Gli studenti del Master in Management dell'Immagine, del Cinema e dell'Audiovisivo dell'Università Cattolica di Milano, hanno svolto delle interessanti analisi per il corso di Storia e scenari dell'immagine e dell'audiovisivo: le pubblichiamo con piacere sul nostro portale! Complimenti!
L’ESTETICA DELLA PERFORMANCE VIDEOLUDICA IN 1917 DI SAM MENDES
di Tommaso Sarasini
Il mondo del cinema e il mondo dei videogiochi hanno sempre dialogato tra loro in modo biunivoco, restituendosi a vicenda tecniche e trovate narrative a beneficio della struttura e della natura della storia che vogliono raccontare. In generale si può dire che i videogiochi, essendo il veicolo più giovane per raccontare storie, prendono in prestito le convenzioni tradizionali, adattandole alle loro esigenze; mentre i film riproducono talora le dinamiche proprie del linguaggio videoludico, alla ricerca di innovazioni non ancora esplorate al cinema, oppure di nuove prospettive per vecchie storie.
Una delle strategie narrative tipiche dei videogiochi spesso mutuata dai film è l’assegnazione di un obbiettivo al protagonista, archetipo che risale alla fiaba, che si trasforma nella missione che guida lo sviluppo lineare di trama e personaggi. Anche la narrazione procedurale a livelli nettamente distinti nei film è di ovvia ispirazione videoludica, ed è particolarmente evidente nelle pellicole che raccontano storie ambientate all’interno di videogiochi – Jumanji: Benvenuti nella giungla (2017) e Ready Player One (2018), oppure il metanarrativo Existenz (1999) – ma anche nelle pellicole che prevedono una sequenza d’azione in corrispondenza di ogni diversa location, come nello stratificato Inception (2010) o nel lineare Mad Max: Fury Road (2015).
Naturalmente, quelle appena elencate sono generalizzazioni che non vogliono definire in modo assoluto la dipendenza del cinema dai videogiochi, o viceversa. Si tratta di un circuito di riferimenti reciproci che si fonda sulla più ampia arte dello storytelling. Infatti si può individuare una struttura a livelli anche in opere più vecchie come Licenza di uccidere (1958) o I predatori dell’arca perduta (1981), il cui respiro internazionale e avventuroso è stato poi ricalcato da serie di giochi di successo come Tomb Raider (1996-2018) e Uncharted (2007-2016).
Uno stile di narrazione di derivazione prettamente videoludica è quello adottato dal filone di film che va da Ricomincio da capo (1993) fino a casi più recenti come Edge of Tomorrow – Senza domani (2014) e Auguri per la tua morte (2017): il protagonista si ritrova in un loop temporale, all’interno del quale rivive ciclicamente sempre la stessa giornata, come succede nei videogiochi quando si ricomincia un livello sempre dallo stesso punto (di solito perché il personaggio è morto).
Analizzando la trama di 1917 (2019) di Sam Mendes si riscontrano i tipici passaggi della ‘logica da videogioco’.
Ambientato sul fronte francese durante la Prima Guerra Mondiale, il film segue i due giovani caporali inglesi William Schofield e Tom Blake nella loro pericolosa missione di attraversare la ‘terra di nessuno’ e di raggiungere un battaglione alleato in tempo per avvertire le truppe di una letale trappola dei nemici tedeschi.
Già nella definizione della quest concettualmente molto semplice e lineare la trama ha la stessa impostazione di un capitolo o di una partita di un videogioco di guerra come potrebbe essere Battlefield 1 (2016), sparatutto in prima persona ambientato proprio durante la Prima Guerra Mondiale.
Inoltre, bisogna notare che la storia di 1917 è raccontata ampiamente attraverso i suoi grandiosi set, che si manifestano di volta in volta come livelli di un videogioco, giustapposti secondo una coerenza spaziale che è contrastata da una varianza cromatica simbolica: la terra di nessuno della prima sequenza di tensione è a metà tra il grigio inquietante della nebbia (nella quale si nasconde ogni potenziale pericolo, incrementando l’ansia e l’incertezza) e il marrone marcio del fango e dei cadaveri (unica macabra certezza visibile e tangibile per i protagonisti); il retro della trincea nemica è improvvisamente bianco e accecante, in opposizione all’oscurità oppressiva dei cunicoli da cui i protagonisti sono fuggiti, dirigendosi istintivamente verso la luce della salvezza; il boschetto e il frutteto sono dominati dai colori della natura (verde degli alberi e del prato, rosa dei fiori di ciliegio), e accompagnano infatti una momentanea sequenza di quiete e tranquillità; la sequenza notturna dei fuochi della città di Écoust è dominata dall’arancione, conferendo un effetto psichedelico che sottolinea l’estetica onirica del momento; la trincea finale del film è bianca e immacolata, e costituisce un evidente ossimoro che rappresenta il campo di battaglia ancora vergine e intatto, ma che sarà presto devastato e ridotto allo stato dell’iniziale terra di nessuno se il protagonista non riuscirà a completare la sua missione.
Tutti gli scenari sono non solo esteticamente ma anche funzionalmente molto diversi tra loro, e cambiano il ritmo del film dipingendo atmosfere e situazioni che suggeriscono approcci differenti da parte dei personaggi (se si trattasse di un videogioco si parlerebbe di stili di gameplay differenti): la terra di nessuno è irta di ostacoli inanimati ma letali se sottovalutati, mentre dalla nebbia potrebbe comparire un nemico all’improvviso, quindi ogni movimento dei personaggi è cauto e soppesato; all’ingresso di Écoust compare il primo vero nemico, un cecchino tedesco, e il comportamento del protagonista diventa più proattivo durante il conflitto; la notte a Écoust, invece, favorisce i movimenti furtivi, e l’azione diventa logicamente stealth perché Schofield è circondato da nemici; infine, nella scena di fuga dalla città il ritmo diventa adrenalinico.
