Tra i registi più importanti della settima arte, Ingmar Bergman si è da sempre contraddistinto per una poetica complessa, ma ben definita. Autore di pellicole fondamentali e di veri e propri capolavori capaci di indagare la profondità dell'animo umano, toccando tematiche delicate come la morte, il passato e i suoi fantasmi, la fede e il rapporto con Dio e la religione. Una filmografia densa, di cui Amazon Prime Video ha reso disponibile una selezione di (ben) 21 titoli!
Un’estate d’amore (1951)
Ingmar Bergman ha sempre dato grandissima importanza al tempo del ricordo: il passato è un territorio dove (ri)nascono malinconie, rimpianti e speranze ormai dimenticate. La relazione tra i due innamorati è un modo, per il regista, di porre l'attenzione su ogni gesto quotidiano e su quei momenti felici che spesso tendiamo a superficializzare. Se la narrazione può ricordare altri lungometraggi dell'autore, quello che davvero colpisce è l'apparato visivo e sonoro del film.
Donne in attesa (1952)
Pellicola dai toni esistenziali, a metà strada tra dramma e commedia, in cui Ingmar Bergman indaga con un certo spessore la psicologia femminile, le relazioni di coppia e la monotonia della vita coniugale. Strutturato in maniera precisa e rigorosa, Donne in attesa alterna con efficacia le voci delle quattro protagoniste, che raccontano le loro esperienze con i rispettivi mariti.
Monica e il desiderio (1953)
Acme della prima fase dell'opera di Ingmar Bergman, il film rivela quella libertà di linguaggio e quell'idea di cinema tutto interiore che avrebbero poi contraddistinto i successivi lavori del regista. L'autore svedese architetta un dramma in tre atti, doloroso proprio in virtù di quell'asfittico senso d'inevitabilità che riesce a trasmettere. La felicità è la chimera di un'estate, l'illusione di fuga da un mondo ordinario che finisce sempre per riaffacciarsi. La visione finale, con il volto del protagonista che si dissolve all'interno di una libertà trasognata, ci regala alcune delle immagini più poetiche e struggenti dell'intero cinema bergmaniano.
Una lezione d’amore (1954)
Le dinamiche della crisi di coppia sono analizzate con cura, tra dialoghi pungenti e un efficace gioco a incastri che guida al meglio la narrazione. Rispetto ad altre pellicole dell'autore sullo stesso argomento, il tono è più lieve e i flashback appaiono piuttosto didascalici, ma il ritmo effervescente e le buone interpretazioni riescono ugualmente a dar vita a una pellicola interessante che, sotto la patina di divertissement di medio livello, nasconde una forte riflessione sullo scorrere del tempo e sul mutare dei sentimenti amorosi, entrambi temi cari al regista.
Sorrisi di una notte d’estate (1955)
Il posto delle fragole (1957)
L'opera si configura come un road-movie ambientato nella mente del professore che, travolto da incubi e strane visioni, è portato a fare un bilancio personale della propria vita e a fare i conti con le conseguenze di un'esistenza socialmente misera e anaffettiva. Il punto di vista di Isak è soggetto a una ricerca del tempo perduto dove è ancora possibile una catarsi. Se la solitudine è uno stadio incontrovertibile, c'è ancora spazio per un sorriso, per una canzone, o per un ricordo che, da solo, è in grado di vincere il tempo.
Il settimo sigillo (1957)
È in assoluto la prima pellicola dell'autore svedese totalmente incentrata sulla tematica religiosa: il regista, influenzato dalle teorie esistenzialiste, firma uno script in cui il “silenzio di Dio” è la paura più grande che l'essere umano deve affrontare. Attraverso un percorso di enorme spessore allegorico, Antonius Block si trova di fronte a diversi tipi di tragedie umane: la guerra, la peste, l'adulterio e il fanatismo. Il cavaliere torna a casa sfiduciato, deluso dalla Crociata a cui ha preso parte, assalito dai dubbi sull'effettiva esistenza di Dio; a lui si oppone il suo scudiero (Gunnar Björnstrand), materialista e disinteressato a farsi troppe domande.
