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Master MICA - Analisi di "El hoyo"
Gli studenti del Master in Management dell'Immagine, del Cinema e dell'Audiovisivo dell'Università Cattolica di Milano, hanno svolto delle interessanti analisi per il corso di Storia e scenari dell'immagine e dell'audiovisivo: le pubblichiamo con piacere sul nostro portale! Complimenti!

EL HOYO: UN VIAGGIO NEL DUALISMO TRA COLLETTIVITÀ E INDIVIDUALISMO
di Alessandra Ferrari

El hoyo (in italiano Il buco), opera prima del regista basco Galder Gaztelu-Urrutia Munitxa, è un thriller di fantascienza del 2019 che, in novantaquattro minuti, rappresenta, senza edulcorazione alcuna, la società contemporanea e che al contempo offre agli astanti un corpus di riferimenti all’ambito letterario, filosofico e religioso.
L’idea originale è del drammaturgo David Desola, il quale ha co-scritto la sceneggiatura della pièce (mai realizzata) insieme a Pedro Rivero. La pellicola vede dunque la propria genesi nel teatro, costituente che non si smarrisce con l’adattamento cinematografico.
Dopo due anni di lavorazione El hoyo esordisce, nel settembre 2019, al Toronto International Film Festival, aggiudicandosi il People’s Choice Midnight Madness Award. A partire da questo momento inizia l’ascesa del lungometraggio. Diverse sono le nomination e i premi ottenuti: dal Sitges Film Festival al Torino Film Festival, dai Premi Goya agli European Film Awards, arrivando all’inclusione, effettuata dall’AACCE, nella lista dei tre film spagnoli presentati all’Academy per la candidatura alla categoria “Miglior film internazionale” della 93ª edizione degli Oscar.
Distribuita nelle sale solamente in Spagna e ad Hong Kong, l’opera d’esordio del regista basco è stata acquistata da Netflix e rilasciata a livello mondiale il 20 marzo 2020, divenendo il titolo più visto dai sottoscrittori della piattaforma nelle prime due settimane dalla sua uscita.
Di rilevante importanza sono i molteplici riconoscimenti conseguiti per gli effetti speciali. Abbracciando il principio minimalista less is more di Mies van der Rohe, la “fossa” è un componimento architettonico detrattivo, costruito unicamente con il cemento e privo di orpelli, i cui 333 piani sono stati ottenuti in fase di post-produzione moltiplicando le due piante realizzate appositamente per le riprese. Tale scenografia, insieme alla fotografia e alle variazioni del leitmotiv, è stata funzionale alla creazione di un “luogo-non luogo” oppressivo e claustrofobico, intensificatore di momenti di forte pathos.
Essendo El hoyo un testo estetico ricco di significati simbolici e di chiavi di lettura, esso consente l’adozione di un consistente atteggiamento analitico volto ad indagare le ragioni logiche alla base della sua composizione. La presente analisi, non prefiggendosi l’obiettivo di trattare il film nella sua totalità, esplica, ricorrendo alla suddivisione in due macro-tematiche e adottando un taglio letterario, filosofico e sociologico, alcuni aspetti inafferrabili che tendono ad eludere ogni possibilità di interpretazione e altri più evidenti.

Il viaggio di Goreng tra Eneide, Divina Commedia e Don Chisciotte della Mancia
Enea, Dante e Don Chisciotte sono solo alcuni dei viaggiatori universali della letteratura odeporica occidentale e, a distanza di secoli, sono fondamenta di opere artistiche per i loro valori intrinseci e i messaggi di cui sono portatori.
Il viaggio ontologico di Goreng (Iván Massagué) come homo viator contemporaneo all’interno del centro verticale di autogestione, come si vedrà, presenta analogie con le tre figure sopracitate, i loro cammini e le relative opere letterarie. Allo stesso tempo però vi si differenzia: l’itineris di Goreng è infatti privo di riferimenti spazio-temporali, si compie in un tempo indefinito e la “fossa” è esente da ubicazione geografica (indicatore del fatto che potrebbe trovarsi a qualsiasi latitudine in quanto la denuncia di cui il film è portavoce riguarda l’intera società contemporanea). Nonostante l’assenza di suddette informazioni, il trascorrere dei sei mesi di permanenza di Goreng all’interno del CVA è scandito dalla discesa e dalla salita nei diversi piani ed è possibile immaginare che, scegliendo egli di portare con sé il più importante romanzo della letteratura spagnola ed essendo il film ispanico, la collocazione sia in Spagna.