Con lo scorrere dei livelli si verifica, inoltre, un aumento della difficoltà per il protagonista Schofield (le cui ‘prove’ diventano sempre più fisiche e logoranti), coerente con la crescita del climax previsto dalla tradizionale struttura in tre atti della storia. Ad ammortizzare la tensione e a mantenere bilanciata la narrazione interviene però un’alternanza regolare tra scene di pericolo e scene di quiete, parallela all’atmosfera di ogni livello. Tuttavia, il film sceglie di rompere due volte questo schema a scopo drammatico. La prima volta, in contrasto con il paesaggio sereno e bucolico della fattoria, il co-protagonista Blake muore all’improvviso in maniera tragicamente insensata tra le braccia dell’amico. In seguito, un esausto Schofield galleggia a mala pena nel fiume in cui si è gettato scappando da Écoust, quando una pioggia di petali di ciliegio (che simbolicamente richiamano Blake e il suo ultimo momento di serenità) lo riporta alla missione e gli ridà forza; ma questa speranza si scontra di nuovo con la cruda realtà, quando Schofield subito dopo rimane incastrato in un ammasso di cadaveri galleggianti orridamente gonfi e decomposti.
I parallelismi rilevati tra 1917 e il design videoludico evidenziano come il linguaggio dei videogiochi sia portatore di significati che, se applicati allo storytelling cinematografico, possono aggiungere livelli di interpretazione anche alle trame più tradizionali.
La particolarità cinematografica di 1917, e il motivo per cui evoca l’estetica di un videogioco, è però il suo totale piano sequenza (fatta eccezione per l’unico taglio netto circa a metà film). L’intenzione è quella di ricreare l’esperienza continua e senza interruzioni che si riproduce mentre si gioca ad un videogioco.
Già altri film hanno provato a simulare questa continuità adrenalinica e senza pause, come Hardcore! (2015), girato anch’esso in un unico artificiale piano sequenza, ma con la prospettiva in prima persona per imitare i videogiochi FPS (First-Person-Shooter).
In realtà, anche se nei videogiochi l’esperienza di gioco appare ad uno spettatore come ininterrotta nelle sezioni interattive di gameplay, di solito dei tagli (o cut) intervengono nel momento in cui sono riprodotte le scene cinematiche di intermezzo (le cutscene, appunto), rompendo la continuità. Questa intromissione del linguaggio cinematografico all’interno dei videogiochi è molto interessante, perché denota evidentemente un legame radicato tra i due media a livello di tecnica di storytelling. La telecamera di un videogioco non è una telecamera fisica, e quindi non è costretta dalle convenzioni delle vere telecamere: se la telecamera cinematografica cattura delle immagini, quella videoludica le genera. Eppure all’interno delle narrazioni videoludiche si seguono comunque canoni narrativi cinematografici, che fanno ormai parte del DNA dello storytelling audiovisivo. Bruce Straley (direttore di gioco) e Neil Druckmann (direttore creativo), autori dell’acclamato videogioco The Last of Us (2013), hanno dichiarato in un’intervista a Empire che, durante la realizzazione del gioco, si sono volutamente limitati nei movimenti di macchina, mantenendoli vicini al linguaggio filmico, come un operatore in carne e ossa avrebbe potuto girarli: secondo loro una telecamera che non segue le regole cinematografiche risulta alienante, rovinando l’immersione.
Nel videogioco God of War (2018) gli autori hanno realizzato un autentico piano sequenza unico, in grado di alternare, senza alcun taglio o interruzione, gli intermezzi cinematici con le parti di gameplay effettivo.
Con 1917, Sam Mendes e il direttore della fotografia Roger Deakins sono riusciti a tradurre cinematograficamente lo stesso tipo di estetica ricercata e riprodotta da God of War o, in generale, dai videogiochi in terza persona – il regista stesso ha affermato di essere stato influenzato dal videogioco western Red Dead Redemption (2010).
Il momento in cui questo proposito si dischiude davanti agli occhi del pubblico è all’inizio del film, quando i due protagonisti hanno ricevuto istruzioni ed equipaggiamento e sono pronti a partire per la missione. Tutta la parte introduttiva è funzionalmente assimilabile ad una lunga cutscene di inizio gioco, in cui non c’è possibilità di interazione; ma, non appena Schofield e Blake risalgono le scalette ed emergono dalla trincea nella terra di nessuno, ecco che, senza soluzione di continuità, i personaggi (PG) entrano nella sezione di gameplay, all’interno della quale il pericolo (assente nelle cutscene) diventa una variabile, e il tipo e la qualità di performance adottati faranno la differenza tra la vita e la morte per i PG.
Con la differenza che qui non c’è nessun giocatore ad attuare la performance, ma solo spettatori ad assistervi.
A questo punto è opportuno chiarire il concetto di performance nei videogiochi. Rielaborando le osservazioni di Clara Fernández-Vara (esperta di studi comparativi tra videogiochi e altri media), si può definire la performance come il modo in cui il giocatore interagisce col sistema di gioco e le sue regole (cioè il testo videoludico). Quando il giocatore gioca, egli ricopre il ruolo di attore della performance; però, allo stesso tempo, per dare un significato alla performance il giocatore deve essere anche spettatore.
In breve: l’estetica del videogioco fa parte dell’esperienza del giocatore come spettatore della sua stessa performance.
In 1917 la componente attoriale è eliminata dall’equazione, trattandosi di un film senza possibilità di interazione. Resta però l’estetica della performance, che restituisce la stessa impressione di interpretazione di un testo videoludico.
Su questo piano, 1917 può essere criticato perché sembra la registrazione di un gameplay giocato da qualcun altro, e su questo non si può ribattere, perché, dopotutto, solo il videogioco è in grado di produrre eventi al presente, mentre il film li ha già prodotti in passato.
Tuttavia, gli autori sono stati capaci di rappresentare una performance videoludica in chiave cinematografica, riuscendo a preservare la connessione estetica tra attorialità e spettatorialità. Lo studioso di videogiochi Barry Atkins descrive il processo di scoperta della performance ideale come un “momento di gaming cinema”, cioè come il momento in cui performance videoludica (compiuta da un giocatore-attore nel presente) e sequenza cinematografica (diretta da un regista nel passato e vista da uno spettatore) combaciano stilisticamente al punto da risultare indistinguibili nell’esecuzione. Lo spettatore cinematografico riconosce questo linguaggio transmediale, che lo immerge nella stessa trance del videogiocatore, e che gli restituisce la riproduzione della performance ideale (cioè la stessa che lo spettatore avrebbe desiderato replicare se avesse potuto esserne l’attore) senza, però, il bisogno di una partecipazione attiva.
Naturalmente, la performance è ideale perché è anche l’unica possibile (come detto prima, il film crea nel passato), ma l’immedesimazione raggiunta dallo spettatore è tale da lasciarlo soddisfatto come se avesse contribuito alla sua esecuzione e realizzazione.
