Gli studenti del Master in Management dell'Immagine, del Cinema e dell'Audiovisivo dell'Università Cattolica di Milano, hanno svolto delle interessanti analisi per il corso di Storia e scenari dell'immagine e dell'audiovisivo: le pubblichiamo con piacere sul nostro portale! Complimenti!
I LUOGHI VIRTUALI DI A QUIET PLACE
di Matteo Fort
Gli horror non sono di certo film che mettono tutti d’accordo, al contrario: molti si rifiutano categoricamente di assistere a questi spettacoli più o meno terrificanti e con una dose variabile di omicidi e torture, esorcismi e fenomeni paranormali. Coloro che invece li apprezzano si dividono in due categorie, quelli che li guardano per il piacere del brivido e dello spavento e quelli che li guardano cercando una storia coinvolgente e ricca di metafore. A Quiet Place (2018) le soddisfa entrambe, unendo mostri orripilanti e situazioni agghiaccianti a una trama avvincente e pregna di significato.
Il film, scritto da John Krasinski, Scott Beck e Bryan Woods e diretto dallo stesso Krasinski, è apprezzato proprio per la sua capacità di mettere in scena oltre a molti elementi di genere temi quali la famiglia e l’essere genitori con le paure e le responsabilità che esso comporta, ma non solo. A Quiet Place rappresenta la società odierna e in particolare il mondo di internet, talmente carico di voci e opinioni da diventare fragoroso e spaventoso, e lo fa mostrando una realtà in cui emettere il minimo suono può significare morire. Il fatto che il silenzio regni per la maggior parte del film crea un senso di inquietudine, oltre a terrorizzare quando questo viene rotto dai rumori o dalle musiche di Marco Beltrami. L’atmosfera del film si può dedurre dal titolo stesso che significa “un posto silenzioso”, ma anche “un posto tranquillo” come suggerisce in chiave ossimorica il sottotitolo italiano.
L’inizio in medias res di A Quiet Place introduce la vicenda non senza un minimo di suspense. Tutto comincia l’89° giorno (dall’inizio di che cosa ancora non ci è dato sapere) in un paese abbandonato, uno scenario che ha del post-apocalittico: su una bacheca sono affissi molti annunci di persone scomparse. I protagonisti della storia, che si muovono nella desolazione di un negozio, sono i membri della famiglia Abbott (i cui nomi non sono citati nel film ma si possono trovare su IMDb). Sono scalzi e, a eccezione del più piccolo, cercano di fare meno rumore possibile. Regan, la sorella maggiore, è la più cauta e ben presto da un suo primo piano si scopre il motivo: indossa un impianto cocleare (la stessa attrice che veste i suoi panni, Millicent Simmonds, è sorda). Il piccolo Beau è l’unico che vive la silenziosità come un gioco e fantastica di fuggire con la sua famiglia a bordo di un razzo. Non a caso è un razzo giocattolo che attira la sua attenzione; nel cercare di prenderlo da uno scaffale in alto Beau lo fa cadere, ma per fortuna la sorella Regan afferra il giocattolo prima che possa rovinare al suolo. Il padre, Lee, impedisce a Beau di tenerlo perché è «troppo rumoroso», come spiega con il linguaggio dei segni. Qualsiasi cosa che possa fare rumore infatti viene temuta ed evitata. Il solo momento in cui Lee prende il giocattolo e lentamente ne estrae le pile crea una tensione enorme, come se in realtà stesse disinnescando una bomba. È infatti il suono, come cita un giornale che sventola all’ingresso del negozio, ad attirare il pericolo e la causa della sparizione di tutte quelle persone. La madre Evelyn dà una carezza al figlio e gli sorride comprensiva. L’unica che asseconda il desiderio di Beau è Regan, che gli porge il giocattolo portandosi il dito alla bocca.
In questa sequenza non mancano alcuni segnali premonitori che creano suspense, a cominciare da Beau che trova il razzo e successivamente ne raccoglie le pile, oppure il gesto di Regan nel dare il gioco al fratellino, fino a un traliccio lungo il percorso verso casa che è posto in maniera tale da formare una X, quasi ad avvertire di un imminente pericolo. Ed è proprio il pericolo che – ancora più che a cui – va incontro al piccolo Beau, che mentre cammina aziona il suo razzo. Il pericolo, di cui finora si aveva soltanto un impercettibile sentore, si intravede brevemente nella sua orripilante forma: è un mostro che annienta qualsiasi cosa o chiunque produca rumore. Lee corre verso il piccolo rimasto indietro, Evelyn si accovaccia per soffocare le grida, Regan non si accorge subito di ciò che sta succedendo. Il padre non arriva in tempo, e il povero Beau viene ucciso.
Piccoli internauti crescono (e rischiano)
In questa maniera straziante si conclude la premessa di A Quiet Place. Con il solo potere delle immagini e del sonoro i primi dieci minuti presentano un’ambientazione ostile e pericolosa, un mondo come quello di internet. Per quanto possa essere un terreno colmo di opportunità la rete è in effetti piena di insidie, che vanno dai virus agli hacker, dai pedofili alle truffe. In ogni caso si tratta di minacce a cui i più piccoli vanno più facilmente incontro proprio perché ne sono meno consapevoli. Così come Beau mette a repentaglio la propria vita per un giocattolo, purtroppo ancora oggi i bambini corrono lo stesso rischio per gioco, o perché partecipano a delle “challenge” pericolose sui social media. Queste sfide, le più note delle quali sono la Blue Whale e le più recenti Benadryl e Blackout Challenge, si diffondono proprio sui social più utilizzati dai ragazzini e dagli adolescenti, primo fra tutti TikTok. Quest’ultimo, popolare quanto controverso, è stato oggetto di critiche e indagini proprio in seguito ad alcune fatalità.
Un film che tratta similmente la diffusione in rete di sfide pericolose è il thriller Nerve (Ariel Schulman e Henry Joost, 2016), il cui titolo è il nome di un’app che consente di partecipare a un gioco «come obbligo o verità senza la verità». Le persone possono scegliere se essere spettatori, ossia fare parte di una platea online che paga, o giocatori, e dover completare le sfide che vengono loro ordinate in cambio di denaro e gloria. Come molti social, anche Nerve è basato su una community in cui i più premiati sono i giocatori più seguiti. Ai rischi dei giochi online e alla transitorietà della fama si aggiunge il furto dei dati personali, cui i creatori di Nerve ricorrono per controllare i partecipanti e renderli di fatto prigionieri del gioco – il che va a rappresentare la dipendenza che certi giochi creano.
Un posto tranquillo, ma anche un posto sicuro?
