Gli studenti del Master in Management dell'Immagine, del Cinema e dell'Audiovisivo dell'Università Cattolica di Milano, hanno svolto delle interessanti analisi per il corso di Storia e scenari dell'immagine e dell'audiovisivo: le pubblichiamo con piacere sul nostro portale! Complimenti!
LA CASA DI JACK (o di Lars von Trier?)
di Martina Corvaia
La Casa di Jack è un film del 2018 scritto e diretto dal regista danese Lars von Trier, ultima sua opera presentata in anteprima mondiale fuori concorso al Festival di Cannes, dopo che nel 2011 era stato bandito dal Festival per alcune sue dichiarazioni filonaziste.
Il titolo originale inglese è The House That Jack Built e in Italia è uscito un anno dopo in due versioni, una con tagli delle scene più cruente e una sottotitolata senza tagli, entrambe vietate ai minori di 18 anni.
Il progetto di von Trier, inizialmente, era quello di sviluppare una serie televisiva, salvo poi annunciare che si sarebbe trattato di un unico lungometraggio. Nel 2016 è stata ultimata la sceneggiatura, dopo varie ricerche condotte su diversi serial killer.
Per la prima volta nella sua carriera, von Trier ha diviso la sua lavorazione in due parti, in modo da avere la possibilità di modificare la seconda parte delle riprese, dopo il montaggio del film.
Il viaggio all’Inferno nell’epilogo finale rientra in questa seconda parte, con un von Trier probabilmente ancora reduce dai postumi della conferenza stampa sul film Melancholia che gli è costato il suo “suicidio professionale”.
Il film è stato prodotto dalla Zentropa, la casa di produzione da lui fondata.
La post-produzione è stata molto complicata, in particolare per gli effetti visivi poiché von Trier voleva paragonare l’omicidio a una rude opera d’arte e di architettura.
Il film mescola elementi innovativi e contemporanei insieme a elementi controversi tipici del suo cinema d’autore che ne fanno la differenza. Un film provocatore con Matt Dillon (Jack) e Bruno Ganz (Virgilio), ultima sua apparizione in un film, che vivono di Arte violenta, cruda, nell’America degli anni ’70, in un viaggio trascendentale all’interno dell’anima oscura.
La Casa di Jack è un thriller psicologico con venature horror, di cui già il titolo stesso rivela la sua architettura artistica, in cui confluisce tutta la sua filmografia precedente in un exemplum pessimista, che affronta il tema del disturbo ossessivo-compulsivo con le relative conseguenze di un serial killer che ne fa dei suoi omicidi la sua ragione di vita.
‹‹Il film più brutale che abbia mai realizzato›› lo ha definito von Trier, che celebra l’idea ‹‹che la vita sia crudele e spietata››.
La chiave di lettura del film
Uno schermo nero e un rumore di piccole onde che si infrangono, come se qualcuno stesse camminando in mezzo all’acqua, e due voci fuori campo incorniciano un preludio letterario di un racconto che sta per iniziare: una confessione senza giudizio in un cammino in cui nessuno ha mai cercato il silenzio ma ha sentito l’esigenza di parlare e di essere ascoltato, quasi una liberazione di qualche “rimorso” che opprime la parte oscura di un peccatore.
Il film si apre con cinque “incidenti” (i capitoli con un’immagine immobile, nella ripartizione tipicamente vontrieriana) scelti a caso nell’arco di dodici anni.
“Incidenti” che hanno portato Jack a rivalutare la sua esistenza di ingegnere-artista che sublima la sua arte sulle note musicali di Glenn Gould, uno dei più grandi pianisti di tutti i tempi, all’opera con la Sinfonia di Bach: ‹‹Lui rappresenta l’Arte›› dice Jack.
Un’Arte che tende alla perfezione ossessivo-psicotica, quindi, che per Jack è sinonimo di Ingegneria e Architettura, che ben si sposano per la costruzione della sua casa; ma un’Arte che ha bisogno del giusto materiale per elevarla a opera perfetta.
E quale migliore perfezione di un omicidio costruito a regola d’arte (e anche oltre) che lo ispiri per cercare quel materiale per la sua opera superba.
Il primo incidente
Un crick rosso appoggiato sul sedile, sollevato in aria con l’intenzione precisa di colpire e sopprimere la caparbietà di una donna, come se fosse una sorta di movimento quotidiano, quasi naturale, risveglia l’anima maligna di Jack che ha sete di sangue.
Il primo atto violento tra volere e potere di un serial killer che sta iniziando a vivere per la prima volta in tutta la sua vita.
E un sorrisino malizioso sembra ricordare il Norman Bates hitchcockiano dell’ultima scena di Psycho (1960) che guarda in macchina, come a voler dire che ciò che è stato visto non fosse stato abbastanza, qualcosa che ancora deve accadere: uno dei tanti serial killer che abitano la mente di Jack che ha voglia di uccidere per puro godimento mentale.
Ancora il compositore Glenn Gould che suona il pianoforte con estrema destrezza: non è un caso che von Trier fosse figlio di Fritz Michael Hartmann, appartenente a una nobile famiglia di compositori, solo perché la madre voleva che suo figlio avesse dei “geni artistici”. La perfezione già insita in quel bambino e il sangue d’artista puro che lo hanno “viziato” a spingersi sempre oltre, ad abbracciare l’idea che l’Arte lo avrebbe salvato.
Dipende dal concetto di Arte.
Il secondo incidente: la Religione e la Luce oscura
È il secondo incidente che innesca la molla della follia psicopatica: il suo disturbo ossessivo-compulsivo avvolge Jack in un vortice di perversione sanguinaria che cambia il suo modo di essere e non è solo David Bowie con la sua Fame del 1975 che lo conferma per tutto il film: “Fame, it’s not your brain, it’s just the flame / That burns your change to keep you insane”.
Ma proprio nel 1975, Lars von Trier, vedendo la sua immagine riflessa in uno specchio, ha incominciato ad auto venerarsi e a cambiare sé stesso. Scena in cui Jack si ritrova perfettamente, dietro due lenti di occhiali e l’auto contemplazione per i suoi omicidi sempre più artistici.
‹‹Non mi considero un uomo di fede particolarmente devoto […] ma devo ammetterlo: ho avvertito la pioggia, la più forte che abbia mai visto, come una specie di benedizione e l’omicidio come una specie di liberazione. Mi è sembrato di avere un supremo protettore››.