Nonostante la mancanza di attorialità (in senso videoludico), 1917 è riuscito attraverso l’uso del piano sequenza ad innescare una totale immedesimazione e immersione degli spettatori nell’ambientazione, e a cementare il loro legame con i PG. La chiave è stata tenere sempre al centro dell’obbiettivo il PG: infatti, come spiega il critico di videogiochi Mark Brown, vedere costantemente il PG aiuta a sentire una connessione con lui.
Questo è il principio della telecamera videoludica over-the-shoulder, per il quale il giocatore è il marionettista, in posizione di superiorità perché incarnato nella telecamera fluttuante e scorporata alle spalle del PG, mentre è l’avatar marionetta ad essere il fulcro dell’inquadratura. Il rapporto è biunivoco: ogni output recitato dall’avatar deriva da uno stimolo innescato dal giocatore attore; questo output, però, si ripercuote sul giocatore in quanto spettatore, che è sensibile alla performance di cui è sì attore, ma è anche testimone e di cui si sente responsabile (direttamente, quando l’output è scatenato da un suo input, o indirettamente, quando l’output è causato da un intervento diegetico come può essere il danno ricevuto dal PG e inflitto da un nemico).
Questo duplice rapporto è estremizzato nel videogioco Beyond: Due anime (2013) attraverso le figure dei due protagonisti: Jodie (interpretata da Ellen Page via motion capture) è l’eroina del gioco, ed è comandata dal giocatore con una prospettiva in terza persona; Aiden è invece una misteriosa entità incorporea e invisibile, intimamente connessa a Jodie, ed è praticamente l’incarnazione della telecamera di gioco in un PG, la cui prospettiva è vista dal giocatore in prima persona. A rafforzare questa simbologia meta-videoludica, interviene a livello di gameplay il fatto che Aiden, pur essendo in grado di muoversi liberamente all’interno di un livello di gioco fluttuando e passando attraverso i muri, non può allontanarsi eccessivamente da Jodie perché è costantemente legato ad un ‘filo invisibile’ che li tiene uniti, una metafora dell’indissolubilità del rapporto avatar-telecamera.
1917 è capace di ricreare l’estetica videoludica seguendo queste stesse regole, conservando il rapporto che intercorre tra avatar e telecamera, la quale però perde l’identificazione col ruolo di attore (inconciliabile con il medium cinematografico per la mancanza di interattività) e diventa l’incarnazione del solo ruolo di spettatore.
In questo modo, lo spettatore si proietta all’interno del film come una presenza invisibile che segue i protagonisti, entrando a far parte della loro squadra. Tuttavia è importante sottolineare che quella dello spettatore è una manifestazione incorporea: esso si ritrova dentro alla storia del film non nei panni del PG, ma piuttosto sentendosi legato al PG. Per questo motivo l’immedesimazione dello spettatore raggiunge il PG nell’intimità, arrivando a condividere lo stesso istinto di sopravvivenza che, in linea col discorso videoludico, lo porta a sentirsi responsabile del suo avatar. In definitiva, benché lo spettatore non sia in prima persona nel campo di battaglia, percepisce comunque che il suo destino (ovvero la sua esperienza spettatoriale) sia legato a quello del PG, sua estensione nel mondo della finzione.
L’adesione simbiotica della telecamera al PG impone un punto di vista limitato perché l’inquadratura è costantemente costretta sull’avatar. Questo aspetto ha certamente un effetto di immedesimazione, ma anche di insicurezza: lo spettatore, come il protagonista del film, non ha una visione d’insieme. La telecamera trasmette dunque allo spettatore un senso di limitatezza claustrofobica e soffocante, perché gli è negata l’abilità di avere una conoscenza superiore a quella del PG a cui è incatenato.
Per comprendere quanto appena detto, basti pensare al fatto che l’episodio di svolta più importante per lo sviluppo della storia del film, cioè la morte di Blake, avviene off-screen perché al di fuori del campo visivo di Schofield.
Il fatto che la telecamera sia ancorata al PG in quanto avatar dello spettatore si riflette anche nei movimenti di macchina. Sebbene la telecamera sia connessa ai movimenti dell’avatar, non necessariamente si muove di pari passo con l’avatar: per esempio, in situazioni di pericolo il PG si accuccia, e pure la telecamera si tiene bassa, mettendosi istintivamente al riparo (come succede nella terra di nessuno, quando Schofield e Blake temono di essere attaccati da un momento all’altro); oppure, in situazioni dinamiche, la telecamera si muove freneticamente, coordinata col PG per coprire in sinergia una visuale più ampia possibile (come nella scontro col cecchino, durante il quale, mentre Schofield si dirige di corsa direttamente verso l’edificio per stanare l’avversario, la telecamera esamina prontamente i dintorni per individuare altri eventuali pericoli).
Un’altra conseguenza della relazione telecamera-avatar è evidente quando il PG riceve danno: l’impatto risale i fili invisibili che collegano la telecamera al PG e la stessa telecamera risente del danno (arrivando, nei videogiochi, a sporcarsi di sangue). Proprio quello che succede quando Schofield viene colpito dal cecchino e batte la testa: anche la telecamera si spegne per l’urto, e lo schermo diventa immediatamente nero di riflesso (come una schermata di ‘Game Over’).
Si può affermare che a volte la telecamera arrivi ad agire anche a favore del PG, inquadrando e focalizzando l’attenzione solo sugli elementi fondamentali che lo circondano – in un certo senso si può dire che ciò che compare nell’inquadratura è fondamentale perché inquadrato, e che compare quando diventa fondamentale. Nella logica del piano sequenza ininterrotto (sia nei film che nei videogiochi) tutto appare al posto giusto nel momento giusto, facendo scorrere gli eventi in modo puntuale. Allo stesso tempo, dunque, tutto ciò che rimane fuori dall’inquadratura è inutile: in pratica, è come se non esistesse.
Con questa logica, la telecamera vede e individua istintivamente la direzione del PG e quindi della storia. Simbolicamente la genera e costruisce.
Un esempio: il ponte che porta alla città di Écoust è crollato, come avverte una comparsa, ma gli spettatori non lo hanno ancora visto, e, per quanto concerne il loro punto di vista, non esiste finché il protagonista non vi si dirige e la telecamera non lo inquadra e manifesta nel film.
In giochi spettacolari come Tomb Raider (2013) la telecamera segue il PG, muovendosi a volte in modo prefissato e onnisciente per indicare il percorso giusto da imboccare per proseguire. Nelle sequenze adrenaliniche la via della salvezza appare davanti agli occhi del PG (e del suo giocatore) nel momento in cui la telecamera la scopre e la crea.