Fin dall’antichità il viaggio presuppone un fine e, a partire dalla cacciata dal Paradiso terrestre di Adamo ed Eva, esso si parafrasa nella necessità di evasione, di ricerca e di sapere. Goreng decide di entrare nella “fossa” con lo scopo di smettere di fumare e di immergersi tranquillamente nella lettura dell’opera di Miguel de Cervantes Saavedra. Il suo proposito viene però sconvolto dalla realtà in cui si trova a vivere e l’esperienza si traduce in un’ardua prova portatrice di afflizione e sofferenza. Il viaggio si tramuta infatti in una ricerca esistenziale in cui Goreng incarna un uomo idealista, a tratti contraddittorio, che vuole cambiare l’ordine delle cose e la cui meta ultima diviene il tentato recupero di un’identità e di valori che paiono essere perduti.
Il protagonista sembra dunque compiere due cammini, uno “fisico” e uno “metafisico”. Il primo composto dalla struttura verticale con plongée, contre-plongée e primi piani che conferiscono potenza fisica e psicologica all’immagine; il secondo fatto di cambiamento e di riflessione interiore.
El hoyo, però, non rappresenta solamente il viaggio di Goreng ma anche quello degli spettatori, i quali si trovano proiettati all’interno di questo chaos (inteso come abisso) tramite l’uso di soggettive e semi-soggettive. Inoltre, l’itineris perturbante del pubblico è accentuato dall’alterazione delle focalizzazioni che rendono la pellicola carica di suspense. In alcuni segmenti narrativi, infatti, le informazioni di cui gli astanti dispongono corrispondono esclusivamente a quelle del personaggio (focalizzazione interna), in altri invece quest’ultimo agisce senza che si sia a conoscenza dei suoi pensieri o dei suoi sentimenti (focalizzazione esterna). La differenza tra i due viaggi in questione risiede nel fatto che gli spettatori, qualora non riuscissero a confrontarsi con gli elementi dissonanti dell’esistenza e lo spazio dell’alterità mostrato all’interno della pellicola, possono arrestare il cammino in qualunque momento, rinunciando così a un cambiamento interiore.
Addentrandosi nell’analisi delle analogie con i tre viaggiatori citati in precedenza è possibile osservare anzitutto che, come l’eroe virgiliano, Goreng sacrifica la propria vita per uno scopo più grande di lui, divenendo incarnazione dell’archetipo dell’uomo giusto mosso da nobili ideali.
Il valore morale congenito nel nostro homo viator permette di raffrontarlo anche ad Alonso Chisciano, meglio noto come Don Chisciotte. Oltre alla fisionomia, egli condivide con il cavaliere dalla triste figura l’assunzione di un nome differente rispetto a quello natale e un viaggio che lo porta a rinunciare alla sicurezza della sua vita precedente, finendo ad indagare la realtà e a tentare di correggere l’ordine delle cose.
Il cammino di Goreng, come quello di Dante nella Divina Commedia, non è semplice. Egli si imbatte in impedimenta, personificati talora da uomini in carne ed ossa e in altri casi da principi astratti, che fronteggia rivolgendosi e affidandosi ai consigli di Trimagasi (Zorion Eguileor), Imoguiri (Antonia San Juan) e Baharat (Emilio Buale Coka). Volendo sovvertire il sistema Goreng non si abbandona alla disperazione e diviene, per il pubblico, un esempio da seguire.
All’interno della magna opera trecentesca ricopre un ruolo fondamentale la dialettica degli sguardi. Suddetto stilema teatrale, quale mezzo privilegiato di comunicazione tra personaggi, emerge fortemente anche nel corso della pellicola ed è espressione di stati d’animo e di emozioni come inquietudine e sofferenza. El hoyo è dunque anche una storia di comunicazione, o meglio di comunicazione invano, in un sistema connaturato da un individualismo esasperato e, come si vedrà, dal concetto plautino homo homini lupus. Malgrado la mancata comprensione tra gli individui all’interno di questa sorta di Torre di Babele, Goreng incontra e stringe legami con personalità che condividono insieme a lui l’esperienza nel CVA e che lo portano ad un cambiamento interiore.
Pertanto non da solo va Goreng a compiere il viaggio, ma c’è qualcuno che lo conduce e la cui guida egli coscientemente accetta e richiede, riconoscendo così l’impossibilità per l’uomo di giungere al fine ultimo con le proprie forze. A questo proposito è possibile accostare le figure di Trimagasi, Imoguiri e Baharat alle tre guide che accompagnano Dante nella Divina Commedia.