Jack non crede in un Dio che lo possa salvare, che lo possa portare in Paradiso liberandolo da un mondo di dannati che lo divorerebbero. Un momento profetico lo conduce sulla giusta via, come se finalmente avesse un posto nel mondo, come se l’omicidio non fosse sbagliato: una specie di liberazione per la sua anima.
E solo in quel momento capisce che qualcuno lo stava proteggendo, e non un Dio benevolo ma un Dio del male. Lui stesso era un Satana perverso e psicopatico.
E ancora von Trier prende il sopravvento: in principio, ebreo da parte del padre non biologico e, infine, ateo, senza nessuna aspirazione al soprannaturale.
Egotismo, oscenità, rudezza, impulsività, narcisismo, intelligenza, irrazionalità, manipolazione, sbalzi di umore, superiorità verbale: ogni termine con un significato forte che stringe Jack e von Trier sovrapponendoli in un’unica persona. Una provocazione a chi lo ha criticato, lo ha accusato, lo ha denigrato con qualsiasi mezzo a disposizione ma definendosi comunque superiore a tutti in ogni ambito, senza paura di censura.
Un invito all’Invidia che si prostra ai piedi del suo Egocentrismo, se così si può dire.
«Quando avevo dieci anni ho scoperto che, attraverso il negativo, vedi la vera qualità demoniaca insita nella luce: la luce oscura»
Un bambino che cresce nella consapevolezza della morte e nella paura di non essere amato, nell’autodeterminazione, senza nessun genitore che lo possa accompagnare nel suo percorso di vita, non ha soltanto maturato la malvagità dell’essere umano, ma ha accelerato quel bisogno di sentirsi appagato nel commettere azioni brutali fin dall’infanzia. Un turbamento che è semplicemente iniziato da sempre, oppresso per qualche tempo e destatosi dal suo lungo letargo. È forse qui che risiede la vera natura intrinseca nell’animo umano? È un bambino che si schiera dalla parte del Male che lo tiene per mano senza perderlo di vista?
Una vita innocente e la Morte che tutto governa si scontrano in una battaglia senza eguali, l’una cerca di sovrastare l’altra ma entrambe continuano a convivere nel paradosso umano.
Quel bambino che guarda intensamente una luce luminosa, chiara, all’improvviso scopre che in un fotogramma è il negativo che fa vedere ciò che è reale: l’oscurità, il demone che colpisce come un’arma a doppio taglio, che lacera l’anima e la taglia in due: la parte oscura, già vitale, che cammina di pari passo con il Diavolo in persona, pronto a elevarsi ancora più in alto.
La sua opera più grande è in attesa di un risvolto, lo sta aspettando ed è la più terribile di tutte.
Il terzo incidente
Il terzo incidente è il massimo livello di perfezione artistica, la sua opera migliore.
Può l’amore salvarlo? È Arte anche questa, senza dubbio, ma non basta.
Finalmente una famiglia che lo amava, due bambini che dipendevano dalle sue labbra, un onore riservato a pochi, se l’argomento della caccia di grossi animali non avesse scosso quel clima.
‹‹[…]La parata dei trofei, praticata soprattutto in Europa alla fine della caccia, come l’estremo insulto in cui ogni specie ha un suo posto tradizionale››
Un’opera d’arte, la più bella e brutale di tutte, una caccia spietata contro una madre e i suoi figli piccoli freddati con cinque pallottole di un fucile: Jack prendeva molto sul serio l’etica della caccia, anche se l’ordine di morte era diverso.
E Mr. Sophistication, in preda alla sua furia omicida, fa strage di due bambini, sensibili e ingenui, uccisi come animali in fuga, e della madre, ridotta a mero trofeo di caccia andata a buon fine, in una carneficina senza retroscena.
Dopotutto, è stato un “gentiluomo” Jack, come lui stesso aveva detto, quasi un favore ordinato dalla sua gentilezza apatica.
Contava soltanto la nozione globale di trofei, e non l’azione vera e propria, anche se riguardava la sua famiglia, anche se c’erano bambini. Era solo un’opera d’arte, l’esaltazione del sublime che aveva importanza.
Una famiglia che non aveva voce in capitolo, una famiglia assente che non lo ha mai voluto e che ha suscitato, invece, un trauma esistenziale.
E Jack, che soccombe all’idea di padre che non è mai stato e che non l’ha mai avuto, indossa la maschera di von Trier, che forse ha sempre visto la proiezione del bene nel padre che non è mai stato presente, che lo ha ferito con un pugnale nel cuore sul letto di morte, scoprendo che la menzogna lo aveva soffocato e ucciso.
E von Trier con lui.
Il quarto incidente
Jack: ‹‹Ho un sapore acido in bocca››
Virgilio:‹‹ È l’acido di cui cominci a sentire il sapore. Compare a questa profondità. Temo proprio che ti ci dovrai abituare››
Un sapore metallico di sangue, acre, di morte, comincia a farsi sentire nella bocca di Jack.
Il quarto incidente è l’apoteosi di una società che, invece di fare del bene, è così cieca che non si rende neanche conto che il vero male è proprio lì davanti ai suoi occhi. La polizia, da anni alla ricerca del famigerato serial killer che porta solo devastazione, se ne sta lì a guardare la misoginia di un uomo che sembra pentirsi e confessare la sua crudeltà, per poi rivelarsi un approfittatore astuto che si prende gioco dell’inettitudine degli uomini che vivono in un mondo così insignificante.
Una provocazione sulla provocazione a una società ipocrita e l’esempio plateale di un’accusa, quella sulla misoginia, mossa al regista che ha saputo portarsi dentro tutta questa villania, plasmandola in un nevrotico che cerca solo il giusto piacere nella propria vita.
‹‹In questo Inferno di mondo nessuno vuole darti una mano››
Man mano, Jack e von Trier delineano i loro tratti caratteristici in una sorta di perfezione dell’anima umana che, in una società che li respinge perché soggetti controversi, l’unico modo per poter sopravvivere è fare altrettanto qualcosa di controverso e provocatorio per andare avanti.
E Jack lo fa, ancora e ancora, nel completo compiacimento di accontentare la sua insaziabile anima sanguinaria per lenire il dolore perché nessuno è in grado di assecondarlo.