1917 presenta vari momenti simili, il più esemplare dei quali è quello della fuga di Schofield da Écoust: lo spettatore non sa verso cosa l’avatar del protagonista sta correndo, ma l’importante è che non si fermi e che si affidi alla direzione dettata dalla telecamera. Arrivato di corsa ad un ponte, Schofield si butta oltre la balaustra come suggerito dal movimento della telecamera a lui connessa perché rappresenta l’unica scelta giusta nella situazione.
Vista la profonda connessione che unisce telecamera e PG, è ora opportuno analizzare le scene in cui la telecamera si stacca dal PG e lo perde di vista momentaneamente.
Subito dopo la morte di Blake, Schofield è costretto ad abbandonare l’amico morto, ma la telecamera esita per quei pochi secondi in più sul cadavere di Blake che le impediscono di seguire Schofield all’interno di un’abitazione, ricongiungendosi con lui poco dopo, quando ne è uscito.
Durante la sequenza notturna a Écoust, la telecamera si separa nettamente dal PG in un volo che la fa uscire dalla finestra e fa assaporare allo spettatore per la prima volta una visione ampia dell’ambientazione, per poi ricollegarsi al PG simbolicamente dall’alto, in maniera quasi divina: la sensazione è quella del rimpicciolimento del PG davanti allo spettacolo maestoso e terrificante allo stesso tempo, misterioso in senso religioso.
In seguito Schofield raggiunge sfinito il battaglione nel bosco, e si accascia appoggiandosi ad un albero. La telecamera si muove in avanti partendo dalle sue spalle, ma Schofield è così stanco da non riuscire più a stare al suo passo. In questo senso, la telecamera fluttuante sembra rappresentare l’anima del protagonista che desidera continuare l’importante missione senza però che il suo corpo riesca più a farcela. La telecamera, quindi, ritorna al suo avatar corporeo, e significativamente si riconnette a lui dal davanti: lo spettatore guarda così direttamente in faccia il PG, e, leggendogli in volto la sua stremata esasperazione, interiorizza profondamente quello che Schofield sta provando.
A proposito delle emozioni espresse dal PG, paradossalmente si può discutere sul fatto che il rapporto spettatore-avatar agisca come filtro, col risultato di confondere il confine tra la personalità autentica e autonoma del PG e quella impressa dallo spettatore sul suo avatar.
L’esempio più forte di questa sovrapposizione di emozioni, che amalgama la caratterizzazione diegetica del PG con la percezione che ha di essa lo spettatore nel momento in cui la sua immedesimazione e connessione simpatetica sono massime, si trova quando Schofield comunica la morte dell’amico Blake al fratello: la telecamera rimane fissa alle spalle di Schofield, e lo spettatore non vede il suo viso e il suo dolore perché in quel momento l’emotività del PG e quella dello spettatore immedesimato sono un tutt’uno. Da notare che per un momento Schofield si gira verso la telecamera, fornendo la traccia emotiva che suggerisce il registro allo spettatore con cui proiettarsi nella continuazione della scena.
Il PG di Schofield è, quindi, talora volutamente spersonalizzato. In film esperienziali come 1917, i PG sono poco definiti per consentire allo spettatore di ‘abitare’ il loro avatar. Il ruolo dei PG del film non era lanciarsi in monologhi o verbalizzare gli orrori della guerra – il loro compito è convogliare emozioni silenziose sulle quali lo spettatore può costruire e rielaborare. In questo senso, la spersonalizzazione del soldato semplice in un conflitto troppo grande per lui serve non solo il testo videoludico, ma anche il testo simbolico.
Pertanto, in 1917 la dimensione macro della Storia (con tutte le sue sfaccettature e tragiche conseguenze) non entra nell’orizzonte della narrazione, che si concentra su una rappresentazione della spettacolarità della performance, a beneficio dell’esperienza spettatoriale.
La dimensione dominante del film è quella del movimento attraverso lo spazio e il tempo, che in definitiva concentra tutta l’attenzione e l’energia della storia sul presente (lo stesso inizio in medias res è collegato all’intenzione di non considerare la guerra nel suo complesso, ma di focalizzarsi solo sul singolo attimo).
Simbolica a questo proposito la rottura dell’orologio di Schofield nella sua caduta dopo il confronto col cecchino: è al suo risveglio che la continuità spaziale del film non corrisponde più alla continuità temporale, vale a dire che a causa di questa brusca interruzione la durata del film non è più uguale alla durata della storia.
Schofield è bloccato in un tempo assente. Come in uno di quei loop tipici del linguaggio videoludico.
1917 si conclude, infatti, con una chiusura circolare: il protagonista è dovuto partire quando si stava riposando appoggiato ad un albero, e ha terminato il suo viaggio sedendosi sotto le fronde di un altro albero. Nulla è cambiato, la morte di Blake e la sofferenza di Schofield non hanno avuto alcun reale impatto sul conflitto (lo stesso colonnello a capo del battaglione che il protagonista è riuscito a salvare dice con frustrazione: “Tra un settimana manderanno un altro messaggio: attaccare all’alba”).
E ora Schofield è, in teoria, pronto a ricominciare il gioco. Ma l’esperienza traumatica lo ha cambiato e segnato, perché, nonostante la struttura a livelli e l’estetica da videogioco, 1917 non è un videogioco, ma un film che racconta una storia drammatica di personaggi che si elevano oltre a simboliche marionette. L’aspetto simbolico che meglio definisce il viaggio di Schofield è il fatto che si sia progressivamente spogliato di ogni attributo guerriero. Di livello in livello, Schofield non si è ‘potenziato’ come accade solitamente nei videogiochi, anzi, ha sempre perso qualcosa (compresi l’amico o la prospettiva di vivere degli attimi di normale serenità con la ragazza di Écoust).
Il piano sequenza usato dal film acquisisce perciò un altro significato: far vivere gli spettatori nello stesso eterno presente cui sono soggetti i soldati durante la guerra.
Il focus di 1917 è quindi non sulla guerra in sé, ma sulla morsa (emotiva e fisica) che incatena i PG in un irrequieto e ipercinetico presente, in cui l’unico impulso è quello di andare avanti senza mai fermarsi. Il film promuove lo ‘spettacolo del presente’, cioè il contesto della performance che è al centro della spettatorialità e punto focale unico ed esclusivo dell’inquadratura – i cui bordi esterni incorniciano e imprigionano metaforicamente il PG, indirizzandolo e obbligandolo a muoversi nel tunnel a senso unico materializzato dall’inquadratura della telecamera.