Il volto (1958)
Seguendo un raffinato espediente straniante, le sottotrame amorose sono generalmente trattate con un taglio ottimista e leggero che accentua i tanti momenti cruciali virati alla farsa o al grottesco. Attraverso una profonda riflessione umana, trovano spazio i consueti interrogativi sull'esistenza di Dio e sul senso della vita, ai quali non viene data risposta. Metafisico, oscuro ed enigmatico, eccellente nell'alternare atmosfere cupe a risvolti da commedia attraverso le maschere dei suoi protagonisti. Forse troppo rigido nel contrapporre visibile e invisibile, ragione e spirito, uomo e donna, ma, in ogni caso, è l'ennesima, preziosa opera di uno dei più grandi autori della storia del cinema.
L’occhio del diavolo (1960)
Esempio perfetto per comprendere come Ingmar Bergman sia sempre stato, prima di tutto, un regista poliedrico e vorace, in grado di passare da capolavori solenni a opere più leggere e divertenti. Questo film appartiene alla seconda categoria: si tratta di una commedia a tratti un po' pretestuosa, dove dietro al divertissement si nasconde una riflessione fuori dal tempo sull'amore e sulla donna, sull'istinto basico di seduzione e sul peccato che serpeggia nella vita di ogni giorno.
La fontana della vergine (1960)
Nel Medioevo mistico e abietto fotografato da Sven Nykvist, dove potenze cristiane e pagane si combattono, Ingmar Bergman dà luce a un'opera lacerante e disperata, sotto il segno del silenzio di Dio e della gratuità del Male. Un male che non può fare a mano di dipingersi come banale e immotivato, dove l'istinto animale regola ogni conflitto e la ragione è costretta a tacere. Eppure si aprono spiragli di umanità inattesa, singoli momenti in cui pare riecheggiare una pietas ancestrale riscattata dal catartico finale.
Come in uno specchio (1961)
Come in uno specchio rappresenta il primo capitolo di quella trilogia religiosa, completata da Luci d'inverno (1963) e Il silenzio (1963), che rappresenta la base ideale di tutta la sua filmografia. Dramma da camera che è insieme un apologo struggente sull'incomunicabilità, una confessione sul silenzio di Dio, una riflessione sulle relazioni (an)affettive, sull'amore e sull'angoscia, dove ogni primo piano di Harriet Andersson è capace di squarciare lo schermo. Atmosfere inquiete fin dal titolo paolino che non lascia scampo: lo specchio oscuro è quello in cui ogni solitudine si riflette senza mai toccarsi realmente.
Luci d’inverno (1963)
Gelida e austera, la pellicola è un urlo disperato che l'autore esprime verso ogni approccio distorto al cristianesimo, criticando l'inettitudine di alcuni religiosi ma lasciando comunque al suo protagonista coscienza e consapevolezza filosofica, nonostante una freddezza a tratti eccessiva. Ma Bergman mette in discussione innanzitutto se stesso, costituendo un film a tesi sull'agonia dell'uomo solitario rispetto a Dio. La predominanza del bianco (fotografia di Sven Nykvist) accentua ancora di più l'idea di assenza di Dio, della Fede, della pietà del tempo che scorre inesorabile o della parola.
Il silenzio (1963)
In un'allegoria sul conflitto spirituale tra intellettualità ed erotismo, l'autore svedese, attraverso le inquadrature lunghe di Sven Nykvist nelle quali sovente vi è un'asettica e alienante assenza di dialogo e un alternarsi contrastante di buio e luce accecante, crea un'opera criptica, moderna e controversa, con un forte senso dell'irrealtà (più che della surrealtà) che però non è né onirica come Il posto delle fragole (1957) né sperimentale come successivamente Persona (1966). Forse il più minimalista tra i lungometraggi visionari del regista.
Persona (1966)
I brevi frammenti potrebbero rappresentare quei temi che Ingmar Bergman aveva affrontato nella sua filmografia precedente (il sesso; la religione; il sacrificio; la passione per gli albori della storia del cinema) e Persona potrebbe così porsi immediatamente come un film-summa della poetica del maestro svedese. La narrazione intanto procede: Alma ed Elisabeth vanno a passare del tempo su un'isola (a Fårö, dove Bergman passerà gli ultimi anni della sua vita), nella speranza che questo porti giovamento all'attrice, e iniziano a confidarsi. Il silenzio della donna è un modo per evitare di mentire e perdere quelle maschere che l'hanno accompagnata per tutta la vita: Elisabeth vuole smettere di sembrare e iniziare a essere. Il sottile confine tra realtà (essere) e finzione (sembrare) viene esplicitato da Bergman attraverso la natura metacinematografica del film stesso: Elisabeth, in un momento memorabile, fotografa il pubblico e, circa a metà della visione, la pellicola brucia e l'immagine rimane sfocata per alcuni minuti.
