grande livore. Un'opera zeppa di simboli estremi, eccessiva, ridondante, in cui la manipolazione della pagina scritta conserva sempre un preciso costrutto.
Roma è il film felliniano più metafisico: la macchina da presa vi diviene mezzo aereo e sfrontato, una specie di grande occhio carrucolare simile a una gru, in grado di sporgersi e spargersi ovunque. Si respira l'odore di zolfo di una Roma altra, in cui i balconi, le terrazze, le piazze sono mondi che danno su altri mondi e i gruppi umani sembrano sempre e comunque adunate oceaniche. La scena del Gra è un orrido ipertesto di rumori e contesti respingenti e ben rende la cifra stilistica del film: non tutto arriva a destinazione (l'esubero, d'altronde, è notevole), ma la visione d'insieme è spiazzante e fascinosa. I romani, invece, appaiono indifferenti, come un popolo di gatti sornioni, alla fine meno cattivi e maligni del modo in cui talvolta li si rappresenta, come disse una volta Fellini stesso in un'intervista a Enzo Biagi.
Marcello Mastroianni torna a essere, in forma diretta e non mediata, l'alter-ego di Federico Fellini. E il film è un'immersione selvaggia in un regno di donne visto come groviglio caotico e convulso di impulsi e presenze tanto seducenti quanto sfuggenti. Fellini trasferisce nel film tutte le sue personali idiosincrasie in merito al gentil sesso, e il risultato è un tripudio in cui si respira in modo quasi fisico l'ambivalenza assai ambigua di una femminilità che è al contempo diletto gioioso ma anche mistero temibile. La chiave di volta è tutta nella scena iniziale, isolata come un sogno: l'ingresso nelle cabina e le effusioni sono uno dei vertici erotici più lampanti di tutto il cinema felliniano.
Cesare Garboli ha letto, in un bellissimo saggio di critica letteraria sul Dom Juan, il Don Giovanni come una figura paradossalmente omosessuale, vanesio e compiaciuto della natura dell'uomo come creatura sessuale e dunque di sé medesimo con una fedeltà e una convinzione quasi irreali. Così beato dalla propria immagine da non poter vedere l'altra (donna, amante, concubina) che di volta in volta gli sta davanti. Fellini sembra riprendere questa lettura: nella serializzazione continua e reiterata del coito, il suo Casanova diventa un'esaltazione putrida e fine a se stessa dell'uomo per l'uomo, preda di un automatismo privo di senso, senza direzione e senza meta. Non è un caso se, nell'agghiacciante e dolente epilogo, il seduttore finisce con l'amare una bambola, stretto a essa in un macabro girotondo simile all'ingranaggio di un carillon.
Una delle prime grandi opere di Federico Fellini e il film che ne segnò l'assoluta consacrazione anche al di fuori dei confini nazionali, La strada è una magistrale favola poetica in cui l'artista girovago è figura popolare e arcaica, quasi una maschera chapliniana sospesa tra tenerezza e malinconia. Senza rinunciare a una sapiente dose di tristezza e crudeltà: elementi che ridimensionano non poco quanti si ostinano a interpretare Fellini con letture all'insegna di una nostalgia troppo spesso scambiata per buonismo. Gelsomina, donna “venuta su un po' male”, è un personaggio memorabile e tenerissimo, caratterizzato dalla Masina con un candore e una commozione giustamente entrati nella storia del cinema. Lo sguardo partecipe ed ecumenico verso l'essere umano, indusse molti ad appioppare al film un sottotesto cattolico che fece storcere aspramente il naso alla critica di sinistra.
Il film di Federico Fellini che più di ogni altro mette a nudo la provincia romagnola da cui egli stesso proviene, tributando a quel mondo di falliti sconclusionati un'affettuosa lettera d'amore non priva di compassione. Una delle opere più imprescindibili della prima parte della sua filmografia, I vitelloni è spesso implacabile con i propri personaggi, al di là di ogni ovattata accondiscendenza. L'immaginario di un ambiente profondamente sentito, seppur trasfigurato dalla memoria, è messo in immagini con dolorosa sincerità, senza rinunciare a sottolineare l'immobilismo, centro di ogni paralisi, che attanaglia i personaggi. A renderla una delle opere più significative del cineasta riminese, contribuisce anche il fortissimo senso di malinconia che lo invade da cima a fondo.
