domenica 7 novembre 2021
alle 15:00
Autentico mito del cinema francese, Alain Delon incarna l'archetipo del sex symbol che vive del contrasto tra piglio esuberante e volto angelico, un dualismo che gli ha permesso di dare vita a personaggi iconici anche molto diversi tra loro. Molto lontano dal fascino guascone del suo eterno "rivale" Jean-Paul Belmondo, Delon negli anni '60 e '70 si è imposto come una star assoluta, unica nel panorama europeo, segnata da luci e ombre, dimostrazioni di sconfinato talento e cadute extra cinematografiche frutto di un discutibile retaggio ideologico.
Un idolo dal temperamento poco accomodante, che in patria ha lavorato anche con registi del calibro di René Clément , Jean-Pierre Melville e Joseph Losey, ma che ha espresso il massimo delle sue capacità di attore all'interno dei confini del cinema italiano. E allora ecco i tre film chiave della carriera di Delon, realizzati da tre maestri assoluti appartenuti a un mondo che non esiste più.
Rocco e i suoi fratelli (1960)

Attraverso una narrazione potente e vigorosa, Luchino Visconti tratteggia un quadro disperato in cui i personaggi, vittime del proprio ineluttabile destino, si muovono in un clima di tragedia che restituisce con impeccabile perizia la condizione sociale di una famiglia e, per estensione, di un'Italia alla ricerca di se stessa alle porte del boom economico. Impeccabile nella progressione drammatica che accosta armoniosamente sequenze memorabili di straripante forza espressiva (il selvaggio stupro notturno in cui affiora tutta la bestilità dell'animo umano, il brutale assassinio all'Idroscalo) e momenti di intensa riflessione introspettiva, attraverso una vicenda che «arriva fino al delitto, centrando un aspetto del carattere meridionale di grande importanza: il sentimento, la legge, e il tabù dell'onore» (Luchino Visconti). Magistrale fusione di duro realismo e melodramma viscerale, il film si carica di riferimenti cristologici nella descrizione della disgregazione di una famiglia semplice legata al passato "contaminata" dalle storture di un mondo in divenire, secondo una visione tipicamente viscontiana che contrappone vecchio e nuovo. Cuore pulsante dell'intera opera è la contrapposizione tra Rocco e Simone, il cui legame di sangue è spezzato per sempre dalla tragica figura di Nadia (una straordinaria Annie Girardot). Esemplare nell'uso del paesaggio, dominato da una Milano ostile vista sempre dal basso (il degrado suburbano, le abitazioni fatiscenti, gli scontri di boxe), fatta eccezione per la passeggiata sul Duomo, e splendidamente fotografata da Giuseppe Rotunno. Solo qualche lieve forzatura ideologica impedisce di gridare al capolavoro assoluto. Alain Delon, allora venticinquenne, è intenso come non mai, ma tutto il reparto degli attori merita una menzione speciale. L'attore francese tornerà a lavorare con Luchino Visconti ne Il gattopardo (1963), calandosi splendidamente nei panni del giovane Tancredi, nipote del Principe Don Fabrizio di Salina (Burt Lancaster). Leone d'argento alla Mostra del Cinema di Venezia, clamoroso successo di pubblico e numerosi guai con la censura a causa della violenza esplicita di alcune sequenze e di alcune audaci allusioni omosessuali. Il soggetto di Suso Cecchi D'Amico, Vasco Pratolini e dello stesso Visconti, è ispirato al romanzo Il ponte della Ghisolfa di Giovanni Testori. A 55 anni dall'uscita in sala, è stato restaurato in 4K da Cineteca di Bologna in collaborazione con Titanus, TF1 Droits Audiovisuels e The Film Foundation di Martin Scorsese.
L'eclisse (1962)

Terzo e ultimo capitolo della cosiddetta "Trilogia dell'incomunicabilità", dopo L'avventura (1960) e La notte (1961), è il punto di arrivo di quel percorso di ricerca formale, tendente all'astrazione, che da Il grido (1957) in poi ha contraddistinto il cinema di Michelangelo Antonioni. Negli ultimi dieci minuti del film, i più sperimentali sul piano linguistico, si condensa l'esito estremo del discorso poetico sotteso a tutta la trilogia: l'asettico paesaggio urbano assurge a mondo interiore, rivendica un suo autonomo statuto ontologico e delinea in sé la plastica rappresentazione della aridità esistenziale dell'uomo contemporaneo. In questo desolato scenario, i due protagonisti, ormai ridotti a semplici elementi architettonici privati di qualsivoglia dimensione interiore, scompaiono di fronte a una macchina da presa che non può fare altro che cercarli, inutilmente, nei luoghi in cui li aveva inquadrati in precedenza. Se in Vittoria (Monica Vitti) ritornano molti degli elementi caratteristici delle donne di Antonioni, in Piero (Delon) si riscontrano alcuni tratti caratteriali (il febbrile dinamismo, il cinismo, l'arrivismo, il materialismo) che ne fanno una interessante variazione dei suoi tipici personaggi maschili, quasi tutti comunque negativi. Uno dei più fulgidi esempi di cinema italiano dal respiro internazionale, fondamentale nel contribuire a quella frattura artistica dei primi anni '60 che innovò la Settima arte proiettandola verso la modernità. Frutto di una maturità stilistica ormai pienamente raggiunta, è l'ultimo film in bianco e nero girato dal cineasta ferrarese, che per la quinta e ultima volta si avvalse della fotografia del maestro della luce Gianni Di Venanzo. Sceneggiatura di Michelangelo Antonioni, Tonino Guerra, Elio Bartolini e Ottiero Ottieri. Musiche di Giovanni Fusco. Premio Speciale della Giuria al Festival di Cannes.
La prima notte di quiete (1972)