Il rito (1969)
Cinema densissimo che arriva a esasperare il dramma da camera, nonché crudele esercizio d'oppressione dove la violenza è quella istintiva e convulsa dell'istante. Istante che eccede sempre il piano, come se i corpi volessero fuoriuscire dall'inquadratura, sempre protesi verso un fuori-campo che gli viene negato. Ogni verbosità, ogni eccesso del linguaggio, non può che culminare nell'afasia. «Non c'è che la smania di crudeltà» viene detto in quella che, ancora oggi, rimane una delle opere più ermetiche sull'incomunicabilità e sul corto circuito a cui è destinato ogni linguaggio.
Sussurri e grida (1972)
Una delle opere più dolorose del grande regista svedese. Tra sussurri e grida, tra silenzio e parola, non c'è più alcuna differenza: il tempo ha perso di senso, gli istanti si succedono nel ricettacolo di un mondo ormai privo d'anima. La superba fotografia di Sven Nykvist immerge il quartetto di donne all'interno di un rosso che si fa via via sempre più soffocante, alla ricerca di un'asfissia cromatico-emotiva con pochi precedenti. Ingmar Bergman non racconta semplicemente queste donne, ma scava, scandaglia, perlustra anima e psiche, alla ricerca disperata del sentimento più puro.
Scene da un matrimonio (1973)
Autentica fenomenologia del matrimonio nonché opera definitiva sul tempo come privazione di felicità. Nella sua pessimistica diagnosi sulla coppia, Ingmar Bergman agisce come un osservatore spietato, dal metodo infallibilmente scientifico: ogni crepa della relazione, quasi impercettibile a prima vista, finisce per alimentarsi in un perenne stato d'ipertrofia. La crisi è un virus che opprime gli ambienti, nega il cielo, toglie l'aria e priva i suoi modelli dell'ossigeno necessario.
Sinfonia d’autunno (1978)
Un mondo di marionette (1980)
Realizzato nei Bavaria Film Studios e girato per la TV, Un mondo di marionette è un dramma violento e corporale che indaga l'interiorità di un inetto borghese bloccato in una routine che lo angoscia e lo limita, soprattutto sessualmente. Il suo passato viene analizzato con distacco e freddezza, il suo presente, segnato da una profonda instabilità, è dipinto con toni quasi astratti. Ingmar Bergman costruisce un film d'autore che riprende i propri stilemi, sia nel ritmo del dialogo sia nell'uso del bianco e nero e del colore (fotografia di Sven Nykvist), ma con un particolare in più: una struttura narrativa intricata e spesso impenetrabile, frammentata in brevi capitoli racchiusi da un prologo e un epilogo.
Fanny e Alexander (1982)
Uno dei più grandi ritratti familiari mai apparsi sul grande schermo, concepito da Ingmar Bergman come un compendio definitivo del proprio cinema, intriso di paura, angoscia ma anche di energia vitale. Con straordinaria maestria, l'autore svedese riesce a restituire una narrazione solenne, maestosa e magniloquente, permeata di rigore nordico, che passa dal dramma alla riflessione esistenziale, incrociando vita, cinema, teatro, arte e letteratura (Hoffmann, Ibsen, Strindberg, Shakespeare). Sotto il segno di un alto magistero stilistico, ricopre un ruolo centrale il sottotesto religioso (colpa, espiazione, perdono), che esplode nell'opprimente ostilità incarnata dalla guida spirituale del vescovo Vergérus, uomo di fede votato ad austerità e vetusta purezza.
Dopo la prova (1984)
I protagonisti non risultano primitivi nella loro umanità ma sprigionano una forza psicologica e caratteriale ben approfondita, suggerita dal loro continuo dilungarsi sulla carenza di senso delle loro azioni ("vere" che si rivelano "false"). Splendida la figura fantasmatica di Rakel che sembra rappresentare un collegamento esplicito a tutto il cinema precedente del regista svedese che qui, come in Sussurri e grida (1972), conclude il tutto con domande senza risposta, relazioni umane fredde ma empatiche e misteri che vanno oltre la narrazione.