L’ESTETICA DELLA PERFORMANCE VIDEOLUDICA IN 1917 DI SAM MENDES
di Tommaso Sarasini
Il mondo del cinema e il mondo dei videogiochi hanno sempre dialogato tra loro in modo biunivoco, restituendosi a vicenda tecniche e trovate narrative a beneficio della struttura e della natura della storia che vogliono raccontare. In generale si può dire che i videogiochi, essendo il veicolo più giovane per raccontare storie, prendono in prestito le convenzioni tradizionali, adattandole alle loro esigenze; mentre i film riproducono talora le dinamiche proprie del linguaggio videoludico, alla ricerca di innovazioni non ancora esplorate al cinema, oppure di nuove prospettive per vecchie storie.
Una delle strategie narrative tipiche dei videogiochi spesso mutuata dai film è l’assegnazione di un obbiettivo al protagonista, archetipo che risale alla fiaba, che si trasforma nella missione che guida lo sviluppo lineare di trama e personaggi. Anche la narrazione procedurale a livelli nettamente distinti nei film è di ovvia ispirazione videoludica, ed è particolarmente evidente nelle pellicole che raccontano storie ambientate all’interno di videogiochi – Jumanji: Benvenuti nella giungla (2017) e Ready Player One (2018), oppure il metanarrativo Existenz (1999) – ma anche nelle pellicole che prevedono una sequenza d’azione in corrispondenza di ogni diversa location, come nello stratificato Inception (2010) o nel lineare Mad Max: Fury Road (2015).
Naturalmente, quelle appena elencate sono generalizzazioni che non vogliono definire in modo assoluto la dipendenza del cinema dai videogiochi, o viceversa. Si tratta di un circuito di riferimenti reciproci che si fonda sulla più ampia arte dello storytelling. Infatti si può individuare una struttura a livelli anche in opere più vecchie come Licenza di uccidere (1958) o I predatori dell’arca perduta (1981), il cui respiro internazionale e avventuroso è stato poi ricalcato da serie di giochi di successo come Tomb Raider (1996-2018) e Uncharted (2007-2016).
Uno stile di narrazione di derivazione prettamente videoludica è quello adottato dal filone di film che va da Ricomincio da capo (1993) fino a casi più recenti come Edge of Tomorrow – Senza domani (2014) e Auguri per la tua morte (2017): il protagonista si ritrova in un loop temporale, all’interno del quale rivive ciclicamente sempre la stessa giornata, come succede nei videogiochi quando si ricomincia un livello sempre dallo stesso punto (di solito perché il personaggio è morto).
Analizzando la trama di 1917 (2019) di Sam Mendes si riscontrano i tipici passaggi della ‘logica da videogioco’.
Ambientato sul fronte francese durante la Prima Guerra Mondiale, il film segue i due giovani caporali inglesi William Schofield e Tom Blake nella loro pericolosa missione di attraversare la ‘terra di nessuno’ e di raggiungere un battaglione alleato in tempo per avvertire le truppe di una letale trappola dei nemici tedeschi.
Già nella definizione della quest concettualmente molto semplice e lineare la trama ha la stessa impostazione di un capitolo o di una partita di un videogioco di guerra come potrebbe essere Battlefield 1 (2016), sparatutto in prima persona ambientato proprio durante la Prima Guerra Mondiale.
Inoltre, bisogna notare che la storia di 1917 è raccontata ampiamente attraverso i suoi grandiosi set, che si manifestano di volta in volta come livelli di un videogioco, giustapposti secondo una coerenza spaziale che è contrastata da una varianza cromatica simbolica: la terra di nessuno della prima sequenza di tensione è a metà tra il grigio inquietante della nebbia (nella quale si nasconde ogni potenziale pericolo, incrementando l’ansia e l’incertezza) e il marrone marcio del fango e dei cadaveri (unica macabra certezza visibile e tangibile per i protagonisti); il retro della trincea nemica è improvvisamente bianco e accecante, in opposizione all’oscurità oppressiva dei cunicoli da cui i protagonisti sono fuggiti, dirigendosi istintivamente verso la luce della salvezza; il boschetto e il frutteto sono dominati dai colori della natura (verde degli alberi e del prato, rosa dei fiori di ciliegio), e accompagnano infatti una momentanea sequenza di quiete e tranquillità; la sequenza notturna dei fuochi della città di Écoust è dominata dall’arancione, conferendo un effetto psichedelico che sottolinea l’estetica onirica del momento; la trincea finale del film è bianca e immacolata, e costituisce un evidente ossimoro che rappresenta il campo di battaglia ancora vergine e intatto, ma che sarà presto devastato e ridotto allo stato dell’iniziale terra di nessuno se il protagonista non riuscirà a completare la sua missione.
Tutti gli scenari sono non solo esteticamente ma anche funzionalmente molto diversi tra loro, e cambiano il ritmo del film dipingendo atmosfere e situazioni che suggeriscono approcci differenti da parte dei personaggi (se si trattasse di un videogioco si parlerebbe di stili di gameplay differenti): la terra di nessuno è irta di ostacoli inanimati ma letali se sottovalutati, mentre dalla nebbia potrebbe comparire un nemico all’improvviso, quindi ogni movimento dei personaggi è cauto e soppesato; all’ingresso di Écoust compare il primo vero nemico, un cecchino tedesco, e il comportamento del protagonista diventa più proattivo durante il conflitto; la notte a Écoust, invece, favorisce i movimenti furtivi, e l’azione diventa logicamente stealth perché Schofield è circondato da nemici; infine, nella scena di fuga dalla città il ritmo diventa adrenalinico.
Con lo scorrere dei livelli si verifica, inoltre, un aumento della difficoltà per il protagonista Schofield (le cui ‘prove’ diventano sempre più fisiche e logoranti), coerente con la crescita del climax previsto dalla tradizionale struttura in tre atti della storia. Ad ammortizzare la tensione e a mantenere bilanciata la narrazione interviene però un’alternanza regolare tra scene di pericolo e scene di quiete, parallela all’atmosfera di ogni livello. Tuttavia, il film sceglie di rompere due volte questo schema a scopo drammatico. La prima volta, in contrasto con il paesaggio sereno e bucolico della fattoria, il co-protagonista Blake muore all’improvviso in maniera tragicamente insensata tra le braccia dell’amico. In seguito, un esausto Schofield galleggia a mala pena nel fiume in cui si è gettato scappando da Écoust, quando una pioggia di petali di ciliegio (che simbolicamente richiamano Blake e il suo ultimo momento di serenità) lo riporta alla missione e gli ridà forza; ma questa speranza si scontra di nuovo con la cruda realtà, quando Schofield subito dopo rimane incastrato in un ammasso di cadaveri galleggianti orridamente gonfi e decomposti.