Per raccontare la provincia romagnola con un nichilismo e un romanticismo in mirabile equilibrio, Valerio Zurlini scrive da sé il soggetto e sceneggia, con la collaborazione di Enrico Medioli, uno dei quadri esistenziali più foscamente romantici e disperati del cinema italiano. Ne esce un racconto in cui la nebbia che aleggia sulle strade e sul mare (meravigliosa la scena d'apertura coi velisti stranieri che approdano al molo) è anche la condizione interiore di tutti i personaggi. Grazie a un cast affascinante (indimenticabile lo “Spider” interpretato da Giannini), costruisce una galleria di personaggi gravati da colpe “veniali” ma che nondimeno si arrendono a un'esistenza senza possibili redenzioni. Il regista non solo rende con efficacia l'atmosfera decadente, ma riesce a rendere funzionali le citazioni letterarie del crepuscolare insegnante Daniele Dominici, caricandole delle delusioni e dell'impotenza della sua mediocre condizione borghese. Il motore delle azioni del protagonista diventa infatti, man mano che la storia procede, la disperata corsa verso un possibile futuro che non arriverà mai. Basterebbero solo la sequenza in discoteca sulle note di Domani è un altro giorno di Ornella Vanoni e il tragico finale a restituire la grandezza del film. Un apologo lucido e amarissimo, che è anche un esemplare documento d'epoca. Memorabile Alain Delon in una prova di dolente intensità. Fotografia di Dario Di Palma, musiche di Mario Nascimbene. Nella pellicola appare la Madonna del parto di Piero della Francesca, affresco che, diversi anni più tardi, apparirà anche in Nostalghia (1983) di Andrej Tarkovskij.
«Rocco è un santo. Ma nel mondo in cui viviamo, nella società che gli uomini hanno creato, non c'è più posto per i santi come lui: la loro pietà provoca dei disastri» (Rocco e i suoi fratelli, 1960)
Un idolo dal temperamento poco accomodante, che in patria ha lavorato anche con registi del calibro di René Clément , Jean-Pierre Melville e Joseph Losey, ma che ha espresso il massimo delle sue capacità di attore all'interno dei confini del cinema italiano. E allora ecco i tre film chiave della carriera di Delon, realizzati da tre maestri assoluti appartenuti a un mondo che non esiste più.
Rocco e i suoi fratelli (1960)

Attraverso una narrazione potente e vigorosa, Luchino Visconti tratteggia un quadro disperato in cui i personaggi, vittime del proprio ineluttabile destino, si muovono in un clima di tragedia che restituisce con impeccabile perizia la condizione sociale di una famiglia e, per estensione, di un'Italia alla ricerca di se stessa alle porte del boom economico. Impeccabile nella progressione drammatica che accosta armoniosamente sequenze memorabili di straripante forza espressiva (il selvaggio stupro notturno in cui affiora tutta la bestilità dell'animo umano, il brutale assassinio all'Idroscalo) e momenti di intensa riflessione introspettiva, attraverso una vicenda che «arriva fino al delitto, centrando un aspetto del carattere meridionale di grande importanza: il sentimento, la legge, e il tabù dell'onore» (Luchino Visconti). Magistrale fusione di duro realismo e melodramma viscerale, il film si carica di riferimenti cristologici nella descrizione della disgregazione di una famiglia semplice legata al passato "contaminata" dalle storture di un mondo in divenire, secondo una visione tipicamente viscontiana che contrappone vecchio e nuovo. Cuore pulsante dell'intera opera è la contrapposizione tra Rocco e Simone, il cui legame di sangue è spezzato per sempre dalla tragica figura di Nadia (una straordinaria Annie Girardot). Esemplare nell'uso del paesaggio, dominato da una Milano ostile vista sempre dal basso (il degrado suburbano, le abitazioni fatiscenti, gli scontri di boxe), fatta eccezione per la passeggiata sul Duomo, e splendidamente fotografata da Giuseppe Rotunno. Solo qualche lieve forzatura ideologica impedisce di gridare al capolavoro assoluto. Alain Delon, allora venticinquenne, è intenso come non mai, ma tutto il reparto degli attori merita una menzione speciale. L'attore francese tornerà a lavorare con Luchino Visconti ne Il gattopardo (1963), calandosi splendidamente nei panni del giovane Tancredi, nipote del Principe Don Fabrizio di Salina (Burt Lancaster). Leone d'argento alla Mostra del Cinema di Venezia, clamoroso successo di pubblico e numerosi guai con la censura a causa della violenza esplicita di alcune sequenze e di alcune audaci allusioni omosessuali. Il soggetto di Suso Cecchi D'Amico, Vasco Pratolini e dello stesso Visconti, è ispirato al romanzo Il ponte della Ghisolfa di Giovanni Testori. A 55 anni dall'uscita in sala, è stato restaurato in 4K da Cineteca di Bologna in collaborazione con Titanus, TF1 Droits Audiovisuels e The Film Foundation di Martin Scorsese.
L'eclisse (1962)