La solitudine che circonda con le sue braccia forti un’anima che non è accettata deve da sola crearsi il suo mondo per continuare a vivere, solo perché non ne può fare a meno o perché una traccia di sangue può risvegliare l’Inconscio sopito.
Jack procede sulla scia degli omicidi, arrivando anche a uccidere più di sessanta persone che ancora non riescono ad alleviare la sua angoscia.
La colpa di essere nato maschio e anche colpevole, le donne sempre le vittime e gli uomini sempre i criminali: il quarto incidente si conclude nella constatazione che l’uomo è sempre la parte cattiva che è colpevole per tutto ciò che fa mentre la donna recita sempre la parte di vittima del carnefice.
E qui la famosa accusa di abusi sessuali che era stata rivolta a Lars von Trier molti anni fa si anima come mai prima d’ora.
E ancora: quel desiderio di provocare per essere cercato, per farsi conoscere nel mondo che lo allontana, per avere un posto in quel mondo che lui stesso disprezza e che non capirà mai.
La provocazione mai fine a sé stessa.
Il valore delle icone e il quinto incidente
Jack: ‹‹Tutte le icone che hanno avuto e sempre avranno un impatto sul mondo sono per me Arte stravagante››
Le più terribili icone che hanno segnato la storia, scolpite ormai nell’immaginario collettivo, prendono vita in un processo documentaristico che passa dal bianco e nero al colore e viceversa, in una sorta di ipnosi metafisica, che tendono a esaltare la figura di Hitler, fonte di ispirazione per Jack che ne costruisce il suo pensiero fondante circa l’etica del suo assassinio, e Albert Speer, architetto e ministro di Hitler, di cui ne valorizza il valore delle rovine costruite con materiali deboli e resistenti per apparire, molto tempo dopo, esteticamente perfette.
Von Trier, vestendosi da serial killer, uccide la sua credibilità con dichiarazioni esplicite filonaziste dopo essere stato espulso dal Festival di Cannes per essersi mostrato incline a ‹‹uno dei più grandi crimini di tutti i tempi contro l’umanità››. Quindi, Jack e von Trier sono teorici dello sterminio di massa su larga scala, addentrandosi nel labirinto oscuro della mente hitleriana.
Una istigazione evidente quella di von Trier che non si vergogna del suo essere controverso neanche con la personalità più disumana mai esistita al mondo.
E Jack arriva ad affermare che l’Inferno e il Paradiso sono la stessa cosa, l’anima appartiene al Paradiso e il corpo all’Inferno; l’anima è ragione e il corpo è tutte le cose pericolose, per esempio l’Arte e le icone, su uno sfondo di scene tratte dai suoi film che hanno urlato lo scandalo (Nymphomaniac, AntiChrist, Melancholia) che si risvegliano dal loro lungo sonno e si mescolano al logos letterario-filosofico che ne evidenzia la materialità dell’Arte, dettata dal corpo, e la sua spiritualità, dettata dall’anima, nel dualismo Inferno-Paradiso che non ammette distinzioni.
L’“esperimento” tedesco del quinto incidente rappresenta il punto di svolta di tutto il film.
Un solo proiettile incamiciato per Jack che lo utilizza come tributo a quella ingegnosità, un chiaro omaggio alle oscenità tedesche e a Hitler stesso, un esperimento “divertente” per onorare la più grande crudeltà umana della Germania nazista di quegli anni.
La giusta leva che, con smisurato vigore, squarcia l’anima tormentata e conduce Jack ad accettare la sua condizione, che si traduce in un esperimento osannato che riesce a trovare il giusto spazio per la sua esecuzione.
E quella porta, che era rimasta chiusa fin dall’inizio del film, si apre nel buio totale che sovrasta la tunica rossa di Jack stesso. La porta della sua anima dannata, metaforicamente parlando.
Un colore rosso acceso, rubato al suo migliore amico, che si muove nella sua ultima volontà, fino a quando una voce, adesso con sembianze umane, lo chiama e lo sconvolge, quello spettro che lo ha sempre seguito come un’ombra nel suo percorso di vita senza abbandonarlo mai.
La Ragione, che ha il nome di Virgilio, lo reindirizza sulla diritta via. Jack, l’Anticristo depravato omicida che uccide per arte, finalmente trova il materiale per costruire la casa che aveva trascurato e i cadaveri, ammassati nella cella frigorifera, prendono forma nella Morte pura che adesso acquista un senso: il senso della sua vita.
La Morte che von Trier ha sempre ricercato nel tentato suicidio e che non è mai riuscita a compiersi.
Epilogo: Catabasi
Un cerchio, che si era aperto su uno schermo nero, adesso trova il suo punto di chiusura.
L’Inferno dantesco si dipana tra le vie tortuose del regno dell’oltretomba e due anime, Dante e Virgilio, incedono a rilento, in un viaggio spirituale: Virgilio lo guida fino al cospetto della sofferenza, un ronzio ne acclama la vicinanza, sempre più forte, sempre più stridulo.
Una metafora letteraria della vita stessa, che inizia dall’alto e scende fino al punto più profondo della sua anima, dove alberga il Male più grande di tutti.
La prima scena che mette in moto il punctum vontrieriano riporta alla mente il quadro di Delacroix del 1822 (La barca di Dante) che prende vita con colori più vivaci nel quadro artistico di von Trier ma con una netta differenza sostanziale.
Delacroix dipingeva Dante con una mano alzata, come se volesse allontanarsi dai dannati che si stagliavano tutti intorno e Virgilio gli teneva la mano per salvarlo, traghettati dal demonio Flegias verso la città infuocata di Dite; von Trier, invece, dipinge lo stesso quadro con un Jack/Dante che non alza una mano per allontanarsi ma la blocca semplicemente davanti a sé, come se sapesse già il suo destino, come se stesse per afferrare qualcosa a cui aggrapparsi senza nessun aiuto, nemmeno da Virgilio, che sa già che l’unica via per la liberazione è una e una soltanto.
E una luce diversa proveniente dalle vetrate di una grande finestra sembra essere un’ancora di salvezza che nasconde, però, una duplice natura: uno sguardo per rendersi conto che i Campi Elisi sono inaccessibili, anche per Virgilio stesso nella Divina Commedia, e un Paradiso che non merita un’anima nera come la sua, nemmeno dopo la morte, nemmeno dopo la sua redenzione.
Solo il fuoco sta in attesa, le fiamme che bruceranno la sua vita senza possibilità di ritorno.