Dopo l’incipit la vicenda avanza a poco più di un anno dopo, per la precisione al 472° giorno dalla presunta invasione aliena. L’ambientazione questa volta è – e lo rimane per quasi tutto il resto del film – la fattoria degli Abbott, la quale si trova in una posizione isolata e strategica. Il padre ha inoltre costruito un impianto di videosorveglianza completo di allarme, non sonoro (il che sarebbe sconveniente) ma luminoso. Nel seminterrato si trova la stazione di controllo, dove Lee si informa leggendo le pagine di giornale trovate e fa ricerche sui mostri. Le telecamere però non sono l’unico espediente per rendere la casa più sicura. Il fienile ha una stanza sotterranea e insonorizzata, all’interno della casa sono state verniciate le assi del pavimento che non scricchiolano, a tavola i cibi sono serviti su foglie di lattuga; senza contare il sentiero di sabbia bianca che fin dalla prima scena permette agli Abbott di camminare a piedi nudi (e di ritrovare la strada di casa come dei novelli Pollicino). Evelyn inoltre è incinta e vicina al parto, e la famiglia ha dovuto prepararsi all’arrivo del nuovo bambino.
Nel corso dei mesi la famiglia ha messo a punto una strategia per sopravvivere. I genitori hanno trasformato la fattoria in una “safe house”, un alloggio sicuro in cui la famiglia possa vivere in relativa libertà e svolgere le loro attività quotidiane: Marcus studia matematica insieme alla madre, e dopo cena i ragazzi giocano a Monopoli (con pedine rigorosamente non rumorose). Lo spazio sicuro della fattoria è una sorta di parental control, attivato proprio per proteggere i figli dai pericoli e per garantire loro una vita apparentemente normale. Al suo interno i ragazzi possono stare tranquilli, sempre a patto che non facciano rumore; ciò che viene visto come fonte della minaccia è il mondo esterno. C’è in questo un’evidente contrapposizione tra la sicurezza dell’ambiente domestico e, di nuovo, l’accesso a qualcosa di esterno come internet che può essere pericoloso per i più giovani. La fattoria diventa in questo senso il computer della famiglia Abbott: la casa rappresenta il disco fisso, in cui è conservata la memoria (basti pensare alle fotografie e alla stanza di Beau), il fienile (dove la famiglia vive) è il file di backup in cui raccogliere i dati più sensibili, mentre l’impianto di videosorveglianza collegato al seminterrato è l’antivirus, che protegge il PC dalle minacce che arrivano dalla rete.
I media di A Quiet Place
Un aspetto interessante è la totale assenza di computer e apparecchi digitali nonostante il film sia ambientato principalmente nel 2021. I mezzi di comunicazione che compaiono sono quelli più tradizionali, per non dire vetusti: il giornale e la radio, con cui Lee cerca di inviare messaggi di SOS al mondo esterno. Lo stesso impianto di videosorveglianza è costituito da schermi analogici. Gli unici elementi più avanzati sono i pannelli solari sul tetto della casa (probabilmente l’unica fonte di energia elettrica) e un lettore mp3. Tutto ciò porta lo spettatore a chiedersi: il digitale è pericoloso? Internet non esiste più? Non è un caso che a essere rimasti siano i media silenziosi come il giornale, mentre i media moderni devono essere spariti proprio per la loro rumorosità. In effetti i device digitali sono strumenti potenzialmente chiassosi. Basti pensare agli smartphone che possono squillare quando riceviamo una chiamata, o addirittura ci parlano attraverso gli assistenti vocali; le app che utilizziamo quotidianamente propongono una serie di contenuti video e audio che ci capita di ascoltare, e spesso per comunicare con i nostri contatti ricorriamo ai messaggi vocali. Per questo motivo avere uno smartphone in A Quiet Place potrebbe non essere l’ideale. Per non parlare degli smart speaker, casse portatili che non fanno altro che interagire con noi attraverso la voce.
Per comunicare tra di loro e con l’esterno gli Abbott utilizzano la lingua dei segni, il codice Morse e i segnali luminosi (come il falò che Lee accende ogni sera in cima al silo). Forme di comunicazione non verbale come queste sono ricorrenti anche nelle app di messaggistica, nelle cui chat usiamo icone e immagini per meglio esprimere quello che vogliamo dire. Spesso però queste immagini, che vanno dalle svariate emoji ai memes, alle GIF animate, per la loro immediatezza di comprensione vanno a sostituire le parole e non serve dire nient’altro.
Il fatto di conoscere il linguaggio dei segni da prima dell’invasione è un vantaggio per la famiglia; tuttavia la sordità per Regan rappresenta un limite, perché non può rendersi conto se qualcosa faccia rumore. Il conflitto aiuta a portare avanti ogni storia, e Regan è senza dubbio il personaggio più conflittuale: è lei che più di tutti pensa di essere responsabile della morte del fratellino e, ancor peggio, che il padre gliene dia la colpa. Regan è importante non solo perché fornisce un punto di vista unico sulla vicenda (ogni volta che la ragazza è protagonista dell’azione i rumori sono ovattati così che lo spettatore assuma la sua percezione dello spazio), ma anche perché la sua disabilità sarà la chiave per la soluzione del finale.
L’importanza del silenzio (e del sonoro)
Il silenzio è più che d’oro in A Quiet Place. Eppure non ci troviamo di fronte a un film muto, tutt’altro: durante le interviste i membri del cast hanno ribadito che il suono ha il ruolo di un antagonista. A livello di post-produzione infatti il sound design e il montaggio sonoro sono stati accuratamente studiati, tant’è che il film è stato nominato agli Oscar per il Miglior montaggio sonoro. Perfino dal punto di vista della cinematografia si è scelto un approccio che favorisse la registrazione del suono, come ha dichiarato il direttore della fotografia Charlotte Bruus Christensen in un’intervista per American Cinematographer. Non a caso nel film ci sono molti primissimi piani e dettagli di oggetti: la prossimità della cinepresa aiuta non solo il tecnico del suono a «dare un suono appropriato» alle immagini, ma anche infonde nello spettatore la sensazione di essere presente nell’azione.
Per Krasinski era molto importante creare un mondo realistico e avere per protagonista una famiglia in cui lo spettatore si potesse immedesimare, tutto ciò realizzando al contempo un film di genere. Una fonte di ispirazione per quanto riguarda l’elemento horror è Lo squalo (Steven Spielberg, 1975), il cui mostro – così come le creature di A Quiet Place – si intravede a malapena durante il film e si rivela soltanto nello scontro finale. Visivamente il regista ha deciso di adottare un’estetica western, ispirandosi in particolare a Non è un paese per vecchi (Ethan e Joel Coen, 2009) e Il petroliere (Paul Thomas Anderson, 2009) nell’uso di campi lunghi e nelle riprese in esterni.
