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Atto di forza – La fantascienza rosso sangue di Paul Verhoeven
«Se io non sono io, chi diavolo sono?». Questa la domanda che si pone a metà film l'eroe buono Arnold Schwarzenegger, operaio edile dai possenti muscoli che da uomo comune diventa un agente segreto schierato dalla parte dei ribelli per combattere un regime totalitario che domina Marte. O forse è il contrario? O forse è tutto un sogno? La certezza assoluta è che con Atto di forza siamo di fronte alla punta di diamante della produzione americana di Paul Verhoeven, eclettico e finissimo regista olandese troppo spesso messo nel calderone dei registi commerciali che basano il proprio cinema solo su eccessi e provocazioni. Fin dagli splendidi titoli di testa, scanditi dal rosso intenso dell'aggressiva grafica dalle linee futuriste e dalla trascinante partitura musicale di Jerry Goldsmith (sempre sia lodato), che sembrano il contraltare sanguigno di quelli magnificamente metallici di Terminator (1984), la pellicola acquisisce lo status di cult.

Basato sul racconto breve We Can Remember It For You Wholesale (1966) di Philip K. Dick, Atto di forza è un adrenalinico action movie che spinge sul pedale della spettacolarità conservando, in parte, la complessità della pagina scritta. Manipolazione della mente umana, paranoia e crisi d'identità vivono in uno scenario futuristico (siamo nel 2084) che argina la sci-fi pura per ricreare un mondo parallelo, quello su Marte, che sembra una proiezione del degrado prossimo venturo a cui è condannata la Terra. A creare la sensazione di una vertiginosa spirale di "finzione nella finzione" è la convivenza, nella mente del protagonista, di ricordi autentici e ricordi artificialmente indotti, secondo un modello caro a Dick, il quale tornerà sullo stesso tema nel romanzo Do Androids Dream of Electric Sheep? (1968), soggetto di partenza del capolavoro Blade Runner (1982) di Ridley Scott.



Le false apparenze sono una delle direttrici fondamentali del cinema di Verhoeven, basti pensare, ad esempio, alle inquietanti visioni dello scrittore deviato de Il quarto uomo (1983), alla Las Vegas di Showgirls (1995), lisergica Babele dai colori acidi fondata sulla menzogna, sull'effimera apparenza e sul culto dell'estetica, oppure all'ambiguità della figura femminile protagonista nel dramma spionistico Black Book (2006), che funge da specchio delle contraddizioni dell'occupazione nazista. Verhoeven sfrutta al meglio le potenzialità proprie del cinema e gioca con lo spettatore, senza mai prendersi gioco di lui. In Atto di forza, il disvelamento di cosa sia realtà e cosa sia immaginazione rimane sospeso, ogni boriosa spiegazione analitica è respinta, e l'appassionato bacio finale, illuminato da un'accecante luce che di realistico ha ben poco, diventa la definitiva summa del cinema votato all'artificio del regista olandese, esattamente come il rompighiaccio sotto al letto di Catherine Tramell nell'epilogo di Basic Instinct (1992). E gli specchi diventano il correlativo oggettivo di questa ambiguità senza fine.

La storyline spionistica, inserita nel contesto fantascientifico, non è altro che la finzione inserita nella mente del protagonista: dopotutto, cosa c'è di più finto di un intreccio di spie e ribelli su Marte, condito da doppie identità, doppie vite e doppi giochi? L'intrigo internazionale di hitchcockiana memoria si tinge del rosso antinaturalistico che domina il pianeta su cui si svolge gran parte della vicenda, un colore che si lega indissolubilmente al sangue, come suggerisce anche una magnifica dissolvenza incrociata presente all'interno del film. La sublimazione dell'effimero in Hitchcock era simboleggiata da un agente segreto di pura invenzione, a cui era impossibie associare un volto, mentre qui ciò che è inafferrabile è la percezione stessa della realtà.

 
Un cinema del dubbio, quello di Verhoeven, ma anche un cinema del corpo, caratterizzato da viscerali ossessioni incentrate su lampi di raccapricciante violenza che si esprimono in rapporto dialogico con la fisicità dei personaggi. E Atto di forza rappresenta perfettamente questo tratto peculiare attraverso un campionario, tra il grottesco e il ripugnante, di eccentrici mutanti dai tratti umani. Fantascienza fisica e tattile, esaltata dallo stile grandguignolesco di Verhoeven, calata però in un contesto da spy movie anticapitalista, che vede al centro del film la logica dello sfruttamento operata dai potenti contrapposta al desiderio di ribellione del popolo oppresso in nome della conquista di una (utopica) libertà collettiva. Schwarzenegger, debitore dell'iconografia anni '80 a lui legata, restituisce sullo schermo in maniera sopraffina il mix di brutalità e ironia che contraddistingue la pellicola. Sangue, carne maciullata e mostruosità tra il kitsch e l'horror lasciano spazio anche a siparietti da commedia e inserti squisitamente camp (uno si tutti, Schwarzy en travesti con la testa esplosiva). Muscoli e intelligenza, una ricetta che l'attore ha saputo custodire gelosamente per tutta la sua carriera.

Davide Dubinelli 
Maximal Interjector
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