I parallelismi rilevati tra 1917 e il design videoludico evidenziano come il linguaggio dei videogiochi sia portatore di significati che, se applicati allo storytelling cinematografico, possono aggiungere livelli di interpretazione anche alle trame più tradizionali.
La particolarità cinematografica di 1917, e il motivo per cui evoca l’estetica di un videogioco, è però il suo totale piano sequenza (fatta eccezione per l’unico taglio netto circa a metà film). L’intenzione è quella di ricreare l’esperienza continua e senza interruzioni che si riproduce mentre si gioca ad un videogioco.
Già altri film hanno provato a simulare questa continuità adrenalinica e senza pause, come Hardcore! (2015), girato anch’esso in un unico artificiale piano sequenza, ma con la prospettiva in prima persona per imitare i videogiochi FPS (First-Person-Shooter).
In realtà, anche se nei videogiochi l’esperienza di gioco appare ad uno spettatore come ininterrotta nelle sezioni interattive di gameplay, di solito dei tagli (o cut) intervengono nel momento in cui sono riprodotte le scene cinematiche di intermezzo (le cutscene, appunto), rompendo la continuità. Questa intromissione del linguaggio cinematografico all’interno dei videogiochi è molto interessante, perché denota evidentemente un legame radicato tra i due media a livello di tecnica di storytelling. La telecamera di un videogioco non è una telecamera fisica, e quindi non è costretta dalle convenzioni delle vere telecamere: se la telecamera cinematografica cattura delle immagini, quella videoludica le genera. Eppure all’interno delle narrazioni videoludiche si seguono comunque canoni narrativi cinematografici, che fanno ormai parte del DNA dello storytelling audiovisivo. Bruce Straley (direttore di gioco) e Neil Druckmann (direttore creativo), autori dell’acclamato videogioco The Last of Us (2013), hanno dichiarato in un’intervista a Empire che, durante la realizzazione del gioco, si sono volutamente limitati nei movimenti di macchina, mantenendoli vicini al linguaggio filmico, come un operatore in carne e ossa avrebbe potuto girarli: secondo loro una telecamera che non segue le regole cinematografiche risulta alienante, rovinando l’immersione.
Nel videogioco God of War (2018) gli autori hanno realizzato un autentico piano sequenza unico, in grado di alternare, senza alcun taglio o interruzione, gli intermezzi cinematici con le parti di gameplay effettivo.
Con 1917, Sam Mendes e il direttore della fotografia Roger Deakins sono riusciti a tradurre cinematograficamente lo stesso tipo di estetica ricercata e riprodotta da God of War o, in generale, dai videogiochi in terza persona – il regista stesso ha affermato di essere stato influenzato dal videogioco western Red Dead Redemption (2010).
Il momento in cui questo proposito si dischiude davanti agli occhi del pubblico è all’inizio del film, quando i due protagonisti hanno ricevuto istruzioni ed equipaggiamento e sono pronti a partire per la missione. Tutta la parte introduttiva è funzionalmente assimilabile ad una lunga cutscene di inizio gioco, in cui non c’è possibilità di interazione; ma, non appena Schofield e Blake risalgono le scalette ed emergono dalla trincea nella terra di nessuno, ecco che, senza soluzione di continuità, i personaggi (PG) entrano nella sezione di gameplay, all’interno della quale il pericolo (assente nelle cutscene) diventa una variabile, e il tipo e la qualità di performance adottati faranno la differenza tra la vita e la morte per i PG.
Con la differenza che qui non c’è nessun giocatore ad attuare la performance, ma solo spettatori ad assistervi.
A questo punto è opportuno chiarire il concetto di performance nei videogiochi. Rielaborando le osservazioni di Clara Fernández-Vara (esperta di studi comparativi tra videogiochi e altri media), si può definire la performance come il modo in cui il giocatore interagisce col sistema di gioco e le sue regole (cioè il testo videoludico). Quando il giocatore gioca, egli ricopre il ruolo di attore della performance; però, allo stesso tempo, per dare un significato alla performance il giocatore deve essere anche spettatore.
In breve: l’estetica del videogioco fa parte dell’esperienza del giocatore come spettatore della sua stessa performance.
In 1917 la componente attoriale è eliminata dall’equazione, trattandosi di un film senza possibilità di interazione. Resta però l’estetica della performance, che restituisce la stessa impressione di interpretazione di un testo videoludico.
Su questo piano, 1917 può essere criticato perché sembra la registrazione di un gameplay giocato da qualcun altro, e su questo non si può ribattere, perché, dopotutto, solo il videogioco è in grado di produrre eventi al presente, mentre il film li ha già prodotti in passato.
Tuttavia, gli autori sono stati capaci di rappresentare una performance videoludica in chiave cinematografica, riuscendo a preservare la connessione estetica tra attorialità e spettatorialità. Lo studioso di videogiochi Barry Atkins descrive il processo di scoperta della performance ideale come un “momento di gaming cinema”, cioè come il momento in cui performance videoludica (compiuta da un giocatore-attore nel presente) e sequenza cinematografica (diretta da un regista nel passato e vista da uno spettatore) combaciano stilisticamente al punto da risultare indistinguibili nell’esecuzione. Lo spettatore cinematografico riconosce questo linguaggio transmediale, che lo immerge nella stessa trance del videogiocatore, e che gli restituisce la riproduzione della performance ideale (cioè la stessa che lo spettatore avrebbe desiderato replicare se avesse potuto esserne l’attore) senza, però, il bisogno di una partecipazione attiva.
Naturalmente, la performance è ideale perché è anche l’unica possibile (come detto prima, il film crea nel passato), ma l’immedesimazione raggiunta dallo spettatore è tale da lasciarlo soddisfatto come se avesse contribuito alla sua esecuzione e realizzazione.
Nonostante la mancanza di attorialità (in senso videoludico), 1917 è riuscito attraverso l’uso del piano sequenza ad innescare una totale immedesimazione e immersione degli spettatori nell’ambientazione, e a cementare il loro legame con i PG. La chiave è stata tenere sempre al centro dell’obbiettivo il PG: infatti, come spiega il critico di videogiochi Mark Brown, vedere costantemente il PG aiuta a sentire una connessione con lui.