A Quiet Place è un horror ben riuscito proprio grazie al gioco che si crea tra il silenzio e il suono, che diventa un elemento terrificante. Come commentato da molti sui social, fare il minimo rumore anche solo mangiando i popcorn creava un senso di inquietudine in tutta la sala. I “jump scares” non mancano, vuoi che sia per un rumore improvviso o per un mostro che, sempre in stile Lo squalo, entra improvvisamente nell’inquadratura. Una delle prime scene in cui un rumore suscita il terrore negli Abbott, e di conseguenza negli spettatori, è quando i ragazzi rovesciano per sbaglio una lanterna sul pavimento, cui seguono degli inquietanti tonfi sul tetto. La colonna sonora crea suspense, e quando soltanto due procioni piombano dal tetto lo spettatore è comunque spaventato.
Come ogni horror al momento di paura si alterna un altro che allenti la tensione. E quale modo migliore per farlo se non mostrare un tenero ballo tra marito e moglie sulle note di Neil Young e la sua Harvest Moon?
Il chiasso dei social
Un altro attimo rasserenante si trova nella scena in cui Lee porta il figlio a pescare e gli spiega che è possibile fare rumore in prossimità di altri suoni più forti, o addirittura che si può urlare sotto a una cascata. Il pubblico ha la stessa reazione iniziale di Marcus, perché dopo mezz’ora di silenzio mai si sarebbe aspettato che ci fosse un modo per poter parlare in sicurezza. Internet, come la cascata, è un flusso continuo di parole a cui ciascuno si può aggiungere. Ciò avviene in particolare sui social, in cui ognuno si sente in dovere di dire la propria. Lee guida il figlio in questo mondo e gli insegna una sorta di regola di convivenza civile: parafrasando il suo «Piccoli rumori… sicuri. Rumori forti… non sicuri», il padre spiega che per far valere la propria opinione non serve urlarla o usare parole forti, perché questo attirerebbe solo i “predatori” e i loro commenti negativi. Oggi però le logiche dei social tendono a seguire l’opposto. Così come la cascata copre le urla di Lee e Marcus le voci si possono confondere le une con le altre, e nel marasma di opinioni quelle più violente e che fanno scandalo hanno maggiore visibilità. Nei social, che ormai sono per molti una valvola di sfogo, a risaltare sono proprio i contenuti più rumorosi. La rabbia dilaga spesso nei gruppi di Facebook, nei commenti ai video di YouTube e nei battibecchi tra politici e altre figure pubbliche su Twitter. I social danno l’impressione che si possa dire di tutto su qualsiasi argomento e a chiunque, perciò la parola stessa può diventare pericolosa: nella dimensione virtuale è molto facile rivolgere agli altri insulti o messaggi violenti. Per questo motivo le piattaforme cercano di contrastare, attraverso norme specifiche e algoritmi, la diffusione di fenomeni dannosi per la comunità come il cyberbullismo, le fake news, l’hate speech e la xenofobia, la pornografia e altri contenuti disturbanti. Questi sono i mostri che mettono a rischio l’esperienza virtuale degli utenti.
Tra i social sta facendo molto parlare di sé Clubhouse, un social network attraverso cui è possibile comunicare con i propri contatti attraverso delle vere e proprie chat vocali (chiamate stanze) dal vivo. I creatori Paul Davison e Rohan Seth l’hanno lanciata nel 2020 con lo scopo di creare un’esperienza social «più umana, dove invece di postare ci si riunisce con altre persone per parlare». Sebbene per il momento Clubhouse sia ancora in sviluppo e abbia un’utenza piuttosto limitata, molte altre piattaforme (Twitter e Facebook, ma anche LinkedIn e Spotify) stanno rispondendo a questo fenomeno avvalendosi di funzioni simili, ovvero “stanze di conversazione” dove poter discorrere con altri utenti. Questo tipo di comunicazione in A Quiet Place non avrebbe molto futuro; tuttavia è interessante vedere come nel mondo si avverta sempre più la necessità di condividere non solo testi e immagini, ma anche la propria stessa voce, e di ascoltare quella altrui. Non è un caso che dall’inizio della pandemia i podcast si siano diffusi maggiormente e che il mercato degli audiolibri sia esploso: in Italia nel 2020 la loro vendita è aumentata del 94%.
Dal lockdown dell’anno scorso le persone hanno sentito sempre più l’esigenza di riunirsi, anche solo in uno spazio virtuale. Oltre alle videochiamate di Skype, Zoom e quant’altro gli utenti sono sbarcati su Twitch, originariamente nato nel 2011 come piattaforma social dedicata ai gamers. Se una volta erano i videogiocatori a registrare dal vivo il proprio gameplay, oggi su Twitch si organizzano discussioni di ogni tipo e su ogni tema e molte aziende si stanno iscrivendo per poter comunicare con il pubblico dei vari “streams”.
I social sopra descritti si basano sull’interazione attraverso la parola scritta e a voce. Mentre Instagram rappresenta un ibrido tra la comunicazione verbale e la visualizzazione di immagini e video, esistono altri siti in cui gli utenti comunicano quasi esclusivamente attraverso le immagini come DeviantArt, Flickr e Pinterest. Il primo è una comunità di artisti nata nel 2000 in cui è possibile condividere le proprie opere, di ogni genere e forma. Flickr (2004) è invece dedicato alle foto. Basato anch’esso su una comunità di utenti che caricano le proprie foto personali, in breve tempo è diventato un enorme archivio fotografico. Un social interamente incentrato sulle foto è il più recente Pinterest, i cui utenti possono “pinnare” (ossia fissare) nella propria bacheca le immagini che più interessano loro.
Messaggi pericolosi
Tornando verso casa padre e figlio assistono alla morte di un anziano la cui moglie è stata appena sventrata da uno dei mostri. Nel mondo di internet, dove le fregature sono dietro l’angolo, con questa brutta fine i signori cadono vittima di una truffa online. In rete circolano raggiri diretti proprio ai più anziani, i quali hanno meno dimestichezza e possono lasciarsi ingannare da un presunto annuncio o un’offerta speciale. Quante volte ci è capitato di trovare un banner che si congratula con noi, il milionesimo visitatore del sito, e che promette un premio, o di ricevere una email dalla banca che richiede particolari informazioni per aggiornare le impostazioni di sicurezza. A questo tipo di frode, il phishing (che ultimamente sta interessando l’INPS), è facile abboccare, specialmente quando si promettono aiuti economici in una situazione di crisi. Di recente sono aumentati anche i casi di smishing, ossia gli sms truffa, i quali spesso invitano gli utenti a tracciare una fantomatica spedizione con un link tramite il quale gli imbroglioni possono sottrarre informazioni sensibili e rubare denaro dai conti bancari.
Quando il gioco si fa duro…
Questo secondo incontro mortale con le creature divide il film in due e segna l’inizio della seconda metà, molto diversa dalla prima perché l’atmosfera si fa sempre più tesa. Quando Evelyn fa accidentalmente rumore scendendo nello scantinato e uno dei mostri entra in casa, ecco che qualcosa si rompe (come la cornice che le sfugge dalle mani). Come un hacker il mostro riesce a fare breccia nel firewall della fattoria e penetra nel posto più sicuro. Il computer degli Abbott ha appena subito un attacco ransomware, ossia i file di memoria (la fotografia) contenuti in esso sono stati criptati da un hacker che richiede un riscatto. Così come la stessa vita di Evelyn e del suo futuro bimbo, la vita privata della famiglia è messa a repentaglio.