Un’estate d’amore (1951)
Ingmar Bergman ha sempre dato grandissima importanza al tempo del ricordo: il passato è un territorio dove (ri)nascono malinconie, rimpianti e speranze ormai dimenticate. La relazione tra i due innamorati è un modo, per il regista, di porre l'attenzione su ogni gesto quotidiano e su quei momenti felici che spesso tendiamo a superficializzare. Se la narrazione può ricordare altri lungometraggi dell'autore, quello che davvero colpisce è l'apparato visivo e sonoro del film.
Donne in attesa (1952)
Pellicola dai toni esistenziali, a metà strada tra dramma e commedia, in cui Ingmar Bergman indaga con un certo spessore la psicologia femminile, le relazioni di coppia e la monotonia della vita coniugale. Strutturato in maniera precisa e rigorosa, Donne in attesa alterna con efficacia le voci delle quattro protagoniste, che raccontano le loro esperienze con i rispettivi mariti.
Monica e il desiderio (1953)
Acme della prima fase dell'opera di Ingmar Bergman, il film rivela quella libertà di linguaggio e quell'idea di cinema tutto interiore che avrebbero poi contraddistinto i successivi lavori del regista. L'autore svedese architetta un dramma in tre atti, doloroso proprio in virtù di quell'asfittico senso d'inevitabilità che riesce a trasmettere. La felicità è la chimera di un'estate, l'illusione di fuga da un mondo ordinario che finisce sempre per riaffacciarsi. La visione finale, con il volto del protagonista che si dissolve all'interno di una libertà trasognata, ci regala alcune delle immagini più poetiche e struggenti dell'intero cinema bergmaniano.
Una lezione d’amore (1954)
Le dinamiche della crisi di coppia sono analizzate con cura, tra dialoghi pungenti e un efficace gioco a incastri che guida al meglio la narrazione. Rispetto ad altre pellicole dell'autore sullo stesso argomento, il tono è più lieve e i flashback appaiono piuttosto didascalici, ma il ritmo effervescente e le buone interpretazioni riescono ugualmente a dar vita a una pellicola interessante che, sotto la patina di divertissement di medio livello, nasconde una forte riflessione sullo scorrere del tempo e sul mutare dei sentimenti amorosi, entrambi temi cari al regista.
Sorrisi di una notte d’estate (1955)
Il posto delle fragole (1957)
L'opera si configura come un road-movie ambientato nella mente del professore che, travolto da incubi e strane visioni, è portato a fare un bilancio personale della propria vita e a fare i conti con le conseguenze di un'esistenza socialmente misera e anaffettiva. Il punto di vista di Isak è soggetto a una ricerca del tempo perduto dove è ancora possibile una catarsi. Se la solitudine è uno stadio incontrovertibile, c'è ancora spazio per un sorriso, per una canzone, o per un ricordo che, da solo, è in grado di vincere il tempo.
Il settimo sigillo (1957)
È in assoluto la prima pellicola dell'autore svedese totalmente incentrata sulla tematica religiosa: il regista, influenzato dalle teorie esistenzialiste, firma uno script in cui il “silenzio di Dio” è la paura più grande che l'essere umano deve affrontare. Attraverso un percorso di enorme spessore allegorico, Antonius Block si trova di fronte a diversi tipi di tragedie umane: la guerra, la peste, l'adulterio e il fanatismo. Il cavaliere torna a casa sfiduciato, deluso dalla Crociata a cui ha preso parte, assalito dai dubbi sull'effettiva esistenza di Dio; a lui si oppone il suo scudiero (Gunnar Björnstrand), materialista e disinteressato a farsi troppe domande.
Il volto (1958)
Seguendo un raffinato espediente straniante, le sottotrame amorose sono generalmente trattate con un taglio ottimista e leggero che accentua i tanti momenti cruciali virati alla farsa o al grottesco. Attraverso una profonda riflessione umana, trovano spazio i consueti interrogativi sull'esistenza di Dio e sul senso della vita, ai quali non viene data risposta. Metafisico, oscuro ed enigmatico, eccellente nell'alternare atmosfere cupe a risvolti da commedia attraverso le maschere dei suoi protagonisti. Forse troppo rigido nel contrapporre visibile e invisibile, ragione e spirito, uomo e donna, ma, in ogni caso, è l'ennesima, preziosa opera di uno dei più grandi autori della storia del cinema.