Film colmo di vitalità e momenti memorabili, influenzato dall'intimità calorosa di una periferia variopinta e piena di liturgie, di riti, di personaggi che sono l'uno il completamento dell'altro, come in un mosaico dai tasselli imperfetti. E imperfetta nella sua candida purezza è Cabiria, così fragile e ingenua, ostinata nonostante un'esistenza che non è per niente all'altezza dei suoi sogni. L'atmosfera, mistica e poetica, si attacca addosso alle singole scene e agli abitanti dell'universo felliniano come un marchio che nessuna cicatrice potrà mai oscurare. La trascinante gioia di vivere che batte ai punti lo sconforto per la propria condizione, rende Le notti di Cabiria uno dei film più lacrimevoli e intensi del regista riminese (si veda l'incantevole finale), ma anche uno dei suoi più ottimisti.
Gli anni del fascismo, la scuola e gli innumerevoli tic di alunni e docenti («Bella la lingua greca, vero?» «Ostia!»), il Transatlantico Rex e la sospensione dell'incredulità dinanzi a esso. E ancora le veraci figure femminili come la Gradisca e la Tabaccaia, sogni erotici generazionali, simboli di una generosità narrativa e creativa oltre che femminea e curvilinea. Per non parlare dello zio e del «Voglio una donna!» urlato dalla cima di un albero, o della consueta tensione del cineasta verso il girotondo riassuntivo. Amarcord è la quintessenza di un regista che elabora se stesso e il proprio passato immaginandolo a ruota libera.
All'alba degli anni '60, una scossa tellurica senza precedenti nella storia del costume italiano, sia sociale che cinematografico. Autentico film-simbolo di un'intera epoca, chiacchieratissimo già a suo tempo, fondamentale per comprendere lo slancio definitivo dell'Italia del boom ormai proiettata verso la perdita dell'innocenza. Roma, nel capolavoro felliniano diventato un proverbiale marchio internazionale, è un fondale solo apparentemente in movimento e in realtà smorto e inerte, che culla la spossatezza esistenziale dei personaggi senza opporre resistenza, senza imporre la sua presenza. Proprio per questa ragione, per lo spettatore è un gesto ancora oggi di impagabile bellezza e sommo appagamento abbandonarsi a La dolce vita come a un'esperienza di visione assoluta, summa dello spirito del suo tempo ma anche contenitore di un campionario umano doloroso e contemporaneo, nel quale la fama e l'apparenza sono analgesici passeggeri per uno strazio più grande e non momentaneo.
La monumentale autobiografia di un genio in forma di racconto polifonico. Il testamento artistico multiforme di un autore che si dona al mondo non risparmiando nulla della magnifica integrità delle sue bugie quotidiane. 8½ è il film in cui verità e menzogna coincidono magistralmente e la realtà e la finzione cessano per sempre di essere distinguibili. Guido, regista debilitato in modo mellifluo dalla malinconia e dall'indolenza ma anche suadente e sfaccettato nell'animo, è per Federico Fellini molto più di un alter-ego o di un transfert. È il veicolo attraverso cui far passare un flusso di coscienza prepotente, nel quale le luci e le ombre del mondo felliniano dialogano le une con le altre, delineando una sorta di moderno romanzo cinematografico in prima persona. L'avanguardismo radicale nelle mani svagate e profonde di Fellini diventa autoanalisi, psichiatria sorniona, svelamento del proprio stesso ego che si guarda allo specchio. Il regista, profondo sostenitore della ricchezza inesauribile della superficie, dà vita a una ronda di personaggi teneri, intristiti e indulgenti che è forse la più ombelicale e allo stesso tempo irrinunciabile della storia del cinema, con momenti di sano godimento per l'invenzione (l'astronave) e sprazzi di onirismo che non è mai stato così carnale (si veda la sequenza iniziale del sogno, entrata di diritto nella storia del cinema): il visionario, dopotutto, è l'unico realista.
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