Questo è il principio della telecamera videoludica over-the-shoulder, per il quale il giocatore è il marionettista, in posizione di superiorità perché incarnato nella telecamera fluttuante e scorporata alle spalle del PG, mentre è l’avatar marionetta ad essere il fulcro dell’inquadratura. Il rapporto è biunivoco: ogni output recitato dall’avatar deriva da uno stimolo innescato dal giocatore attore; questo output, però, si ripercuote sul giocatore in quanto spettatore, che è sensibile alla performance di cui è sì attore, ma è anche testimone e di cui si sente responsabile (direttamente, quando l’output è scatenato da un suo input, o indirettamente, quando l’output è causato da un intervento diegetico come può essere il danno ricevuto dal PG e inflitto da un nemico).
Questo duplice rapporto è estremizzato nel videogioco Beyond: Due anime (2013) attraverso le figure dei due protagonisti: Jodie (interpretata da Ellen Page via motion capture) è l’eroina del gioco, ed è comandata dal giocatore con una prospettiva in terza persona; Aiden è invece una misteriosa entità incorporea e invisibile, intimamente connessa a Jodie, ed è praticamente l’incarnazione della telecamera di gioco in un PG, la cui prospettiva è vista dal giocatore in prima persona. A rafforzare questa simbologia meta-videoludica, interviene a livello di gameplay il fatto che Aiden, pur essendo in grado di muoversi liberamente all’interno di un livello di gioco fluttuando e passando attraverso i muri, non può allontanarsi eccessivamente da Jodie perché è costantemente legato ad un ‘filo invisibile’ che li tiene uniti, una metafora dell’indissolubilità del rapporto avatar-telecamera.
1917 è capace di ricreare l’estetica videoludica seguendo queste stesse regole, conservando il rapporto che intercorre tra avatar e telecamera, la quale però perde l’identificazione col ruolo di attore (inconciliabile con il medium cinematografico per la mancanza di interattività) e diventa l’incarnazione del solo ruolo di spettatore.
In questo modo, lo spettatore si proietta all’interno del film come una presenza invisibile che segue i protagonisti, entrando a far parte della loro squadra. Tuttavia è importante sottolineare che quella dello spettatore è una manifestazione incorporea: esso si ritrova dentro alla storia del film non nei panni del PG, ma piuttosto sentendosi legato al PG. Per questo motivo l’immedesimazione dello spettatore raggiunge il PG nell’intimità, arrivando a condividere lo stesso istinto di sopravvivenza che, in linea col discorso videoludico, lo porta a sentirsi responsabile del suo avatar. In definitiva, benché lo spettatore non sia in prima persona nel campo di battaglia, percepisce comunque che il suo destino (ovvero la sua esperienza spettatoriale) sia legato a quello del PG, sua estensione nel mondo della finzione.
L’adesione simbiotica della telecamera al PG impone un punto di vista limitato perché l’inquadratura è costantemente costretta sull’avatar. Questo aspetto ha certamente un effetto di immedesimazione, ma anche di insicurezza: lo spettatore, come il protagonista del film, non ha una visione d’insieme. La telecamera trasmette dunque allo spettatore un senso di limitatezza claustrofobica e soffocante, perché gli è negata l’abilità di avere una conoscenza superiore a quella del PG a cui è incatenato.
Per comprendere quanto appena detto, basti pensare al fatto che l’episodio di svolta più importante per lo sviluppo della storia del film, cioè la morte di Blake, avviene off-screen perché al di fuori del campo visivo di Schofield.
Il fatto che la telecamera sia ancorata al PG in quanto avatar dello spettatore si riflette anche nei movimenti di macchina. Sebbene la telecamera sia connessa ai movimenti dell’avatar, non necessariamente si muove di pari passo con l’avatar: per esempio, in situazioni di pericolo il PG si accuccia, e pure la telecamera si tiene bassa, mettendosi istintivamente al riparo (come succede nella terra di nessuno, quando Schofield e Blake temono di essere attaccati da un momento all’altro); oppure, in situazioni dinamiche, la telecamera si muove freneticamente, coordinata col PG per coprire in sinergia una visuale più ampia possibile (come nella scontro col cecchino, durante il quale, mentre Schofield si dirige di corsa direttamente verso l’edificio per stanare l’avversario, la telecamera esamina prontamente i dintorni per individuare altri eventuali pericoli).
Un’altra conseguenza della relazione telecamera-avatar è evidente quando il PG riceve danno: l’impatto risale i fili invisibili che collegano la telecamera al PG e la stessa telecamera risente del danno (arrivando, nei videogiochi, a sporcarsi di sangue). Proprio quello che succede quando Schofield viene colpito dal cecchino e batte la testa: anche la telecamera si spegne per l’urto, e lo schermo diventa immediatamente nero di riflesso (come una schermata di ‘Game Over’).
Si può affermare che a volte la telecamera arrivi ad agire anche a favore del PG, inquadrando e focalizzando l’attenzione solo sugli elementi fondamentali che lo circondano – in un certo senso si può dire che ciò che compare nell’inquadratura è fondamentale perché inquadrato, e che compare quando diventa fondamentale. Nella logica del piano sequenza ininterrotto (sia nei film che nei videogiochi) tutto appare al posto giusto nel momento giusto, facendo scorrere gli eventi in modo puntuale. Allo stesso tempo, dunque, tutto ciò che rimane fuori dall’inquadratura è inutile: in pratica, è come se non esistesse.
Con questa logica, la telecamera vede e individua istintivamente la direzione del PG e quindi della storia. Simbolicamente la genera e costruisce.
Un esempio: il ponte che porta alla città di Écoust è crollato, come avverte una comparsa, ma gli spettatori non lo hanno ancora visto, e, per quanto concerne il loro punto di vista, non esiste finché il protagonista non vi si dirige e la telecamera non lo inquadra e manifesta nel film.
In giochi spettacolari come Tomb Raider (2013) la telecamera segue il PG, muovendosi a volte in modo prefissato e onnisciente per indicare il percorso giusto da imboccare per proseguire. Nelle sequenze adrenaliniche la via della salvezza appare davanti agli occhi del PG (e del suo giocatore) nel momento in cui la telecamera la scopre e la crea.