Terzo e ultimo capitolo della cosiddetta "Trilogia dell'incomunicabilità", dopo L'avventura (1960) e La notte (1961), è il punto di arrivo di quel percorso di ricerca formale, tendente all'astrazione, che da Il grido (1957) in poi ha contraddistinto il cinema di Michelangelo Antonioni. Negli ultimi dieci minuti del film, i più sperimentali sul piano linguistico, si condensa l'esito estremo del discorso poetico sotteso a tutta la trilogia: l'asettico paesaggio urbano assurge a mondo interiore, rivendica un suo autonomo statuto ontologico e delinea in sé la plastica rappresentazione della aridità esistenziale dell'uomo contemporaneo. In questo desolato scenario, i due protagonisti, ormai ridotti a semplici elementi architettonici privati di qualsivoglia dimensione interiore, scompaiono di fronte a una macchina da presa che non può fare altro che cercarli, inutilmente, nei luoghi in cui li aveva inquadrati in precedenza. Se in Vittoria (Monica Vitti) ritornano molti degli elementi caratteristici delle donne di Antonioni, in Piero (Delon) si riscontrano alcuni tratti caratteriali (il febbrile dinamismo, il cinismo, l'arrivismo, il materialismo) che ne fanno una interessante variazione dei suoi tipici personaggi maschili, quasi tutti comunque negativi. Uno dei più fulgidi esempi di cinema italiano dal respiro internazionale, fondamentale nel contribuire a quella frattura artistica dei primi anni '60 che innovò la Settima arte proiettandola verso la modernità. Frutto di una maturità stilistica ormai pienamente raggiunta, è l'ultimo film in bianco e nero girato dal cineasta ferrarese, che per la quinta e ultima volta si avvalse della fotografia del maestro della luce Gianni Di Venanzo. Sceneggiatura di Michelangelo Antonioni, Tonino Guerra, Elio Bartolini e Ottiero Ottieri. Musiche di Giovanni Fusco. Premio Speciale della Giuria al Festival di Cannes.
La prima notte di quiete (1972)

Per raccontare la provincia romagnola con un nichilismo e un romanticismo in mirabile equilibrio, Valerio Zurlini scrive da sé il soggetto e sceneggia, con la collaborazione di Enrico Medioli, uno dei quadri esistenziali più foscamente romantici e disperati del cinema italiano. Ne esce un racconto in cui la nebbia che aleggia sulle strade e sul mare (meravigliosa la scena d'apertura coi velisti stranieri che approdano al molo) è anche la condizione interiore di tutti i personaggi. Grazie a un cast affascinante (indimenticabile lo “Spider” interpretato da Giannini), costruisce una galleria di personaggi gravati da colpe “veniali” ma che nondimeno si arrendono a un'esistenza senza possibili redenzioni. Il regista non solo rende con efficacia l'atmosfera decadente, ma riesce a rendere funzionali le citazioni letterarie del crepuscolare insegnante Daniele Dominici, caricandole delle delusioni e dell'impotenza della sua mediocre condizione borghese. Il motore delle azioni del protagonista diventa infatti, man mano che la storia procede, la disperata corsa verso un possibile futuro che non arriverà mai. Basterebbero solo la sequenza in discoteca sulle note di Domani è un altro giorno di Ornella Vanoni e il tragico finale a restituire la grandezza del film. Un apologo lucido e amarissimo, che è anche un esemplare documento d'epoca. Memorabile Alain Delon in una prova di dolente intensità. Fotografia di Dario Di Palma, musiche di Mario Nascimbene. Nella pellicola appare la Madonna del parto di Piero della Francesca, affresco che, diversi anni più tardi, apparirà anche in Nostalghia (1983) di Andrej Tarkovskij.