L’occhio del diavolo (1960)
Esempio perfetto per comprendere come Ingmar Bergman sia sempre stato, prima di tutto, un regista poliedrico e vorace, in grado di passare da capolavori solenni a opere più leggere e divertenti. Questo film appartiene alla seconda categoria: si tratta di una commedia a tratti un po' pretestuosa, dove dietro al divertissement si nasconde una riflessione fuori dal tempo sull'amore e sulla donna, sull'istinto basico di seduzione e sul peccato che serpeggia nella vita di ogni giorno.
La fontana della vergine (1960)
Nel Medioevo mistico e abietto fotografato da Sven Nykvist, dove potenze cristiane e pagane si combattono, Ingmar Bergman dà luce a un'opera lacerante e disperata, sotto il segno del silenzio di Dio e della gratuità del Male. Un male che non può fare a mano di dipingersi come banale e immotivato, dove l'istinto animale regola ogni conflitto e la ragione è costretta a tacere. Eppure si aprono spiragli di umanità inattesa, singoli momenti in cui pare riecheggiare una pietas ancestrale riscattata dal catartico finale.
Come in uno specchio (1961)
Come in uno specchio rappresenta il primo capitolo di quella trilogia religiosa, completata da Luci d'inverno (1963) e Il silenzio (1963), che rappresenta la base ideale di tutta la sua filmografia. Dramma da camera che è insieme un apologo struggente sull'incomunicabilità, una confessione sul silenzio di Dio, una riflessione sulle relazioni (an)affettive, sull'amore e sull'angoscia, dove ogni primo piano di Harriet Andersson è capace di squarciare lo schermo. Atmosfere inquiete fin dal titolo paolino che non lascia scampo: lo specchio oscuro è quello in cui ogni solitudine si riflette senza mai toccarsi realmente.
Luci d’inverno (1963)
Gelida e austera, la pellicola è un urlo disperato che l'autore esprime verso ogni approccio distorto al cristianesimo, criticando l'inettitudine di alcuni religiosi ma lasciando comunque al suo protagonista coscienza e consapevolezza filosofica, nonostante una freddezza a tratti eccessiva. Ma Bergman mette in discussione innanzitutto se stesso, costituendo un film a tesi sull'agonia dell'uomo solitario rispetto a Dio. La predominanza del bianco (fotografia di Sven Nykvist) accentua ancora di più l'idea di assenza di Dio, della Fede, della pietà del tempo che scorre inesorabile o della parola.
Il silenzio (1963)
In un'allegoria sul conflitto spirituale tra intellettualità ed erotismo, l'autore svedese, attraverso le inquadrature lunghe di Sven Nykvist nelle quali sovente vi è un'asettica e alienante assenza di dialogo e un alternarsi contrastante di buio e luce accecante, crea un'opera criptica, moderna e controversa, con un forte senso dell'irrealtà (più che della surrealtà) che però non è né onirica come Il posto delle fragole (1957) né sperimentale come successivamente Persona (1966). Forse il più minimalista tra i lungometraggi visionari del regista.
Persona (1966)
I brevi frammenti potrebbero rappresentare quei temi che Ingmar Bergman aveva affrontato nella sua filmografia precedente (il sesso; la religione; il sacrificio; la passione per gli albori della storia del cinema) e Persona potrebbe così porsi immediatamente come un film-summa della poetica del maestro svedese. La narrazione intanto procede: Alma ed Elisabeth vanno a passare del tempo su un'isola (a Fårö, dove Bergman passerà gli ultimi anni della sua vita), nella speranza che questo porti giovamento all'attrice, e iniziano a confidarsi. Il silenzio della donna è un modo per evitare di mentire e perdere quelle maschere che l'hanno accompagnata per tutta la vita: Elisabeth vuole smettere di sembrare e iniziare a essere. Il sottile confine tra realtà (essere) e finzione (sembrare) viene esplicitato da Bergman attraverso la natura metacinematografica del film stesso: Elisabeth, in un momento memorabile, fotografa il pubblico e, circa a metà della visione, la pellicola brucia e l'immagine rimane sfocata per alcuni minuti.