Una lacrima che scende dal viso di Jack, primo e ultimo segno della sua umanità, rievoca quel bambino che fin da piccolo aveva visto la morte manifestarsi davanti a sé, quando osservava gli uomini del villaggio che tagliavano l’erba con la falce (‹‹era come se il prato vivesse pienamente nella mia conoscenza››).
La morte che rivive nella mente di Jack adulto mentre contempla i campi del Paradiso, un posto dal sapore dolce che non gli appartiene.
E i suoi crimini, i suoi peccati affiorano come ricordi passati: una vita vissuta in pochi secondi per essere spazzata nell’oblio per sempre.
Quel ronzio fastidioso diventa molto più intenso: la parte più profonda dell’Inferno risorge nell’evocazione del male che attanaglia ogni spirito reo e Jack, tra il fuoco incandescente e il Virgilio inconscio che lo abbandona al suo triste epilogo, viene reclamato dalla dannazione eterna come un’anima in pena che nulla può contro l’Inferno vorace, avido di innato scetticismo.
E, persuaso dal bivio tra vita e morte, prova a trascenderla: il Jack killer si arrampica per scalare il muro dell’eterna perdizione che lo attende in quella luce oscura, in cui dimora il demone vivo nella vita, ora anche nella morte con un movimento della cinepresa che punta verso il basso, nell’abisso cupo della voragine fatale mentre Ray Charles intona la canzone“Hit the Road Jack”(o, anche, “Hit the Road Lars”) per “don't you come back no more”.
Conclusione
‹‹Le cattedrali antiche hanno spesso capolavori nascosti nei punti più bui, perché solo Dio possa vederli. Lo stesso vale per gli omicidi››
Il concetto di Arte viene qui rivisitato sotto un altro punto di vista.
In generale, l’Arte è associata al concetto di bello ideale, assoluto, a precisi canoni geometrici, una pura soddisfazione per gli occhi, ma non se il sangue misto a crudeltà dipinge un’opera d’arte. L’estetica della bellezza ideale si tingerebbe di una sfumatura lugubre, a tratti spaventosa.
L’Arte, per Jack, è qualcosa che va oltre la comprensione umana e nemmeno il tentativo di Virgilio nel cercare una morale ai suoi efferati omicidi è in grado di spiegarla.
È il narcisismo dell’Arte e dell’artista che vincono la sfida contro la morale occidentale.
Ma è forse qui il vero significato di tutto il film: è ciò che non vogliamo vedere che svela e spiega il senso dell’Arte oscura.
Ma se il mondo è crudele, allora la vera bellezza assoluta risiede nell’opera violenta del crimine premeditato, nel sadismo a metà tra piacere e terrore, un’arte che viene rigettata dall’uomo contemporaneo perché incompresa, inumana; in realtà, è proprio il concetto di “umano” che perde di significato e quanto l’orrore e la bestialità siano, invece, intrinseche nella natura umana.
E se il concetto di “umano” perde di credibilità, allora l’intera società deve essere rivalutata sotto un’altra ottica, che è quella dell’omicidio come simbolo di una società corrotta, che non accetta atteggiamenti che possano andare contro i principi etici della morale.
E sembrano riecheggiare le parole filosofiche di Friedrich Nietzsche quando parlava del suo Übermensch, qui riferite a von Trier stesso:
“[Il Superuomo] è visto come il grado più alto dell'evoluzione, ed esercita il diritto dettatogli dalla forza e dalla superiorità sugli altri. Questo diritto gli si presenta tuttavia anche come dovere di contrapporsi all'ipocrisia della massa e va contro la stessa tradizionale etica del dovere”.
Un Superuomo avverso in grado di far vedere l’immoralità della società e la violenza dietro l’etica del dovere di una società ipocrita: uno dei tanti focus del film, in cui sembra rinascere il terzo progetto mai compiuto sull’America violenta ancora più dura, Washington, che sarebbe dovuto uscire dopo Dogville (2003) e Manderlay (2005).
E la Casa surreale, l’opera più sconvolgente di tutte, è la sua Arte artefatta più terribile nella sua presa di coscienza violenta e distruttiva che lo nobilita alla purificazione spirituale che ha sempre bramato.
Quindi, l’arte come valore terapeutico, nella sua accezione più negativa ovviamente: “l’arte assume un valore terapeutico, poiché permette all’uomo di capacitarsi della sua condizione di miseria”.
Per di più, simbolismo e citazionismo si intersecano nel significato stesso dell’intero film.
Il colore rosso del furgone, del crick, dei cappelli indossati dalla madre e dai due bambini, allusione peraltro anche al cappello rosso usato da Donald Trump, a cui il film è ispirato, del filo del telefono, della tunica, dell’Inferno, è simbolo della morte stessa intrisa di sangue che da sempre lo ha dominato. E le digressioni psicologiche, filosofiche, letterarie, visive ne hanno costruito l’ultimo grande capolavoro di von Trier.
Complice anche la cinepresa a mano, disturbante per molte scene, che ondeggia e segue Jack nella sua irrazionalità, quasi a ricordare il primo film che ha portato Lars von Trier sul grande schermo, Le onde del destino del 1996, ma qui con onde emotive notevolmente più amplificate che si frantumano nel loro destino ineluttabile.
Il film si rivela essere una lotta contro il perturbante che sempre e per sempre lo ha portato a combattere una battaglia psichica con i suoi sensi di colpa che lo hanno annientato lentamente per anni, fin dalla tenera età e oltre.
E Virgilio non è solo la proiezione del suo doppio, un inconscio artistico che glorifica la sua opera più grande, l’“Eneide”, portandola alla distruzione fino al punto in cui non fu più Arte, ma è anche la solitudine che accompagna sempre la cattiveria umana che attende solo che ci sia una salvezza pronta ad afferrarla e portarla nel Paradiso divino. Ma è solo una vana illusione.
Nel turbinio infernale dell’anima, creato in un universo dantesco rovesciato, non esiste un girone in cui possa stare Jack dannato, e nemmeno von Trier che non riuscirà mai a redimersi dagli orrori della vita che lo hanno perseguitato.
E, alla fine, è la celebrazione della Morte oscura come unica via di liberazione a una vita vissuta su atrocità, fobie e omicidi interiori che, sulla base del tentato suicidio, del lungo periodo di depressione, delle incessanti accuse, dell’alcool, della droga, delle sue dichiarazioni filonaziste, ha costruito le fondamenta dell’Arte eterna nel baratro cinico delle fiamme amare e dolorose della sua afflizione.