Il primo individuo che Goreng incontra nel suo cammino è Trimagasi, personaggio di vitale importanza che continua ad esercitare la funzione di guida anche dopo la morte. La sua autorevolezza su Goreng emerge in molteplici occasioni, per esempio nell’acquisizione di determinati modi di dire (si pensi all’asserzione «È ovvio»). Trimagasi può essere visto come Virgilio, lume naturale della ragione che assume il ruolo di guida fisica e spirituale nel cammino dantesco. Il poeta classico, nell’Inferno, si mostra generalmente sicuro e privo di indugi come essere che ha già conosciuto le insidie del luogo. Quest’ultimo aspetto si manifesta anche nella figura di Trimagasi, in particolare al livello 171 dove afferma: «Con il tempo la nostra amicizia andrà deteriorandosi e sfocerà in una sfiducia reciproca che scatenerà conflitti e criminalità. Lo so perché ci sono già passato».
Beatrice, ossia “portatrice di beatitudine”, la si riconosce in Imoguiri, la quale conduce Goreng oltre se stesso, stimolandolo a generare un cambiamento nella fossa. Come la donna amata da Dante Alighieri, Imoguiri, attraverso la sua indignazione verso la superbia degli uomini, porta ad un innalzamento morale.
Infine si incontra Baharat, che impersona san Bernardo di Chiaravalle, lume della gloria. Egli conduce Goreng al momento conclusivo del suo viaggio aiutandolo nel razionamento del cibo e nel raggiungimento della meta sospirata: consegnare il messaggio all’amministrazione.
Giungendo alle conclusioni circa l’itineris che Goreng compie nel centro verticale di autogestione è interessante osservare come tale struttura architettonica non sia soltanto respingente e oscura ma presenti altresì indizi carichi di significati simbolici. Di ciò il pubblico è informato indirettamente da Trimagasi che, parlando con Goreng al livello 48, proferisce le seguenti parole: «I dettagli». L’opera prima di Galder Gaztelu-Urrutia Munitxa si traduce così in un’indagine minuziosa volta a scovare significati celati. Nello specifico rivestono una funzione di rilevante importanza i numeri, entità arcane sempre presenti nel corso della pellicola che si mostrano allo spettatore richiamando la sua attenzione.
Ritenendo che i numeri dei piani “vissuti” da Goreng durante il suo cammino non siano frutto di una scelta casuale segue un’esplicazione, fondata su delle prove, che tenta di comprenderne la scelta.
Goreng trascorre il primo mese nella “fossa” al livello 48 insieme a Trimagasi. Il numero in questione è riconducibile al quarantottesimo capitolo della prima parte del libro di Miguel de Cervantes Saavedra, in cui un curato e un canonico parlano di poemi cavallereschi e di teatro. Di nostro interesse è il secondo oggetto della conversazione in quanto, si ricorda, El hoyo vede la sua genesi in una pièce mai realizzata. L’elemento originario appartenente alla sfera del teatro non affiora dunque unicamente nello stilema dello sguardo ma anche in un numero che rimanda all’opera letteraria che Goreng porta con sé.

«[…] Lo spettatore, dall'avere assistito alla rappresentazione fatta a regola d'arte e ben ordinata, uscirebbe esilarato dalle comicità, ammaestrato dalle parti serie, tutto ammirato degli avvenimenti, istruito dai discorsi, fatto accorto dalle trappolerie e sagace dagli esempi, adirato contro il vizio e innamorato dalla virtù. Tutti questi sentimenti deve risvegliare nell'anima dell'ascoltatore la buona rappresentazione, per quanto egli sia rozzo e duro a capire. […]»

Durante la sua permanenza al livello 48 Goreng stringe un legame d’amicizia con Trimagasi. Questo è delineato esemplarmente nella sequenza conclusiva di questa prima tappa del viaggio: i due uomini scherzano e ridono ma soprattutto viene a mancare l’idea iniziale che ognuno debba stazionare nella propria parte della cella.
Al termine di quello che Metz definisce “temporaneo silenzio visivo” si assiste ad un sconvolgimento della situazione precedente. I due sono stati collocati al piano 171, dove non arriva più cibo, e Goreng apprende, al risveglio, di essere stato legato al letto da Trimagasi, il quale gli spiega che dovrà mutilarlo per poter sopravvivere. Ma come può essere interpretato il numero 171? La somma delle sue cifre equivale a 9, numero che rimanda al nono cerchio dell’Inferno dantesco quale luogo connotato dalla disumanità in cui trovano collocazione i traditori. Il tradimento è il più grave dei peccati in quanto rompe lo stretto legame instaurato da speciali rapporti, quali l’amicizia e la gratitudine. Nel secondo stadio del cammino di Goreng, come nel nono cerchio, viene dunque a mancare la dignità dell’uomo e la sua stessa identità.