Evelyn riesce ad attivare l’allarme e intorno alla casa si accendono le lampadine rosse che, come un’allerta antivirus, avvisano Lee e Marcus dell’emergenza. Da un punto di vista cromatico il rosso nel film rappresenta il pericolo, ma non solo: nell’incipit Lee indossa un cappotto di questo colore, e rosso è sempre il suo maglione quando porta Marcus nel bosco. Il rosso identifica dunque il protettore della famiglia; non a caso verso il finale Lee dà il maglione alla moglie, che assume l’importante ruolo di difendere i propri figli.
Se visivamente il cambio di atmosfera è descritto dall’arrivo della notte, perfino il sonoro ha un ruolo fondamentale nel dettare un ritmo dell’azione sempre più rapido e angosciante. Da quando si rompe la cornice il suono si insinua nello schermo e diventa sempre più una presenza inquietante e spaventosa, perché lo spettatore sa che il cattivo è arrivato e qualsiasi rumore può significare la morte per i protagonisti. La tensione sale quando Evelyn comincia ad avere le contrazioni ed è sul punto di partorire. Lee manda il figlio ad accendere un razzo che per fortuna distrae il mostro, allontanandolo dalla casa e permettendo alla moglie di dare alla luce il bambino.
A questa sequenza concitata segue un momento distensivo, di nuovo tra moglie e marito, nella stanza insonorizzata del fienile – nel file di backup, l’ultimo posto sicuro rimasto. Questa è anche la seconda e ultima occasione in cui c’è un dialogo parlato. In poche, brevi battute Lee ed Evelyn riflettono ancora una volta sul dramma della morte di Beau (che come si è visto ha avuto strascichi su tutta la famiglia) e sul loro dovere in quanto genitori di difendere i propri figli. Lee promette alla moglie che li proteggerà.
Quando il mostro attacca il pick-up dove si sono rifugiati Regan e Marcus (in una scena reminiscente dell’assalto del T-Rex in Jurassic Park) il padre mantiene la sua promessa, ed ecco che la musica trasforma una scena di tensione in un momento emozionante. In un commovente addio Lee rivela a Regan quanto le abbia sempre voluto bene, quindi lancia un ultimo grido e si sacrifica affinché i figli possano mettersi in salvo.
… l’antivirus comincia a giocare
Evelyn e i ragazzi si nascondono nello scantinato. La sala di controllo, il cuore dell’antivirus, è il teatro dello scontro finale. Qui Regan giunge alla soluzione dell’enigma, ossia si rende conto che in presenza del mostro il suo impianto cocleare emette delle frequenze dannose per le creature: il loro punto debole è il loro stesso udito. Amplificando queste frequenze con la radio Regan riesce a stordire il mostro. La minaccia è finalmente messa in quarantena, non può più nuocere, ed Evelyn la elimina con un colpo di fucile. L’antivirus ha fatto il suo lavoro, ma restano ancora due mostri che si stanno avvicinando.
Con questo finale aperto si conclude A Quiet Place, e uscendo dalla sala lo spettatore è pronto a riconnettersi al mondo di internet e, come gli Abbott, ad affrontarne i pericoli. Se c’è un messaggio che questo film vuole trasmettere è che in una società in cui è impossibile vivere silenziosamente non bisogna per questo vivere nel frastuono, ma occorre saper fare silenzio per ascoltare ed essere capaci di dialogare.
Invasioni aliene e “twin movies”: Signs e Bird Box
Si è già parlato dei riferimenti ad altri film rintracciabili in A Quiet Place, ma ci sono anche titoli simili nella trama o nelle tematiche affrontate.
Un primo di questi è Signs (M. Night Shyamalan, 2002), thriller fantascientifico in cui una famiglia che vive nella campagna della Pennsylvania deve fare i conti con un’imminente invasione aliena. Vi sono alcuni elementi in comune, come il lutto per la perdita di un genitore e l’importanza della famiglia nel far fronte a una minaccia esterna, ma Signs si fonda sul tema religioso della necessità di avere fede.
Uscito solo alcuni mesi dopo A Quiet Place, Bird Box (diretto da Susanne Bier e adattato dal romanzo “La morte avrà i tuoi occhi” di Josh Malerman) è un altro horror che ha molti, forse troppi elementi in comune, tanto che i due sono stati definiti “twin movies” (ossia film gemelli, che escono lo stesso anno e trattano soggetti simili). Anche in Bird Box c’è infatti un’invasione da parte di un’entità sconosciuta e letale. Fondamentale alla sopravvivenza è la privazione di uno dei cinque sensi, in questo caso la vista, poiché chiunque veda le “creature” si trova di fronte la sua paura più grande e viene portato a suicidarsi. Perfino a livello tematico si riscontrano molte analogie: la protagonista di Bird Box è incinta e per la maggior parte del film vive la maternità come un problema; solo sul finale diventa consapevole di come non basti essere responsabile per proteggere i propri figli, ma serva anche l’affetto materno. Tornano quindi i temi della famiglia e della genitorialità. Sempre nel finale Malorie e i bambini dopo un viaggio periglioso raggiungono un posto sicuro (e in questo il film differisce dal finale nettamente opposto di A Quiet Place), una scuola per bambini non vedenti. Anche questa volta perciò una disabilità ha un ruolo chiave nel trovare la soluzione al male. Tornando all’argomento sfide pericolose, con la crescente popolarità del film di Netflix sui social si è diffusa la “Bird Box Challenge”, per cui la gente andava in giro bendata come i protagonisti.
Le differenze tra i due film sono forse più interessanti. Anzitutto la narrazione di Bird Box si sviluppa parallelamente su due tempi, ossia il presente della “gita” e l’inizio dell’invasione di cinque anni prima; A Quiet Place invece ha uno sviluppo lineare. Anche i mostri sono ben diversi: in Bird Box c’è un nemico invisibile che cerca di entrare nella mente delle persone (e per questo è ancora più difficile da combattere), mentre gli alieni di A Quiet Place sono mostri dai lunghi artigli, ciechi ma molto sensibili ai rumori. In Bird Box infine il cast è corale, ossia formato da più sconosciuti che si rifugiano in una casa per sopravvivere. Questo comporta delle dinamiche molto diverse dalla famiglia Abbott, le quali molto spesso sfociano nell’egoismo e in un “meglio a te che a me”. Una rosa di personaggi più grande sarà presente in A Quiet Place II, dove i protagonisti del primo film dovranno avventurarsi nel mondo esterno scontrandosi con altri sopravvissuti. Più che un sequel, a detta di Emily Blunt si tratterà di un’espansione dell’universo del capitolo precedente. Dopo essere stato posticipato per via della pandemia, il film uscirà l’ultimo weekend di maggio e sarà disponibile dopo 45 giorni sulla piattaforma streaming Paramount Plus.
