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LIFF 2022: tutti i vincitori
Si è conclusa una splendida 4ª edizione di longtake Interactive Film Festival, che ha avuto luogo dal 30 novembre al 4 dicembre a Milano.

Cinque giorni intensi, con nove film proiettati e due importanti eventi: non possiamo che ringraziare di cuore, per l’ampia affluenza e sentita partecipazione, tutte le persone (oltre 700) che sono venute a trovarci al Cinema Arlecchino.

Il film che il pubblico ha decretato come vincitore del nostro concorso è stato Les intranquilles di Joachim Lafosse, che ha avuto la meglio sugli altri tre contendenti: Benedetta di Paul Verhoeven, Coma di Bertrand Bonello e The Last Son di Tim Sutton.




Il concorso per critici cinematografici non professionisti dedicato a Marco Valerio ha visto trionfare nella categoria under 30 Lucrezia Gemmo con la recensione del film Piccolo corpo, che riportiamo qui di seguito:

Piccolo corpo: esordire con un’Odissea
di Lucrezia Gemmo

Non si possono battezzare i bambini nati morti, è la regola”. È un incipit drastico e doloroso ad aprire Piccolo corpo, opera prima che vale a Laura Samani il David di Donatello 2022 come Miglior regista esordiente. Tutto accade in pochi minuti, squarciando la placida ritualità di un’isoletta friulana, che la modernità di inizio Novecento sfiora con onde timide da oltre il mare. 

La giovane Agata partorisce un corpo già freddo, anima condannata al Limbo, senza nome e senza Dio. Se alla regola si rassegna l’intera comunità, la madre negata e sanguinante cerca nel lutto la forza disperata dell’autodeterminazione. Si dice che tra le montagne a nord-est esista un santuario dove i bambini nati morti tornano in vita il tempo di un respiro. Questo permette di battezzarli ed evitare il loro peregrinare eterno. Allora pellegrina diventa Agata, in cammino per la salvezza della figlia, e con lei Lince, guida tra i boschi in cambio di una misteriosa cassa. Crede che contenga un tesoro, in realtà il fardello sulle spalle di Agata è la bara della bambina: dal ventre alla schiena, il piccolo corpo della figlia resta prolungamento di quello sofferente della madre. 

In questa piccola Odissea, poco epica e mai eroica, qualcuno cerca e qualcuno fugge, in un viaggio che non ammette tentennamenti. Se non c’è denaro per pagare i soccorsi che salvano da morte certa, si estingue il debito con i propri capelli. E se c’è una miniera nota perché ogni donna che osi entrarvi scompare per sempre, Agata si immerge nel buio. La guida il rumore del mare, che è origine e ricongiungimento di tutto: Mar sarà anche il nome della piccola non-nata, battezzata tra le braccia di Lince, ragazzo/ragazza felino nel nome e nel volto – e che la sua interprete si chiami Ondina è un vezzo del destino non trascurabile. Con l’acqua inizia e nell’acqua finisce la parabola trascendentale di Agata, storia di formazione al contrario in cui un corpo maturo sfiorisce e torna acerbo in un lago gelato tra i monti. 

La triestina Laura Samani scrive e dirige prendendo in prestito il folklore delle sue terre, e lo restituisce impreziosito di una visione moderna e consapevole. Non teme lunghe inquadrature mute dedicate alla natura crudele (bellissima e fredda, come la fotografia a cura di Mitja Licen). Non teme nemmeno un ecosistema narrativo in cui tutti, protagonista compresa, si esprimono solo in dialetto. Limbo linguistico che incontra anche tedesco e sloveno, limbo geografico tra mare e montagna, limbo temporale tra carri di legno e oggetti magici come le lampadine. La favola femminile, che diventa anche una questione di gender con astuzia e senza retorica, è aspra come i monti su cui si inerpicano Celeste Cescutti e Ondina Quadri, non-attrici veraci, sorprendenti nella sensualità grezza dei rispettivi ruoli (Agata e Lince). 

