Mettiamo subito in chiaro una cosa: questo non è un biopic ma un film molto più interessante. Di film biografici su leggende della musica ne abbiamo visti tanti negli ultimi decenni, molti di questi stucchevoli, quasi tutti esageratamente celebrativi e al servizio di una narrazione che, come una pagina di Wikipedia, rimpolpa di aneddoti la classica e noiosa struttura vita-morte-miracoli. Qui abbiamo invece qualcosa di diverso.
Ma Rainey’s Black Bottom si serve della semplicità scenica del teatro per raggiungere un risultato più coinvolgente di qualsiasi eccesso cinematografico da blockbuster, e questo non è un caso. Infatti, il film è tratto da un’opera teatrale scritta da August Wilson, conosciuto anche come “theater's poet of black America”, drammaturgo statunitense di spicco che più di altri ha saputo dare voce alla comunità afro-americana negli ultimi 40 anni.
È confortante notare che l’adattamento cinematografico, scritto da Ruben Santiago Hudson e diretto da George C. Wolfe, mantenga quel gusto da dramma da palcoscenico, perché nonostante sia quello l’ambiente che più si addice alla pièce, cambiarne le vesti a favore della “pellicola” non ha danneggiato lo smalto dell’opera. È doveroso aggiungere che in un anno come questo, segnato dalle chiusure anche dei teatri, trovare in streaming (Netflix) una perla del genere addolcisce, sebbene in parte, la mancanza di spettacolo dal vivo in un anno disgraziatamente a porte chiuse.
Ambientato in uno studio di registrazione nella Chicago degli anni ’20, il film mescola bene ogni ingrediente per restituire, sebbene con l’aiuto del montaggio, un’atmosfera teatrale in tutto e per tutto. La location è una, suddivisa in più stanze. Se queste non fossero riprese in maniera totale, uno potrebbe addirittura immaginare di stare seduto nella platea di un teatro. La storia è lineare. Si tratta di una giornata all’interno dello studio assieme alla cantante blues Ma Rainey e alla sua band durante una sessione per registrare un nuovo disco. In questo contesto, si snodano delle dinamiche che ci permettono di conoscere il carattere, le paure e le velleità di ogni singolo personaggio; la tensione sale. E poco importa se quella giornata non sia realmente accaduta, perché il film usa l’universo che orbita intorno a Ma Rainey come pretesto per raccontare qualcosa di più vasto.
Il film si apre con una prima introduzione che quasi riecheggia Aspettando Godot in salsa blues, dove la band di Ma Rainey attende nella sala prove dello studio l’arrivo della cantante. Già in questa prima parte, l’impostazione dei dialoghi, serrati e taglienti, apre una finestra sui motivi che saranno i pilastri portanti della narrazione. La musica, chiaramente, ma anche il disagio sociale degli Stai Uniti dell’epoca visto attraverso gli occhi di personaggi afro-americani che, nonostante il loro status di musicisti privilegiati, rimangono inevitabilmente succubi di una società bianca esitante di fronte a una piena integrazione etnico-culturale.
Sono quindi i contrasti di opinione a guidare i conflitti tra i personaggi, che sembrano non essere mai d’accordo se non durante le sessioni musicali.
Primeggia l’interpretazione di Chadwick Boseman che, a causa della sua prematura scomparsa a soli 44 anni, è per l’ultima volta sul grande schermo (se ancora si può dire per un prodotto Netflix). Boseman si spoglia della tuta da supereroe Marvel per prendere di petto il suo personaggio. Si immedesima perfettamente in un ruolo difficile, regalandoci un crescendo di emozione e profondità. Non dispiacerebbe un Oscar postumo per questo ruolo. Boseman interpreta il giovane trombettista della band mosso però dall’ambizione di formare il suo personale gruppo dove può sentirsi libero di scrivere le proprie musiche. Libertà che con la band di Ma Rainey non potrà mai avere. È curioso evidenziare quanto il tema della libertà ritorni in varie forme lungo tutto il film. La libertà di esprimere il proprio estro artistico, la libertà di essere chi si vuole essere e specialmente la libertà di vivere senza lo spettro della discriminazione razziale. Si rimarca così il dualismo della black community, suddivisa tra quelli che vogliono semplicemente spassarsela e vivere la giornata, e quelli che invece combattono attivamente le differenze sociali per la libertà, domandandosi come e cosa deve fare la comunità afro-americana per cambiare lo stato delle cose. Una questione che è ancora oggi una ferita aperta e che ci deve far riflettere – che mondo è quello dove una persona è messa di fronte al bivio indegno se vivere la propria vita o cercare di difenderla?
Questo meccanismo di difesa muove la psicologia dei personaggi, a partire da Ma Rainey. Da quando fa la sua caotica entrata, si impone aggressivamente su tutti gli altri. Al rombante sferragliare di una vecchia automobile appena accidentata risponde con una voce profonda e risonante Viola Davis, che interpreta magistralmente la cantante. Denti d’argento e il viso costantemente perlato di sudore che asciuga con un visone intorno al collo. Rainey/Davis è una visione sfarzosa quanto sgradevole, ma precisa e reale. Considerata la madre del blues, Ma Rainey è stata tra le prime cantanti di colore a fare successo discografico negli Stati Uniti. Ne esce un personaggio che sfrutta la sua notorietà come arma di difesa per proteggersi dagli altri. Tutti sono comandati dalle sue imposizioni, dai suoi capricci, dalla sua testardaggine a volte irrazionale. Chiunque deve fare i conti con lei: il suo manager, il direttore dello studio di registrazione – entrambi bianchi – la sua giovane amante e ogni componente della band. Un carattere impetuoso che nasconde debolezze interiori e cicatrici mai pienamente rimarginate. Una donna che può far leva solo su quello che può offrire al mercato: la sua voce, imprigionata nei solchi di un vinile. Nuovamente, il film sottolinea la disparità tra neri e bianchi e l’incoerenza del mercato discografico statunitense. Perché quei vinili raggiungeranno soprattutto i salotti della borghesia bianca che difficilmente comprenderà la sofferenza impressa nelle note dalla voce dirompente di Ma. Una sofferenza che lei stessa definisce come principio del blues e che è il manifesto della comunità afro-americana. Qualcosa di incomprensibile per i bianchi, come spiega Ma in un toccante monologo dove, aprendosi in totale onestà, si definisce come una prostituta alla mercé di un pubblico che ignora l’origine della sua musica. E se i bianchi accettano la musica nera, riarrangiandola per riprodurne scialbi simulacri senza principio, Ma e tutti i membri della band non possono fare altro che rispondere con la frustrazione, con l’irruenza e con l’’angosciosa accettazione di essere degli “avanzi” della società, come apostrofa uno dei personaggi. Una violenza che riservano solo alla loro stessa comunità, a simboleggiare lo sfogo impotente e costernato nei confronti di un mondo guidato da individui che vedono prima il colore della loro pelle, e di fronte al quale non possono cambiare le regole del gioco.
Un film che come una band blues si immerge nelle profonde viscere di ogni musicista, dove Boseman, Davis & co si destreggiano tra assoli e malizie musicali, mostrando in maniera corale uno spaccato della comunità afro-americana negli Stati Uniti degli anni ’20 – e non solo.
Un ultimo orgoglioso canto del cigno della pantera nera.
Marco Panichella