LA CASA DI JACK (o di Lars von Trier?)
di Martina Corvaia
La Casa di Jack è un film del 2018 scritto e diretto dal regista danese Lars von Trier, ultima sua opera presentata in anteprima mondiale fuori concorso al Festival di Cannes, dopo che nel 2011 era stato bandito dal Festival per alcune sue dichiarazioni filonaziste.
Il titolo originale inglese è The House That Jack Built e in Italia è uscito un anno dopo in due versioni, una con tagli delle scene più cruente e una sottotitolata senza tagli, entrambe vietate ai minori di 18 anni.
Il progetto di von Trier, inizialmente, era quello di sviluppare una serie televisiva, salvo poi annunciare che si sarebbe trattato di un unico lungometraggio. Nel 2016 è stata ultimata la sceneggiatura, dopo varie ricerche condotte su diversi serial killer.
Per la prima volta nella sua carriera, von Trier ha diviso la sua lavorazione in due parti, in modo da avere la possibilità di modificare la seconda parte delle riprese, dopo il montaggio del film.
Il viaggio all’Inferno nell’epilogo finale rientra in questa seconda parte, con un von Trier probabilmente ancora reduce dai postumi della conferenza stampa sul film Melancholia che gli è costato il suo “suicidio professionale”.
Il film è stato prodotto dalla Zentropa, la casa di produzione da lui fondata.
La post-produzione è stata molto complicata, in particolare per gli effetti visivi poiché von Trier voleva paragonare l’omicidio a una rude opera d’arte e di architettura.
Il film mescola elementi innovativi e contemporanei insieme a elementi controversi tipici del suo cinema d’autore che ne fanno la differenza. Un film provocatore con Matt Dillon (Jack) e Bruno Ganz (Virgilio), ultima sua apparizione in un film, che vivono di Arte violenta, cruda, nell’America degli anni ’70, in un viaggio trascendentale all’interno dell’anima oscura.
La Casa di Jack è un thriller psicologico con venature horror, di cui già il titolo stesso rivela la sua architettura artistica, in cui confluisce tutta la sua filmografia precedente in un exemplum pessimista, che affronta il tema del disturbo ossessivo-compulsivo con le relative conseguenze di un serial killer che ne fa dei suoi omicidi la sua ragione di vita.
‹‹Il film più brutale che abbia mai realizzato›› lo ha definito von Trier, che celebra l’idea ‹‹che la vita sia crudele e spietata››.
La chiave di lettura del film
Uno schermo nero e un rumore di piccole onde che si infrangono, come se qualcuno stesse camminando in mezzo all’acqua, e due voci fuori campo incorniciano un preludio letterario di un racconto che sta per iniziare: una confessione senza giudizio in un cammino in cui nessuno ha mai cercato il silenzio ma ha sentito l’esigenza di parlare e di essere ascoltato, quasi una liberazione di qualche “rimorso” che opprime la parte oscura di un peccatore.
Il film si apre con cinque “incidenti” (i capitoli con un’immagine immobile, nella ripartizione tipicamente vontrieriana) scelti a caso nell’arco di dodici anni.
“Incidenti” che hanno portato Jack a rivalutare la sua esistenza di ingegnere-artista che sublima la sua arte sulle note musicali di Glenn Gould, uno dei più grandi pianisti di tutti i tempi, all’opera con la Sinfonia di Bach: ‹‹Lui rappresenta l’Arte›› dice Jack.
Un’Arte che tende alla perfezione ossessivo-psicotica, quindi, che per Jack è sinonimo di Ingegneria e Architettura, che ben si sposano per la costruzione della sua casa; ma un’Arte che ha bisogno del giusto materiale per elevarla a opera perfetta.
E quale migliore perfezione di un omicidio costruito a regola d’arte (e anche oltre) che lo ispiri per cercare quel materiale per la sua opera superba.
Il primo incidente
Un crick rosso appoggiato sul sedile, sollevato in aria con l’intenzione precisa di colpire e sopprimere la caparbietà di una donna, come se fosse una sorta di movimento quotidiano, quasi naturale, risveglia l’anima maligna di Jack che ha sete di sangue.
Il primo atto violento tra volere e potere di un serial killer che sta iniziando a vivere per la prima volta in tutta la sua vita.
E un sorrisino malizioso sembra ricordare il Norman Bates hitchcockiano dell’ultima scena di Psycho (1960) che guarda in macchina, come a voler dire che ciò che è stato visto non fosse stato abbastanza, qualcosa che ancora deve accadere: uno dei tanti serial killer che abitano la mente di Jack che ha voglia di uccidere per puro godimento mentale.
Ancora il compositore Glenn Gould che suona il pianoforte con estrema destrezza: non è un caso che von Trier fosse figlio di Fritz Michael Hartmann, appartenente a una nobile famiglia di compositori, solo perché la madre voleva che suo figlio avesse dei “geni artistici”. La perfezione già insita in quel bambino e il sangue d’artista puro che lo hanno “viziato” a spingersi sempre oltre, ad abbracciare l’idea che l’Arte lo avrebbe salvato.
Dipende dal concetto di Arte.
Il secondo incidente: la Religione e la Luce oscura
È il secondo incidente che innesca la molla della follia psicopatica: il suo disturbo ossessivo-compulsivo avvolge Jack in un vortice di perversione sanguinaria che cambia il suo modo di essere e non è solo David Bowie con la sua Fame del 1975 che lo conferma per tutto il film: “Fame, it’s not your brain, it’s just the flame / That burns your change to keep you insane”.
Ma proprio nel 1975, Lars von Trier, vedendo la sua immagine riflessa in uno specchio, ha incominciato ad auto venerarsi e a cambiare sé stesso. Scena in cui Jack si ritrova perfettamente, dietro due lenti di occhiali e l’auto contemplazione per i suoi omicidi sempre più artistici.
‹‹Non mi considero un uomo di fede particolarmente devoto […] ma devo ammetterlo: ho avvertito la pioggia, la più forte che abbia mai visto, come una specie di benedizione e l’omicidio come una specie di liberazione. Mi è sembrato di avere un supremo protettore››.