La Cescutti si regala un’ultima volta all’anima di chi guarda e ascolta interpretando il brano di accompagnamento ai titoli di coda, “Piccolo corpo”, parte della colonna sonora sobria e sacrale a cura di Fredrika Stahl. Le donne del paese rassicuravano Agata: “Il tuo corpo se ne dimenticherà, e il tuo cuore anche”. La sua voce canta e trafigge, commuove e smentisce: il dolore non abbandona, cambia solo forma, ma può far capitare i miracoli. Laura Samani, gentilmente, ce lo ricorda.




Nella categoria over 30 ha invece vinto il concorso per critici cinematografici non professionisti dedicato a Marco Valerio Giacomo De Rinaldis con la recensione del film Gli orsi non esistono  di Jafar Panahi, che riportiamo qui di seguito:

Jafar Panahi e la verità dell’immagine negata
di Giacomo De Rinaldis

Un velo bianco copre un quadro appeso a una parete, Jafar Panahi lo scosta leggermente, ma il suo contenuto resta a noi celato. In questo gesto di pochi secondi c’è tutto Gli orsi non esistono, Premio speciale della giuria quest’anno a Venezia e ultima fatica del regista iraniano, che continua a girare film nonostante il divieto del regime teocratico di Teheran. Troviamo Panahi in un villaggio al confine con la Turchia, dal quale sta girando (a distanza) un film sulla fuga di due iraniani dal paese. Il suo racconto autobiografico di artista dissidente diviene l’occasione per una profonda riflessione sulla natura delle immagini e quindi sul cinema.
Panahi gioca con la nostra visione sin dai primi minuti: Gli orsi non esistono si apre come un film di finzione, ma in realtà ciò che vediamo si rivela essere lo schermo del suo computer, attraverso cui dà indicazioni in diretta alla troupe. Questo film nel film mostra quanto i contorni delle immagini siano aperti e sfumati, così come il confine tra documentario e fiction. Le immagini sono infatti oggetti paradossali a metà fra la realtà e la finzione: esse rappresentano uno stato di cose ma al tempo stesso non sono la realtà. Come gli orsi fantasticati dagli abitanti del villaggio, le immagini sono entità fantasmatiche la cui instabilità rende la rappresentazione della realtà un compito improbo, “a perdere”.
Le difficoltà della condizione politica di Panahi sono le medesime di chi crea: il regista si fa carico della natura ambigua delle immagini e finisce per non appartenere a nessun luogo. Egli vive su un confine sperduto, è straniero nel proprio paese e balbetta la lingua materna, l’azero. Non a caso, come il suo maestro Kiarostami, gira spesso scene in macchina, “luogo” impossibile da abitare.
Nonostante viva una situazione insostenibile, Panahi non può sottrarsi al suo destino, cioè raccontare quello che accade e proteggere ciò che crea da coloro che detengono il potere, anche a costo di cancellarlo. È lui stesso ad eliminare una sua foto che ritraeva una coppia del villaggio il cui amore è ragione di aspri conflitti. Cancellando l’immagine crede di salvare i due giovani, ma ciò non sarà sufficiente. L’iconoclastia di questo gesto ha però una natura profondamente cinematografica, poiché negare la visione di un’immagine significa riconoscerne l’immenso potere.
Filmare la realtà non vuol dire soltanto mettere in scena, ma porre in relazione ciò che si vuole rappresentare con un fuori campo. Il padrone di casa Ghanbar gioca con la macchina fotografica di Panahi e filma quello che non dovrebbe filmare, ovvero i discorsi degli abitanti del villaggio: il fuori campo irrompe sulla scena, mostrando la realtà delle maldicenze dei paesani nei confronti del regista. Come in Godard, Carmelo Bene e Kiarostami, nel cinema di Panahi ciò che viene mostrato in scena suggerisce l’osceno, ciò che è fuori dalla scena. Ed è così che i veli invece di nascondere mostrano, come il lenzuolo bianco del cortometraggio Hidden, che celava una ragazza segregata dalla famiglia e della quale potevamo udire solo il canto indimenticabile.
Ne Gli orsi non esistono l’osceno è politico, è la violenza di un regime che tortura i corpi e uccide. Il dolore che tale violenza comporta è però irrappresentabile e viene suggerito nel finale soltanto da un suono: il gracchiare del freno a mano tirato da un Panahi sconvolto rompe l’immagine e oscura lo schermo, velo nero di un paese in lutto.

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