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Kiarostami su MUBI: i cinque film del maestro iraniano in catalogo
La poetica unica di Abbas Kiarostami arriva su MUBI. L’attenzione estrema riservata alle piccole cose, agli sguardi, ai silenzi, ai gesti quasi impercettibili, alle parole dette e a quelle taciute del regista Palma d'oro al Festival di Cannes 1997 per il capolavoro Il sapore della ciliegia

Su MUBI è possibile rivedere cinque film del maestro iraniano, eccoli di seguito accompagnati da alcuni passaggi delle nostre recensioni: 

Dov’è la casa del mio amico? (1987)


Il piccolo Ahmed (Babek Ahmed Poor), tornato a casa da scuola, scopre di avere con sé il quaderno dell'amico Nematzadeh (Ahmed Ahmed Poor). Senza il suo quaderno, quest'ultimo rischia una severa punizione: Ahmed decide così di mettersi in cammino per raggiungerlo nel suo villaggio e restituirglielo.

Esistono probabilmente due influenze dominanti dietro lo stile cinematografico di Abbas Kiarostami. La cultura orientale, giapponese in particolare, essenziale e sintetica, e il grande cinema dell'infanzia di Satyajit Ray. Il film che ha rivelato il nome di Kiarostami al pubblico internazionale e che già esprime appieno questa filiazione con il maestro indiano è Dov'è la casa del mio amico?, un delicato racconto di viaggio con il passo di una favola semplice e remota. L'anima del film risiede tutta nel motivo che spinge il piccolo Ahmed a percorrere chilometri pur di aiutare l'amico: una solidarietà tra piccoli, che nel momento del bisogno travalica qualsiasi altro impegno o dovere familiare. 

Sotto gli ulivi (1994)


Durante le riprese di un film, nelle aree rurali iraniane devastate dal terremoto del 1990, si intrecciano le vicende di due giovani innamorati in crisi (Hossein Rezai e Tahereh Ladanian). Entrambi sono stati scelti dalla produzione per interpretare loro stessi, ma sul set ogni comunicazione sembra azzerata.

Terzo e ultimo tassello di una trilogia composta dai precedenti Dov'è la casa del mio amico? (1987) ed E la vita continua (1992). Amplificando il discorso metacinematografico contenuto nello scarto tra secondo e primo film, Kiarostami realizza l'immaginario (e quindi fittizio) making-of di E la vita continua: nei ciak ripetuti e nella dialettica tra spazio davanti e dietro la macchina da presa si configura quindi un ennesimo gioco di rifrazioni tra realtà e finzione.

Il sapore della ciliegia (1997)


Un uomo (Homayon Ershadi) viaggia in automobile da solo, lungo strade sterrate della periferia di Teheran. Alla ricerca di qualcuno che possa esaudire una sua particolare richiesta, interpella tre persone: una giovane recluta curda, un seminarista afgano e un anziano tassidermista turco.

È il titolo che ha consacrato l'iraniano Kiarostami alla notorietà del pubblico internazionale, grazie a una storica Palma d'oro conquistata al cinquantesimo Festival di Cannes. Struggente apologo sul valore del vivere e del morire, non è il film più elaborato e inventivo sul piano formale del regista, ma ha suscitato interesse in tutto il mondo in virtù della controversa tematica trattata e del modo originale, poetico, "crudo" e spiazzante di risolverla. Non è nemmeno un film sull'eutanasia o sul suicidio come erroneamente si potrebbe ritenere, quanto piuttosto una profonda riflessione sulla pietas e sulle responsabilità, individuali e collettive, del vivere e del morire. 

Il vento ci porterà via (1999)


L'ingegnere Behzad (Behzad Dorani) giunge dalla città a bordo di un fuoristrada in uno sperduto villaggio del Kurdistan. Con lui viaggia una piccola troupe, incaricata di filmare un non precisato avvenimento all'interno della comunità. Il referente più prezioso per l'uomo è Farzad, un bambino particolarmente perspicace.

Dopo il successo internazionale de Il sapore della ciliegia (1997) e in diretta continuità con quel film Palma d'oro a Cannes, il regista iraniano amplia la sua riflessione sul “tempo della morte”, in uno dei titoli più ermetici della sua produzione. Quello che cambia è l'approccio alla costruzione narrativa, molto più sperimentale e in apparenza privo di alcuni basilari presupposti di intelligibilità. 

Dieci (2002)



Dentro l'abitacolo dell'automobile di una donna (Mania Akbari) si alternano diversi passeggeri: suo figlio Amin, sua sorella, una anziana che deve raggiungere il tempio, una ragazza abbandonata dal fidanzato, una prostituta.

L'automobile, spazio di intimità semovente che mette in connessione individui e luoghi distanti, è un topos ricorrente nel cinema di Kiarostami fin da E la vita continua (1992). Nel suo dodicesimo lungometraggio, questo nucleo ristretto di comunità dentro la comunità (una Teheran percepita di riflesso solo nel rumore del traffico) è il contesto fisico e teorico dentro cui si costruisce il film. Nelle dieci sequenze che lo costituiscono, interamente girate dentro l'auto e introdotte da stacchi di montaggio che ne accentuano la frammentazione, il regista sviluppa una lucida riflessione sulla condizione femminile in Iran: le voci delle donne protagoniste rivelano le contraddizioni profonde che il processo di emancipazione femminile ha prodotto nella società iraniana, tra rifiuto dei valori tradizionali, crisi dei modelli familiari e ricerca di una diversa affermazione individuale. 

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