Jack non crede in un Dio che lo possa salvare, che lo possa portare in Paradiso liberandolo da un mondo di dannati che lo divorerebbero. Un momento profetico lo conduce sulla giusta via, come se finalmente avesse un posto nel mondo, come se l’omicidio non fosse sbagliato: una specie di liberazione per la sua anima.
E solo in quel momento capisce che qualcuno lo stava proteggendo, e non un Dio benevolo ma un Dio del male. Lui stesso era un Satana perverso e psicopatico.
E ancora von Trier prende il sopravvento: in principio, ebreo da parte del padre non biologico e, infine, ateo, senza nessuna aspirazione al soprannaturale.
Egotismo, oscenità, rudezza, impulsività, narcisismo, intelligenza, irrazionalità, manipolazione, sbalzi di umore, superiorità verbale: ogni termine con un significato forte che stringe Jack e von Trier sovrapponendoli in un’unica persona. Una provocazione a chi lo ha criticato, lo ha accusato, lo ha denigrato con qualsiasi mezzo a disposizione ma definendosi comunque superiore a tutti in ogni ambito, senza paura di censura.
Un invito all’Invidia che si prostra ai piedi del suo Egocentrismo, se così si può dire.
«Quando avevo dieci anni ho scoperto che, attraverso il negativo, vedi la vera qualità demoniaca insita nella luce: la luce oscura»
Un bambino che cresce nella consapevolezza della morte e nella paura di non essere amato, nell’autodeterminazione, senza nessun genitore che lo possa accompagnare nel suo percorso di vita, non ha soltanto maturato la malvagità dell’essere umano, ma ha accelerato quel bisogno di sentirsi appagato nel commettere azioni brutali fin dall’infanzia. Un turbamento che è semplicemente iniziato da sempre, oppresso per qualche tempo e destatosi dal suo lungo letargo. È forse qui che risiede la vera natura intrinseca nell’animo umano? È un bambino che si schiera dalla parte del Male che lo tiene per mano senza perderlo di vista?
Una vita innocente e la Morte che tutto governa si scontrano in una battaglia senza eguali, l’una cerca di sovrastare l’altra ma entrambe continuano a convivere nel paradosso umano.
Quel bambino che guarda intensamente una luce luminosa, chiara, all’improvviso scopre che in un fotogramma è il negativo che fa vedere ciò che è reale: l’oscurità, il demone che colpisce come un’arma a doppio taglio, che lacera l’anima e la taglia in due: la parte oscura, già vitale, che cammina di pari passo con il Diavolo in persona, pronto a elevarsi ancora più in alto.
La sua opera più grande è in attesa di un risvolto, lo sta aspettando ed è la più terribile di tutte.
Il terzo incidente
Il terzo incidente è il massimo livello di perfezione artistica, la sua opera migliore.
Può l’amore salvarlo? È Arte anche questa, senza dubbio, ma non basta.
Finalmente una famiglia che lo amava, due bambini che dipendevano dalle sue labbra, un onore riservato a pochi, se l’argomento della caccia di grossi animali non avesse scosso quel clima.
‹‹[…]La parata dei trofei, praticata soprattutto in Europa alla fine della caccia, come l’estremo insulto in cui ogni specie ha un suo posto tradizionale››
Un’opera d’arte, la più bella e brutale di tutte, una caccia spietata contro una madre e i suoi figli piccoli freddati con cinque pallottole di un fucile: Jack prendeva molto sul serio l’etica della caccia, anche se l’ordine di morte era diverso.
E Mr. Sophistication, in preda alla sua furia omicida, fa strage di due bambini, sensibili e ingenui, uccisi come animali in fuga, e della madre, ridotta a mero trofeo di caccia andata a buon fine, in una carneficina senza retroscena.
Dopotutto, è stato un “gentiluomo” Jack, come lui stesso aveva detto, quasi un favore ordinato dalla sua gentilezza apatica.
Contava soltanto la nozione globale di trofei, e non l’azione vera e propria, anche se riguardava la sua famiglia, anche se c’erano bambini. Era solo un’opera d’arte, l’esaltazione del sublime che aveva importanza.
Una famiglia che non aveva voce in capitolo, una famiglia assente che non lo ha mai voluto e che ha suscitato, invece, un trauma esistenziale.
E Jack, che soccombe all’idea di padre che non è mai stato e che non l’ha mai avuto, indossa la maschera di von Trier, che forse ha sempre visto la proiezione del bene nel padre che non è mai stato presente, che lo ha ferito con un pugnale nel cuore sul letto di morte, scoprendo che la menzogna lo aveva soffocato e ucciso.
E von Trier con lui.
Il quarto incidente
Jack: ‹‹Ho un sapore acido in bocca››
Virgilio:‹‹ È l’acido di cui cominci a sentire il sapore. Compare a questa profondità. Temo proprio che ti ci dovrai abituare››
Un sapore metallico di sangue, acre, di morte, comincia a farsi sentire nella bocca di Jack.
Il quarto incidente è l’apoteosi di una società che, invece di fare del bene, è così cieca che non si rende neanche conto che il vero male è proprio lì davanti ai suoi occhi. La polizia, da anni alla ricerca del famigerato serial killer che porta solo devastazione, se ne sta lì a guardare la misoginia di un uomo che sembra pentirsi e confessare la sua crudeltà, per poi rivelarsi un approfittatore astuto che si prende gioco dell’inettitudine degli uomini che vivono in un mondo così insignificante.
Una provocazione sulla provocazione a una società ipocrita e l’esempio plateale di un’accusa, quella sulla misoginia, mossa al regista che ha saputo portarsi dentro tutta questa villania, plasmandola in un nevrotico che cerca solo il giusto piacere nella propria vita.
‹‹In questo Inferno di mondo nessuno vuole darti una mano››
Man mano, Jack e von Trier delineano i loro tratti caratteristici in una sorta di perfezione dell’anima umana che, in una società che li respinge perché soggetti controversi, l’unico modo per poter sopravvivere è fare altrettanto qualcosa di controverso e provocatorio per andare avanti.
E Jack lo fa, ancora e ancora, nel completo compiacimento di accontentare la sua insaziabile anima sanguinaria per lenire il dolore perché nessuno è in grado di assecondarlo.
La solitudine che circonda con le sue braccia forti un’anima che non è accettata deve da sola crearsi il suo mondo per continuare a vivere, solo perché non ne può fare a meno o perché una traccia di sangue può risvegliare l’Inconscio sopito.