Il rito (1969)
Cinema densissimo che arriva a esasperare il dramma da camera, nonché crudele esercizio d'oppressione dove la violenza è quella istintiva e convulsa dell'istante. Istante che eccede sempre il piano, come se i corpi volessero fuoriuscire dall'inquadratura, sempre protesi verso un fuori-campo che gli viene negato. Ogni verbosità, ogni eccesso del linguaggio, non può che culminare nell'afasia. «Non c'è che la smania di crudeltà» viene detto in quella che, ancora oggi, rimane una delle opere più ermetiche sull'incomunicabilità e sul corto circuito a cui è destinato ogni linguaggio.
Sussurri e grida (1972)
Una delle opere più dolorose del grande regista svedese. Tra sussurri e grida, tra silenzio e parola, non c'è più alcuna differenza: il tempo ha perso di senso, gli istanti si succedono nel ricettacolo di un mondo ormai privo d'anima. La superba fotografia di Sven Nykvist immerge il quartetto di donne all'interno di un rosso che si fa via via sempre più soffocante, alla ricerca di un'asfissia cromatico-emotiva con pochi precedenti. Ingmar Bergman non racconta semplicemente queste donne, ma scava, scandaglia, perlustra anima e psiche, alla ricerca disperata del sentimento più puro.
Scene da un matrimonio (1973)
Autentica fenomenologia del matrimonio nonché opera definitiva sul tempo come privazione di felicità. Nella sua pessimistica diagnosi sulla coppia, Ingmar Bergman agisce come un osservatore spietato, dal metodo infallibilmente scientifico: ogni crepa della relazione, quasi impercettibile a prima vista, finisce per alimentarsi in un perenne stato d'ipertrofia. La crisi è un virus che opprime gli ambienti, nega il cielo, toglie l'aria e priva i suoi modelli dell'ossigeno necessario.
Sinfonia d’autunno (1978)
Un mondo di marionette (1980)
Realizzato nei Bavaria Film Studios e girato per la TV, Un mondo di marionette è un dramma violento e corporale che indaga l'interiorità di un inetto borghese bloccato in una routine che lo angoscia e lo limita, soprattutto sessualmente. Il suo passato viene analizzato con distacco e freddezza, il suo presente, segnato da una profonda instabilità, è dipinto con toni quasi astratti. Ingmar Bergman costruisce un film d'autore che riprende i propri stilemi, sia nel ritmo del dialogo sia nell'uso del bianco e nero e del colore (fotografia di Sven Nykvist), ma con un particolare in più: una struttura narrativa intricata e spesso impenetrabile, frammentata in brevi capitoli racchiusi da un prologo e un epilogo.
Fanny e Alexander (1982)
Uno dei più grandi ritratti familiari mai apparsi sul grande schermo, concepito da Ingmar Bergman come un compendio definitivo del proprio cinema, intriso di paura, angoscia ma anche di energia vitale. Con straordinaria maestria, l'autore svedese riesce a restituire una narrazione solenne, maestosa e magniloquente, permeata di rigore nordico, che passa dal dramma alla riflessione esistenziale, incrociando vita, cinema, teatro, arte e letteratura (Hoffmann, Ibsen, Strindberg, Shakespeare). Sotto il segno di un alto magistero stilistico, ricopre un ruolo centrale il sottotesto religioso (colpa, espiazione, perdono), che esplode nell'opprimente ostilità incarnata dalla guida spirituale del vescovo Vergérus, uomo di fede votato ad austerità e vetusta purezza.
Dopo la prova (1984)
I protagonisti non risultano primitivi nella loro umanità ma sprigionano una forza psicologica e caratteriale ben approfondita, suggerita dal loro continuo dilungarsi sulla carenza di senso delle loro azioni ("vere" che si rivelano "false"). Splendida la figura fantasmatica di Rakel che sembra rappresentare un collegamento esplicito a tutto il cinema precedente del regista svedese che qui, come in Sussurri e grida (1972), conclude il tutto con domande senza risposta, relazioni umane fredde ma empatiche e misteri che vanno oltre la narrazione.