1917 presenta vari momenti simili, il più esemplare dei quali è quello della fuga di Schofield da Écoust: lo spettatore non sa verso cosa l’avatar del protagonista sta correndo, ma l’importante è che non si fermi e che si affidi alla direzione dettata dalla telecamera. Arrivato di corsa ad un ponte, Schofield si butta oltre la balaustra come suggerito dal movimento della telecamera a lui connessa perché rappresenta l’unica scelta giusta nella situazione.
Vista la profonda connessione che unisce telecamera e PG, è ora opportuno analizzare le scene in cui la telecamera si stacca dal PG e lo perde di vista momentaneamente.
Subito dopo la morte di Blake, Schofield è costretto ad abbandonare l’amico morto, ma la telecamera esita per quei pochi secondi in più sul cadavere di Blake che le impediscono di seguire Schofield all’interno di un’abitazione, ricongiungendosi con lui poco dopo, quando ne è uscito.
Durante la sequenza notturna a Écoust, la telecamera si separa nettamente dal PG in un volo che la fa uscire dalla finestra e fa assaporare allo spettatore per la prima volta una visione ampia dell’ambientazione, per poi ricollegarsi al PG simbolicamente dall’alto, in maniera quasi divina: la sensazione è quella del rimpicciolimento del PG davanti allo spettacolo maestoso e terrificante allo stesso tempo, misterioso in senso religioso.
In seguito Schofield raggiunge sfinito il battaglione nel bosco, e si accascia appoggiandosi ad un albero. La telecamera si muove in avanti partendo dalle sue spalle, ma Schofield è così stanco da non riuscire più a stare al suo passo. In questo senso, la telecamera fluttuante sembra rappresentare l’anima del protagonista che desidera continuare l’importante missione senza però che il suo corpo riesca più a farcela. La telecamera, quindi, ritorna al suo avatar corporeo, e significativamente si riconnette a lui dal davanti: lo spettatore guarda così direttamente in faccia il PG, e, leggendogli in volto la sua stremata esasperazione, interiorizza profondamente quello che Schofield sta provando.
A proposito delle emozioni espresse dal PG, paradossalmente si può discutere sul fatto che il rapporto spettatore-avatar agisca come filtro, col risultato di confondere il confine tra la personalità autentica e autonoma del PG e quella impressa dallo spettatore sul suo avatar.
L’esempio più forte di questa sovrapposizione di emozioni, che amalgama la caratterizzazione diegetica del PG con la percezione che ha di essa lo spettatore nel momento in cui la sua immedesimazione e connessione simpatetica sono massime, si trova quando Schofield comunica la morte dell’amico Blake al fratello: la telecamera rimane fissa alle spalle di Schofield, e lo spettatore non vede il suo viso e il suo dolore perché in quel momento l’emotività del PG e quella dello spettatore immedesimato sono un tutt’uno. Da notare che per un momento Schofield si gira verso la telecamera, fornendo la traccia emotiva che suggerisce il registro allo spettatore con cui proiettarsi nella continuazione della scena.
Il PG di Schofield è, quindi, talora volutamente spersonalizzato. In film esperienziali come 1917, i PG sono poco definiti per consentire allo spettatore di ‘abitare’ il loro avatar. Il ruolo dei PG del film non era lanciarsi in monologhi o verbalizzare gli orrori della guerra – il loro compito è convogliare emozioni silenziose sulle quali lo spettatore può costruire e rielaborare. In questo senso, la spersonalizzazione del soldato semplice in un conflitto troppo grande per lui serve non solo il testo videoludico, ma anche il testo simbolico.
Pertanto, in 1917 la dimensione macro della Storia (con tutte le sue sfaccettature e tragiche conseguenze) non entra nell’orizzonte della narrazione, che si concentra su una rappresentazione della spettacolarità della performance, a beneficio dell’esperienza spettatoriale.
La dimensione dominante del film è quella del movimento attraverso lo spazio e il tempo, che in definitiva concentra tutta l’attenzione e l’energia della storia sul presente (lo stesso inizio in medias res è collegato all’intenzione di non considerare la guerra nel suo complesso, ma di focalizzarsi solo sul singolo attimo).
Simbolica a questo proposito la rottura dell’orologio di Schofield nella sua caduta dopo il confronto col cecchino: è al suo risveglio che la continuità spaziale del film non corrisponde più alla continuità temporale, vale a dire che a causa di questa brusca interruzione la durata del film non è più uguale alla durata della storia.
Schofield è bloccato in un tempo assente. Come in uno di quei loop tipici del linguaggio videoludico.
1917 si conclude, infatti, con una chiusura circolare: il protagonista è dovuto partire quando si stava riposando appoggiato ad un albero, e ha terminato il suo viaggio sedendosi sotto le fronde di un altro albero. Nulla è cambiato, la morte di Blake e la sofferenza di Schofield non hanno avuto alcun reale impatto sul conflitto (lo stesso colonnello a capo del battaglione che il protagonista è riuscito a salvare dice con frustrazione: “Tra un settimana manderanno un altro messaggio: attaccare all’alba”).
E ora Schofield è, in teoria, pronto a ricominciare il gioco. Ma l’esperienza traumatica lo ha cambiato e segnato, perché, nonostante la struttura a livelli e l’estetica da videogioco, 1917 non è un videogioco, ma un film che racconta una storia drammatica di personaggi che si elevano oltre a simboliche marionette. L’aspetto simbolico che meglio definisce il viaggio di Schofield è il fatto che si sia progressivamente spogliato di ogni attributo guerriero. Di livello in livello, Schofield non si è ‘potenziato’ come accade solitamente nei videogiochi, anzi, ha sempre perso qualcosa (compresi l’amico o la prospettiva di vivere degli attimi di normale serenità con la ragazza di Écoust).
Il piano sequenza usato dal film acquisisce perciò un altro significato: far vivere gli spettatori nello stesso eterno presente cui sono soggetti i soldati durante la guerra.
Il focus di 1917 è quindi non sulla guerra in sé, ma sulla morsa (emotiva e fisica) che incatena i PG in un irrequieto e ipercinetico presente, in cui l’unico impulso è quello di andare avanti senza mai fermarsi. Il film promuove lo ‘spettacolo del presente’, cioè il contesto della performance che è al centro della spettatorialità e punto focale unico ed esclusivo dell’inquadratura – i cui bordi esterni incorniciano e imprigionano metaforicamente il PG, indirizzandolo e obbligandolo a muoversi nel tunnel a senso unico materializzato dall’inquadratura della telecamera.