Jack procede sulla scia degli omicidi, arrivando anche a uccidere più di sessanta persone che ancora non riescono ad alleviare la sua angoscia.
La colpa di essere nato maschio e anche colpevole, le donne sempre le vittime e gli uomini sempre i criminali: il quarto incidente si conclude nella constatazione che l’uomo è sempre la parte cattiva che è colpevole per tutto ciò che fa mentre la donna recita sempre la parte di vittima del carnefice.
E qui la famosa accusa di abusi sessuali che era stata rivolta a Lars von Trier molti anni fa si anima come mai prima d’ora.
E ancora: quel desiderio di provocare per essere cercato, per farsi conoscere nel mondo che lo allontana, per avere un posto in quel mondo che lui stesso disprezza e che non capirà mai.
La provocazione mai fine a sé stessa.
Il valore delle icone e il quinto incidente
Jack: ‹‹Tutte le icone che hanno avuto e sempre avranno un impatto sul mondo sono per me Arte stravagante››
Le più terribili icone che hanno segnato la storia, scolpite ormai nell’immaginario collettivo, prendono vita in un processo documentaristico che passa dal bianco e nero al colore e viceversa, in una sorta di ipnosi metafisica, che tendono a esaltare la figura di Hitler, fonte di ispirazione per Jack che ne costruisce il suo pensiero fondante circa l’etica del suo assassinio, e Albert Speer, architetto e ministro di Hitler, di cui ne valorizza il valore delle rovine costruite con materiali deboli e resistenti per apparire, molto tempo dopo, esteticamente perfette.
Von Trier, vestendosi da serial killer, uccide la sua credibilità con dichiarazioni esplicite filonaziste dopo essere stato espulso dal Festival di Cannes per essersi mostrato incline a ‹‹uno dei più grandi crimini di tutti i tempi contro l’umanità››. Quindi, Jack e von Trier sono teorici dello sterminio di massa su larga scala, addentrandosi nel labirinto oscuro della mente hitleriana.
Una istigazione evidente quella di von Trier che non si vergogna del suo essere controverso neanche con la personalità più disumana mai esistita al mondo.
E Jack arriva ad affermare che l’Inferno e il Paradiso sono la stessa cosa, l’anima appartiene al Paradiso e il corpo all’Inferno; l’anima è ragione e il corpo è tutte le cose pericolose, per esempio l’Arte e le icone, su uno sfondo di scene tratte dai suoi film che hanno urlato lo scandalo (Nymphomaniac, AntiChrist, Melancholia) che si risvegliano dal loro lungo sonno e si mescolano al logos letterario-filosofico che ne evidenzia la materialità dell’Arte, dettata dal corpo, e la sua spiritualità, dettata dall’anima, nel dualismo Inferno-Paradiso che non ammette distinzioni.
L’“esperimento” tedesco del quinto incidente rappresenta il punto di svolta di tutto il film.
Un solo proiettile incamiciato per Jack che lo utilizza come tributo a quella ingegnosità, un chiaro omaggio alle oscenità tedesche e a Hitler stesso, un esperimento “divertente” per onorare la più grande crudeltà umana della Germania nazista di quegli anni.
La giusta leva che, con smisurato vigore, squarcia l’anima tormentata e conduce Jack ad accettare la sua condizione, che si traduce in un esperimento osannato che riesce a trovare il giusto spazio per la sua esecuzione.
E quella porta, che era rimasta chiusa fin dall’inizio del film, si apre nel buio totale che sovrasta la tunica rossa di Jack stesso. La porta della sua anima dannata, metaforicamente parlando.
Un colore rosso acceso, rubato al suo migliore amico, che si muove nella sua ultima volontà, fino a quando una voce, adesso con sembianze umane, lo chiama e lo sconvolge, quello spettro che lo ha sempre seguito come un’ombra nel suo percorso di vita senza abbandonarlo mai.
La Ragione, che ha il nome di Virgilio, lo reindirizza sulla diritta via. Jack, l’Anticristo depravato omicida che uccide per arte, finalmente trova il materiale per costruire la casa che aveva trascurato e i cadaveri, ammassati nella cella frigorifera, prendono forma nella Morte pura che adesso acquista un senso: il senso della sua vita.
La Morte che von Trier ha sempre ricercato nel tentato suicidio e che non è mai riuscita a compiersi.
Epilogo: Catabasi
Un cerchio, che si era aperto su uno schermo nero, adesso trova il suo punto di chiusura.
L’Inferno dantesco si dipana tra le vie tortuose del regno dell’oltretomba e due anime, Dante e Virgilio, incedono a rilento, in un viaggio spirituale: Virgilio lo guida fino al cospetto della sofferenza, un ronzio ne acclama la vicinanza, sempre più forte, sempre più stridulo.
Una metafora letteraria della vita stessa, che inizia dall’alto e scende fino al punto più profondo della sua anima, dove alberga il Male più grande di tutti.
La prima scena che mette in moto il punctum vontrieriano riporta alla mente il quadro di Delacroix del 1822 (La barca di Dante) che prende vita con colori più vivaci nel quadro artistico di von Trier ma con una netta differenza sostanziale.
Delacroix dipingeva Dante con una mano alzata, come se volesse allontanarsi dai dannati che si stagliavano tutti intorno e Virgilio gli teneva la mano per salvarlo, traghettati dal demonio Flegias verso la città infuocata di Dite; von Trier, invece, dipinge lo stesso quadro con un Jack/Dante che non alza una mano per allontanarsi ma la blocca semplicemente davanti a sé, come se sapesse già il suo destino, come se stesse per afferrare qualcosa a cui aggrapparsi senza nessun aiuto, nemmeno da Virgilio, che sa già che l’unica via per la liberazione è una e una soltanto.
E una luce diversa proveniente dalle vetrate di una grande finestra sembra essere un’ancora di salvezza che nasconde, però, una duplice natura: uno sguardo per rendersi conto che i Campi Elisi sono inaccessibili, anche per Virgilio stesso nella Divina Commedia, e un Paradiso che non merita un’anima nera come la sua, nemmeno dopo la morte, nemmeno dopo la sua redenzione.
Solo il fuoco sta in attesa, le fiamme che bruceranno la sua vita senza possibilità di ritorno.