I LUOGHI VIRTUALI DI A QUIET PLACE
di Matteo Fort
Gli horror non sono di certo film che mettono tutti d’accordo, al contrario: molti si rifiutano categoricamente di assistere a questi spettacoli più o meno terrificanti e con una dose variabile di omicidi e torture, esorcismi e fenomeni paranormali. Coloro che invece li apprezzano si dividono in due categorie, quelli che li guardano per il piacere del brivido e dello spavento e quelli che li guardano cercando una storia coinvolgente e ricca di metafore. A Quiet Place (2018) le soddisfa entrambe, unendo mostri orripilanti e situazioni agghiaccianti a una trama avvincente e pregna di significato.
Il film, scritto da John Krasinski, Scott Beck e Bryan Woods e diretto dallo stesso Krasinski, è apprezzato proprio per la sua capacità di mettere in scena oltre a molti elementi di genere temi quali la famiglia e l’essere genitori con le paure e le responsabilità che esso comporta, ma non solo. A Quiet Place rappresenta la società odierna e in particolare il mondo di internet, talmente carico di voci e opinioni da diventare fragoroso e spaventoso, e lo fa mostrando una realtà in cui emettere il minimo suono può significare morire. Il fatto che il silenzio regni per la maggior parte del film crea un senso di inquietudine, oltre a terrorizzare quando questo viene rotto dai rumori o dalle musiche di Marco Beltrami. L’atmosfera del film si può dedurre dal titolo stesso che significa “un posto silenzioso”, ma anche “un posto tranquillo” come suggerisce in chiave ossimorica il sottotitolo italiano.
L’inizio in medias res di A Quiet Place introduce la vicenda non senza un minimo di suspense. Tutto comincia l’89° giorno (dall’inizio di che cosa ancora non ci è dato sapere) in un paese abbandonato, uno scenario che ha del post-apocalittico: su una bacheca sono affissi molti annunci di persone scomparse. I protagonisti della storia, che si muovono nella desolazione di un negozio, sono i membri della famiglia Abbott (i cui nomi non sono citati nel film ma si possono trovare su IMDb). Sono scalzi e, a eccezione del più piccolo, cercano di fare meno rumore possibile. Regan, la sorella maggiore, è la più cauta e ben presto da un suo primo piano si scopre il motivo: indossa un impianto cocleare (la stessa attrice che veste i suoi panni, Millicent Simmonds, è sorda). Il piccolo Beau è l’unico che vive la silenziosità come un gioco e fantastica di fuggire con la sua famiglia a bordo di un razzo. Non a caso è un razzo giocattolo che attira la sua attenzione; nel cercare di prenderlo da uno scaffale in alto Beau lo fa cadere, ma per fortuna la sorella Regan afferra il giocattolo prima che possa rovinare al suolo. Il padre, Lee, impedisce a Beau di tenerlo perché è «troppo rumoroso», come spiega con il linguaggio dei segni. Qualsiasi cosa che possa fare rumore infatti viene temuta ed evitata. Il solo momento in cui Lee prende il giocattolo e lentamente ne estrae le pile crea una tensione enorme, come se in realtà stesse disinnescando una bomba. È infatti il suono, come cita un giornale che sventola all’ingresso del negozio, ad attirare il pericolo e la causa della sparizione di tutte quelle persone. La madre Evelyn dà una carezza al figlio e gli sorride comprensiva. L’unica che asseconda il desiderio di Beau è Regan, che gli porge il giocattolo portandosi il dito alla bocca.
In questa sequenza non mancano alcuni segnali premonitori che creano suspense, a cominciare da Beau che trova il razzo e successivamente ne raccoglie le pile, oppure il gesto di Regan nel dare il gioco al fratellino, fino a un traliccio lungo il percorso verso casa che è posto in maniera tale da formare una X, quasi ad avvertire di un imminente pericolo. Ed è proprio il pericolo che – ancora più che a cui – va incontro al piccolo Beau, che mentre cammina aziona il suo razzo. Il pericolo, di cui finora si aveva soltanto un impercettibile sentore, si intravede brevemente nella sua orripilante forma: è un mostro che annienta qualsiasi cosa o chiunque produca rumore. Lee corre verso il piccolo rimasto indietro, Evelyn si accovaccia per soffocare le grida, Regan non si accorge subito di ciò che sta succedendo. Il padre non arriva in tempo, e il povero Beau viene ucciso.
Piccoli internauti crescono (e rischiano)
In questa maniera straziante si conclude la premessa di A Quiet Place. Con il solo potere delle immagini e del sonoro i primi dieci minuti presentano un’ambientazione ostile e pericolosa, un mondo come quello di internet. Per quanto possa essere un terreno colmo di opportunità la rete è in effetti piena di insidie, che vanno dai virus agli hacker, dai pedofili alle truffe. In ogni caso si tratta di minacce a cui i più piccoli vanno più facilmente incontro proprio perché ne sono meno consapevoli. Così come Beau mette a repentaglio la propria vita per un giocattolo, purtroppo ancora oggi i bambini corrono lo stesso rischio per gioco, o perché partecipano a delle “challenge” pericolose sui social media. Queste sfide, le più note delle quali sono la Blue Whale e le più recenti Benadryl e Blackout Challenge, si diffondono proprio sui social più utilizzati dai ragazzini e dagli adolescenti, primo fra tutti TikTok. Quest’ultimo, popolare quanto controverso, è stato oggetto di critiche e indagini proprio in seguito ad alcune fatalità.
Un film che tratta similmente la diffusione in rete di sfide pericolose è il thriller Nerve (Ariel Schulman e Henry Joost, 2016), il cui titolo è il nome di un’app che consente di partecipare a un gioco «come obbligo o verità senza la verità». Le persone possono scegliere se essere spettatori, ossia fare parte di una platea online che paga, o giocatori, e dover completare le sfide che vengono loro ordinate in cambio di denaro e gloria. Come molti social, anche Nerve è basato su una community in cui i più premiati sono i giocatori più seguiti. Ai rischi dei giochi online e alla transitorietà della fama si aggiunge il furto dei dati personali, cui i creatori di Nerve ricorrono per controllare i partecipanti e renderli di fatto prigionieri del gioco – il che va a rappresentare la dipendenza che certi giochi creano.
Un posto tranquillo, ma anche un posto sicuro?