Una lacrima che scende dal viso di Jack, primo e ultimo segno della sua umanità, rievoca quel bambino che fin da piccolo aveva visto la morte manifestarsi davanti a sé, quando osservava gli uomini del villaggio che tagliavano l’erba con la falce (‹‹era come se il prato vivesse pienamente nella mia conoscenza››).
La morte che rivive nella mente di Jack adulto mentre contempla i campi del Paradiso, un posto dal sapore dolce che non gli appartiene.
E i suoi crimini, i suoi peccati affiorano come ricordi passati: una vita vissuta in pochi secondi per essere spazzata nell’oblio per sempre.
Quel ronzio fastidioso diventa molto più intenso: la parte più profonda dell’Inferno risorge nell’evocazione del male che attanaglia ogni spirito reo e Jack, tra il fuoco incandescente e il Virgilio inconscio che lo abbandona al suo triste epilogo, viene reclamato dalla dannazione eterna come un’anima in pena che nulla può contro l’Inferno vorace, avido di innato scetticismo.
E, persuaso dal bivio tra vita e morte, prova a trascenderla: il Jack killer si arrampica per scalare il muro dell’eterna perdizione che lo attende in quella luce oscura, in cui dimora il demone vivo nella vita, ora anche nella morte con un movimento della cinepresa che punta verso il basso, nell’abisso cupo della voragine fatale mentre Ray Charles intona la canzone“Hit the Road Jack”(o, anche, “Hit the Road Lars”) per “don't you come back no more”.
Conclusione
‹‹Le cattedrali antiche hanno spesso capolavori nascosti nei punti più bui, perché solo Dio possa vederli. Lo stesso vale per gli omicidi››
Il concetto di Arte viene qui rivisitato sotto un altro punto di vista.
In generale, l’Arte è associata al concetto di bello ideale, assoluto, a precisi canoni geometrici, una pura soddisfazione per gli occhi, ma non se il sangue misto a crudeltà dipinge un’opera d’arte. L’estetica della bellezza ideale si tingerebbe di una sfumatura lugubre, a tratti spaventosa.
L’Arte, per Jack, è qualcosa che va oltre la comprensione umana e nemmeno il tentativo di Virgilio nel cercare una morale ai suoi efferati omicidi è in grado di spiegarla.
È il narcisismo dell’Arte e dell’artista che vincono la sfida contro la morale occidentale.
Ma è forse qui il vero significato di tutto il film: è ciò che non vogliamo vedere che svela e spiega il senso dell’Arte oscura.
Ma se il mondo è crudele, allora la vera bellezza assoluta risiede nell’opera violenta del crimine premeditato, nel sadismo a metà tra piacere e terrore, un’arte che viene rigettata dall’uomo contemporaneo perché incompresa, inumana; in realtà, è proprio il concetto di “umano” che perde di significato e quanto l’orrore e la bestialità siano, invece, intrinseche nella natura umana.
E se il concetto di “umano” perde di credibilità, allora l’intera società deve essere rivalutata sotto un’altra ottica, che è quella dell’omicidio come simbolo di una società corrotta, che non accetta atteggiamenti che possano andare contro i principi etici della morale.
E sembrano riecheggiare le parole filosofiche di Friedrich Nietzsche quando parlava del suo Übermensch, qui riferite a von Trier stesso:
“[Il Superuomo] è visto come il grado più alto dell'evoluzione, ed esercita il diritto dettatogli dalla forza e dalla superiorità sugli altri. Questo diritto gli si presenta tuttavia anche come dovere di contrapporsi all'ipocrisia della massa e va contro la stessa tradizionale etica del dovere”.
Un Superuomo avverso in grado di far vedere l’immoralità della società e la violenza dietro l’etica del dovere di una società ipocrita: uno dei tanti focus del film, in cui sembra rinascere il terzo progetto mai compiuto sull’America violenta ancora più dura, Washington, che sarebbe dovuto uscire dopo Dogville (2003) e Manderlay (2005).
E la Casa surreale, l’opera più sconvolgente di tutte, è la sua Arte artefatta più terribile nella sua presa di coscienza violenta e distruttiva che lo nobilita alla purificazione spirituale che ha sempre bramato.
Quindi, l’arte come valore terapeutico, nella sua accezione più negativa ovviamente: “l’arte assume un valore terapeutico, poiché permette all’uomo di capacitarsi della sua condizione di miseria”.
Per di più, simbolismo e citazionismo si intersecano nel significato stesso dell’intero film.
Il colore rosso del furgone, del crick, dei cappelli indossati dalla madre e dai due bambini, allusione peraltro anche al cappello rosso usato da Donald Trump, a cui il film è ispirato, del filo del telefono, della tunica, dell’Inferno, è simbolo della morte stessa intrisa di sangue che da sempre lo ha dominato. E le digressioni psicologiche, filosofiche, letterarie, visive ne hanno costruito l’ultimo grande capolavoro di von Trier.
Complice anche la cinepresa a mano, disturbante per molte scene, che ondeggia e segue Jack nella sua irrazionalità, quasi a ricordare il primo film che ha portato Lars von Trier sul grande schermo, Le onde del destino del 1996, ma qui con onde emotive notevolmente più amplificate che si frantumano nel loro destino ineluttabile.
Il film si rivela essere una lotta contro il perturbante che sempre e per sempre lo ha portato a combattere una battaglia psichica con i suoi sensi di colpa che lo hanno annientato lentamente per anni, fin dalla tenera età e oltre.
E Virgilio non è solo la proiezione del suo doppio, un inconscio artistico che glorifica la sua opera più grande, l’“Eneide”, portandola alla distruzione fino al punto in cui non fu più Arte, ma è anche la solitudine che accompagna sempre la cattiveria umana che attende solo che ci sia una salvezza pronta ad afferrarla e portarla nel Paradiso divino. Ma è solo una vana illusione.
Nel turbinio infernale dell’anima, creato in un universo dantesco rovesciato, non esiste un girone in cui possa stare Jack dannato, e nemmeno von Trier che non riuscirà mai a redimersi dagli orrori della vita che lo hanno perseguitato.
E, alla fine, è la celebrazione della Morte oscura come unica via di liberazione a una vita vissuta su atrocità, fobie e omicidi interiori che, sulla base del tentato suicidio, del lungo periodo di depressione, delle incessanti accuse, dell’alcool, della droga, delle sue dichiarazioni filonaziste, ha costruito le fondamenta dell’Arte eterna nel baratro cinico delle fiamme amare e dolorose della sua afflizione.