Dopo l’incipit la vicenda avanza a poco più di un anno dopo, per la precisione al 472° giorno dalla presunta invasione aliena. L’ambientazione questa volta è – e lo rimane per quasi tutto il resto del film – la fattoria degli Abbott, la quale si trova in una posizione isolata e strategica. Il padre ha inoltre costruito un impianto di videosorveglianza completo di allarme, non sonoro (il che sarebbe sconveniente) ma luminoso. Nel seminterrato si trova la stazione di controllo, dove Lee si informa leggendo le pagine di giornale trovate e fa ricerche sui mostri. Le telecamere però non sono l’unico espediente per rendere la casa più sicura. Il fienile ha una stanza sotterranea e insonorizzata, all’interno della casa sono state verniciate le assi del pavimento che non scricchiolano, a tavola i cibi sono serviti su foglie di lattuga; senza contare il sentiero di sabbia bianca che fin dalla prima scena permette agli Abbott di camminare a piedi nudi (e di ritrovare la strada di casa come dei novelli Pollicino). Evelyn inoltre è incinta e vicina al parto, e la famiglia ha dovuto prepararsi all’arrivo del nuovo bambino.
Nel corso dei mesi la famiglia ha messo a punto una strategia per sopravvivere. I genitori hanno trasformato la fattoria in una “safe house”, un alloggio sicuro in cui la famiglia possa vivere in relativa libertà e svolgere le loro attività quotidiane: Marcus studia matematica insieme alla madre, e dopo cena i ragazzi giocano a Monopoli (con pedine rigorosamente non rumorose). Lo spazio sicuro della fattoria è una sorta di parental control, attivato proprio per proteggere i figli dai pericoli e per garantire loro una vita apparentemente normale. Al suo interno i ragazzi possono stare tranquilli, sempre a patto che non facciano rumore; ciò che viene visto come fonte della minaccia è il mondo esterno. C’è in questo un’evidente contrapposizione tra la sicurezza dell’ambiente domestico e, di nuovo, l’accesso a qualcosa di esterno come internet che può essere pericoloso per i più giovani. La fattoria diventa in questo senso il computer della famiglia Abbott: la casa rappresenta il disco fisso, in cui è conservata la memoria (basti pensare alle fotografie e alla stanza di Beau), il fienile (dove la famiglia vive) è il file di backup in cui raccogliere i dati più sensibili, mentre l’impianto di videosorveglianza collegato al seminterrato è l’antivirus, che protegge il PC dalle minacce che arrivano dalla rete.
I media di A Quiet Place
Un aspetto interessante è la totale assenza di computer e apparecchi digitali nonostante il film sia ambientato principalmente nel 2021. I mezzi di comunicazione che compaiono sono quelli più tradizionali, per non dire vetusti: il giornale e la radio, con cui Lee cerca di inviare messaggi di SOS al mondo esterno. Lo stesso impianto di videosorveglianza è costituito da schermi analogici. Gli unici elementi più avanzati sono i pannelli solari sul tetto della casa (probabilmente l’unica fonte di energia elettrica) e un lettore mp3. Tutto ciò porta lo spettatore a chiedersi: il digitale è pericoloso? Internet non esiste più? Non è un caso che a essere rimasti siano i media silenziosi come il giornale, mentre i media moderni devono essere spariti proprio per la loro rumorosità. In effetti i device digitali sono strumenti potenzialmente chiassosi. Basti pensare agli smartphone che possono squillare quando riceviamo una chiamata, o addirittura ci parlano attraverso gli assistenti vocali; le app che utilizziamo quotidianamente propongono una serie di contenuti video e audio che ci capita di ascoltare, e spesso per comunicare con i nostri contatti ricorriamo ai messaggi vocali. Per questo motivo avere uno smartphone in A Quiet Place potrebbe non essere l’ideale. Per non parlare degli smart speaker, casse portatili che non fanno altro che interagire con noi attraverso la voce.
Per comunicare tra di loro e con l’esterno gli Abbott utilizzano la lingua dei segni, il codice Morse e i segnali luminosi (come il falò che Lee accende ogni sera in cima al silo). Forme di comunicazione non verbale come queste sono ricorrenti anche nelle app di messaggistica, nelle cui chat usiamo icone e immagini per meglio esprimere quello che vogliamo dire. Spesso però queste immagini, che vanno dalle svariate emoji ai memes, alle GIF animate, per la loro immediatezza di comprensione vanno a sostituire le parole e non serve dire nient’altro.
Il fatto di conoscere il linguaggio dei segni da prima dell’invasione è un vantaggio per la famiglia; tuttavia la sordità per Regan rappresenta un limite, perché non può rendersi conto se qualcosa faccia rumore. Il conflitto aiuta a portare avanti ogni storia, e Regan è senza dubbio il personaggio più conflittuale: è lei che più di tutti pensa di essere responsabile della morte del fratellino e, ancor peggio, che il padre gliene dia la colpa. Regan è importante non solo perché fornisce un punto di vista unico sulla vicenda (ogni volta che la ragazza è protagonista dell’azione i rumori sono ovattati così che lo spettatore assuma la sua percezione dello spazio), ma anche perché la sua disabilità sarà la chiave per la soluzione del finale.
L’importanza del silenzio (e del sonoro)
Il silenzio è più che d’oro in A Quiet Place. Eppure non ci troviamo di fronte a un film muto, tutt’altro: durante le interviste i membri del cast hanno ribadito che il suono ha il ruolo di un antagonista. A livello di post-produzione infatti il sound design e il montaggio sonoro sono stati accuratamente studiati, tant’è che il film è stato nominato agli Oscar per il Miglior montaggio sonoro. Perfino dal punto di vista della cinematografia si è scelto un approccio che favorisse la registrazione del suono, come ha dichiarato il direttore della fotografia Charlotte Bruus Christensen in un’intervista per American Cinematographer. Non a caso nel film ci sono molti primissimi piani e dettagli di oggetti: la prossimità della cinepresa aiuta non solo il tecnico del suono a «dare un suono appropriato» alle immagini, ma anche infonde nello spettatore la sensazione di essere presente nell’azione.
Per Krasinski era molto importante creare un mondo realistico e avere per protagonista una famiglia in cui lo spettatore si potesse immedesimare, tutto ciò realizzando al contempo un film di genere. Una fonte di ispirazione per quanto riguarda l’elemento horror è Lo squalo (Steven Spielberg, 1975), il cui mostro – così come le creature di A Quiet Place – si intravede a malapena durante il film e si rivela soltanto nello scontro finale. Visivamente il regista ha deciso di adottare un’estetica western, ispirandosi in particolare a Non è un paese per vecchi (Ethan e Joel Coen, 2009) e Il petroliere (Paul Thomas Anderson, 2009) nell’uso di campi lunghi e nelle riprese in esterni.
A Quiet Place è un horror ben riuscito proprio grazie al gioco che si crea tra il silenzio e il suono, che diventa un elemento terrificante. Come commentato da molti sui social, fare il minimo rumore anche solo mangiando i popcorn creava un senso di inquietudine in tutta la sala. I “jump scares” non mancano, vuoi che sia per un rumore improvviso o per un mostro che, sempre in stile Lo squalo, entra improvvisamente nell’inquadratura. Una delle prime scene in cui un rumore suscita il terrore negli Abbott, e di conseguenza negli spettatori, è quando i ragazzi rovesciano per sbaglio una lanterna sul pavimento, cui seguono degli inquietanti tonfi sul tetto. La colonna sonora crea suspense, e quando soltanto due procioni piombano dal tetto lo spettatore è comunque spaventato.
Come ogni horror al momento di paura si alterna un altro che allenti la tensione. E quale modo migliore per farlo se non mostrare un tenero ballo tra marito e moglie sulle note di Neil Young e la sua Harvest Moon?
Il chiasso dei social
Un altro attimo rasserenante si trova nella scena in cui Lee porta il figlio a pescare e gli spiega che è possibile fare rumore in prossimità di altri suoni più forti, o addirittura che si può urlare sotto a una cascata. Il pubblico ha la stessa reazione iniziale di Marcus, perché dopo mezz’ora di silenzio mai si sarebbe aspettato che ci fosse un modo per poter parlare in sicurezza. Internet, come la cascata, è un flusso continuo di parole a cui ciascuno si può aggiungere. Ciò avviene in particolare sui social, in cui ognuno si sente in dovere di dire la propria. Lee guida il figlio in questo mondo e gli insegna una sorta di regola di convivenza civile: parafrasando il suo «Piccoli rumori… sicuri. Rumori forti… non sicuri», il padre spiega che per far valere la propria opinione non serve urlarla o usare parole forti, perché questo attirerebbe solo i “predatori” e i loro commenti negativi. Oggi però le logiche dei social tendono a seguire l’opposto. Così come la cascata copre le urla di Lee e Marcus le voci si possono confondere le une con le altre, e nel marasma di opinioni quelle più violente e che fanno scandalo hanno maggiore visibilità. Nei social, che ormai sono per molti una valvola di sfogo, a risaltare sono proprio i contenuti più rumorosi. La rabbia dilaga spesso nei gruppi di Facebook, nei commenti ai video di YouTube e nei battibecchi tra politici e altre figure pubbliche su Twitter. I social danno l’impressione che si possa dire di tutto su qualsiasi argomento e a chiunque, perciò la parola stessa può diventare pericolosa: nella dimensione virtuale è molto facile rivolgere agli altri insulti o messaggi violenti. Per questo motivo le piattaforme cercano di contrastare, attraverso norme specifiche e algoritmi, la diffusione di fenomeni dannosi per la comunità come il cyberbullismo, le fake news, l’hate speech e la xenofobia, la pornografia e altri contenuti disturbanti. Questi sono i mostri che mettono a rischio l’esperienza virtuale degli utenti.
Tra i social sta facendo molto parlare di sé Clubhouse, un social network attraverso cui è possibile comunicare con i propri contatti attraverso delle vere e proprie chat vocali (chiamate stanze) dal vivo. I creatori Paul Davison e Rohan Seth l’hanno lanciata nel 2020 con lo scopo di creare un’esperienza social «più umana, dove invece di postare ci si riunisce con altre persone per parlare». Sebbene per il momento Clubhouse sia ancora in sviluppo e abbia un’utenza piuttosto limitata, molte altre piattaforme (Twitter e Facebook, ma anche LinkedIn e Spotify) stanno rispondendo a questo fenomeno avvalendosi di funzioni simili, ovvero “stanze di conversazione” dove poter discorrere con altri utenti. Questo tipo di comunicazione in A Quiet Place non avrebbe molto futuro; tuttavia è interessante vedere come nel mondo si avverta sempre più la necessità di condividere non solo testi e immagini, ma anche la propria stessa voce, e di ascoltare quella altrui. Non è un caso che dall’inizio della pandemia i podcast si siano diffusi maggiormente e che il mercato degli audiolibri sia esploso: in Italia nel 2020 la loro vendita è aumentata del 94%.
Dal lockdown dell’anno scorso le persone hanno sentito sempre più l’esigenza di riunirsi, anche solo in uno spazio virtuale. Oltre alle videochiamate di Skype, Zoom e quant’altro gli utenti sono sbarcati su Twitch, originariamente nato nel 2011 come piattaforma social dedicata ai gamers. Se una volta erano i videogiocatori a registrare dal vivo il proprio gameplay, oggi su Twitch si organizzano discussioni di ogni tipo e su ogni tema e molte aziende si stanno iscrivendo per poter comunicare con il pubblico dei vari “streams”.
I social sopra descritti si basano sull’interazione attraverso la parola scritta e a voce. Mentre Instagram rappresenta un ibrido tra la comunicazione verbale e la visualizzazione di immagini e video, esistono altri siti in cui gli utenti comunicano quasi esclusivamente attraverso le immagini come DeviantArt, Flickr e Pinterest. Il primo è una comunità di artisti nata nel 2000 in cui è possibile condividere le proprie opere, di ogni genere e forma. Flickr (2004) è invece dedicato alle foto. Basato anch’esso su una comunità di utenti che caricano le proprie foto personali, in breve tempo è diventato un enorme archivio fotografico. Un social interamente incentrato sulle foto è il più recente Pinterest, i cui utenti possono “pinnare” (ossia fissare) nella propria bacheca le immagini che più interessano loro.
Messaggi pericolosi
Tornando verso casa padre e figlio assistono alla morte di un anziano la cui moglie è stata appena sventrata da uno dei mostri. Nel mondo di internet, dove le fregature sono dietro l’angolo, con questa brutta fine i signori cadono vittima di una truffa online. In rete circolano raggiri diretti proprio ai più anziani, i quali hanno meno dimestichezza e possono lasciarsi ingannare da un presunto annuncio o un’offerta speciale. Quante volte ci è capitato di trovare un banner che si congratula con noi, il milionesimo visitatore del sito, e che promette un premio, o di ricevere una email dalla banca che richiede particolari informazioni per aggiornare le impostazioni di sicurezza. A questo tipo di frode, il phishing (che ultimamente sta interessando l’INPS), è facile abboccare, specialmente quando si promettono aiuti economici in una situazione di crisi. Di recente sono aumentati anche i casi di smishing, ossia gli sms truffa, i quali spesso invitano gli utenti a tracciare una fantomatica spedizione con un link tramite il quale gli imbroglioni possono sottrarre informazioni sensibili e rubare denaro dai conti bancari.
Quando il gioco si fa duro…
Questo secondo incontro mortale con le creature divide il film in due e segna l’inizio della seconda metà, molto diversa dalla prima perché l’atmosfera si fa sempre più tesa. Quando Evelyn fa accidentalmente rumore scendendo nello scantinato e uno dei mostri entra in casa, ecco che qualcosa si rompe (come la cornice che le sfugge dalle mani). Come un hacker il mostro riesce a fare breccia nel firewall della fattoria e penetra nel posto più sicuro. Il computer degli Abbott ha appena subito un attacco ransomware, ossia i file di memoria (la fotografia) contenuti in esso sono stati criptati da un hacker che richiede un riscatto. Così come la stessa vita di Evelyn e del suo futuro bimbo, la vita privata della famiglia è messa a repentaglio.
Evelyn riesce ad attivare l’allarme e intorno alla casa si accendono le lampadine rosse che, come un’allerta antivirus, avvisano Lee e Marcus dell’emergenza. Da un punto di vista cromatico il rosso nel film rappresenta il pericolo, ma non solo: nell’incipit Lee indossa un cappotto di questo colore, e rosso è sempre il suo maglione quando porta Marcus nel bosco. Il rosso identifica dunque il protettore della famiglia; non a caso verso il finale Lee dà il maglione alla moglie, che assume l’importante ruolo di difendere i propri figli.
Se visivamente il cambio di atmosfera è descritto dall’arrivo della notte, perfino il sonoro ha un ruolo fondamentale nel dettare un ritmo dell’azione sempre più rapido e angosciante. Da quando si rompe la cornice il suono si insinua nello schermo e diventa sempre più una presenza inquietante e spaventosa, perché lo spettatore sa che il cattivo è arrivato e qualsiasi rumore può significare la morte per i protagonisti. La tensione sale quando Evelyn comincia ad avere le contrazioni ed è sul punto di partorire. Lee manda il figlio ad accendere un razzo che per fortuna distrae il mostro, allontanandolo dalla casa e permettendo alla moglie di dare alla luce il bambino.
A questa sequenza concitata segue un momento distensivo, di nuovo tra moglie e marito, nella stanza insonorizzata del fienile – nel file di backup, l’ultimo posto sicuro rimasto. Questa è anche la seconda e ultima occasione in cui c’è un dialogo parlato. In poche, brevi battute Lee ed Evelyn riflettono ancora una volta sul dramma della morte di Beau (che come si è visto ha avuto strascichi su tutta la famiglia) e sul loro dovere in quanto genitori di difendere i propri figli. Lee promette alla moglie che li proteggerà.
Quando il mostro attacca il pick-up dove si sono rifugiati Regan e Marcus (in una scena reminiscente dell’assalto del T-Rex in Jurassic Park) il padre mantiene la sua promessa, ed ecco che la musica trasforma una scena di tensione in un momento emozionante. In un commovente addio Lee rivela a Regan quanto le abbia sempre voluto bene, quindi lancia un ultimo grido e si sacrifica affinché i figli possano mettersi in salvo.
… l’antivirus comincia a giocare
Evelyn e i ragazzi si nascondono nello scantinato. La sala di controllo, il cuore dell’antivirus, è il teatro dello scontro finale. Qui Regan giunge alla soluzione dell’enigma, ossia si rende conto che in presenza del mostro il suo impianto cocleare emette delle frequenze dannose per le creature: il loro punto debole è il loro stesso udito. Amplificando queste frequenze con la radio Regan riesce a stordire il mostro. La minaccia è finalmente messa in quarantena, non può più nuocere, ed Evelyn la elimina con un colpo di fucile. L’antivirus ha fatto il suo lavoro, ma restano ancora due mostri che si stanno avvicinando.
Con questo finale aperto si conclude A Quiet Place, e uscendo dalla sala lo spettatore è pronto a riconnettersi al mondo di internet e, come gli Abbott, ad affrontarne i pericoli. Se c’è un messaggio che questo film vuole trasmettere è che in una società in cui è impossibile vivere silenziosamente non bisogna per questo vivere nel frastuono, ma occorre saper fare silenzio per ascoltare ed essere capaci di dialogare.
Invasioni aliene e “twin movies”: Signs e Bird Box
Si è già parlato dei riferimenti ad altri film rintracciabili in A Quiet Place, ma ci sono anche titoli simili nella trama o nelle tematiche affrontate.
Un primo di questi è Signs (M. Night Shyamalan, 2002), thriller fantascientifico in cui una famiglia che vive nella campagna della Pennsylvania deve fare i conti con un’imminente invasione aliena. Vi sono alcuni elementi in comune, come il lutto per la perdita di un genitore e l’importanza della famiglia nel far fronte a una minaccia esterna, ma Signs si fonda sul tema religioso della necessità di avere fede.
Uscito solo alcuni mesi dopo A Quiet Place, Bird Box (diretto da Susanne Bier e adattato dal romanzo “La morte avrà i tuoi occhi” di Josh Malerman) è un altro horror che ha molti, forse troppi elementi in comune, tanto che i due sono stati definiti “twin movies” (ossia film gemelli, che escono lo stesso anno e trattano soggetti simili). Anche in Bird Box c’è infatti un’invasione da parte di un’entità sconosciuta e letale. Fondamentale alla sopravvivenza è la privazione di uno dei cinque sensi, in questo caso la vista, poiché chiunque veda le “creature” si trova di fronte la sua paura più grande e viene portato a suicidarsi. Perfino a livello tematico si riscontrano molte analogie: la protagonista di Bird Box è incinta e per la maggior parte del film vive la maternità come un problema; solo sul finale diventa consapevole di come non basti essere responsabile per proteggere i propri figli, ma serva anche l’affetto materno. Tornano quindi i temi della famiglia e della genitorialità. Sempre nel finale Malorie e i bambini dopo un viaggio periglioso raggiungono un posto sicuro (e in questo il film differisce dal finale nettamente opposto di A Quiet Place), una scuola per bambini non vedenti. Anche questa volta perciò una disabilità ha un ruolo chiave nel trovare la soluzione al male. Tornando all’argomento sfide pericolose, con la crescente popolarità del film di Netflix sui social si è diffusa la “Bird Box Challenge”, per cui la gente andava in giro bendata come i protagonisti.
Le differenze tra i due film sono forse più interessanti. Anzitutto la narrazione di Bird Box si sviluppa parallelamente su due tempi, ossia il presente della “gita” e l’inizio dell’invasione di cinque anni prima; A Quiet Place invece ha uno sviluppo lineare. Anche i mostri sono ben diversi: in Bird Box c’è un nemico invisibile che cerca di entrare nella mente delle persone (e per questo è ancora più difficile da combattere), mentre gli alieni di A Quiet Place sono mostri dai lunghi artigli, ciechi ma molto sensibili ai rumori. In Bird Box infine il cast è corale, ossia formato da più sconosciuti che si rifugiano in una casa per sopravvivere. Questo comporta delle dinamiche molto diverse dalla famiglia Abbott, le quali molto spesso sfociano nell’egoismo e in un “meglio a te che a me”. Una rosa di personaggi più grande sarà presente in A Quiet Place II, dove i protagonisti del primo film dovranno avventurarsi nel mondo esterno scontrandosi con altri sopravvissuti. Più che un sequel, a detta di Emily Blunt si tratterà di un’espansione dell’universo del capitolo precedente. Dopo essere stato posticipato per via della pandemia, il film uscirà l’ultimo weekend di maggio e sarà disponibile dopo 45 giorni sulla piattaforma streaming Paramount Plus.