Il mese successivo, all’aprire gli occhi, Goreng scopre di trovarsi al livello 33 e il pubblico insieme a lui tramite il ricorso a una soggettiva. Viene qui introdotta Imoguiri, figura di cui non si conosce il nome natale ma che si sa essere, grazie a un flashback, la donna occupatasi dell’iscrizione di Goreng per accedere al CVA. Ella dunque, come Beatrice, è una donna che l’homo viator aveva già avuto modo di conoscere antecedentemente. Come nel previo caso anche qui ci si imbatte in un numero avente un legame con la Divina Commedia, nello specifico con il canto XXXIII del Purgatorio. In quest’ultimo si fa menzione della profezia di Beatrice e, in egual maniera, al piano 33 Imoguiri avanza esplicitamente anch’ella una profezia: «Prima o poi qualcosa deve succedere nel CVA. Qualcosa che faccia sbocciare una solidarietà spontanea».
Imoguiri, venuta a conoscenza della dislocazione al piano 202, pone fine alla propria vita impiccandosi con le lenzuola. Il significato attribuibile al numero in questione deve essere indagato ricorrendo, ancora una volta, alla somma delle cifre che lo compongono. Nel libro IV dell’Eneide viene messa in scena la tragedia di Didone. Come la regina cartaginese Imoguiri si suicida in maniera lucida ed eroica. La donna, abbracciando il principio di solidarietà spontanea, decide così di salvare la vita a Goreng affinché egli possa portare un mutamento all’interno della “fossa”: «Taglia dei pezzi della mia carne e nutriti del mio corpo, o salvatore». Il secondo elemento in comune con il libro quarto dell’opera virgiliana è che il poeta non descrive direttamente il suicidio di Didone ma narra l’azione attraverso l’impatto che alcuni comites (testimoni) hanno con l’evento rappresentato. Tale tecnica narrativa viene adottata anche in El hoyo: il regista infatti non presenta il suicidio vero e proprio ma solamente la reazione di Goreng alla visione del corpo privo di vita.
L’Eneide è alla base della spiegazione anche del livello 6. Nel libro VI si narra la discesa di Enea nell’Averno per incontrare il padre Anchise ed è a partire dal sesto piano che Goreng, insieme a Baharat, scende nella struttura verticale con il fine di razionare il cibo e consegnare la panna cotta – messaggio originario che viene poi sostituito con la figlia di Miharu (Alexandra Masangkay) – all’amministrazione.
Il viaggio fisico e metafisico di Goreng termina al piano 333, ultimo numero fortemente simbolico che, a differenza dei precedenti, suscita nello spettatore un richiamo al suo doppio, ovvero 666. Quest’ultimo si rivela nell’Apocalisse di Giovanni a designare l’Anticristo («Qui sta la sapienza. Chi ha intelligenza, calcoli il numero della bestia: essa rappresenta un nome d'uomo. E tal cifra è seicentosessantasei») e ritorna sottinteso nella Divina Commedia con la figura ultima dell’Inferno, ossia Lucifero. Pertanto perché il regista ha scelto il numero 333 come ultimo livello? Essendovi due persone per ogni piano se si moltiplica tale numero per due si ottiene 666 e, perciò, simbolicamente si può pensare che si voglia andare ad affermare che vi siano 666 anime “dannate” all’interno del centro verticale di autogestione.

El hoyo come sismogramma degli eventi contemporanei e vera arte
Secondo Theodor Adorno ogni opera d’arte è una storiografia inconscia che, come sismogramma degli eventi, ha la capacità di individuare le scosse sociali del proprio tempo. L’arte dunque, essendo in grado di registrare tali scosse senza edulcorarle, è in grado di raccontare la storia. Ne consegue che per comprendere pienamente un’epoca non vi sia strumento migliore che l’opera d’arte, la quale permette di capire lo stato delle cose e il corso della situazione presente in cui ci si trova.
El hoyo è una pellicola che rientra nel pensiero del filosofo tedesco in quanto mostrante il sistema capitalista, in particolar modo il capitalismo più liberale che profitta dell’egoismo congenito nelle persone. Nella “fossa”, come afferma Trimagasi nei primi minuti del lungometraggio, «ci sono tre classi di persone: quelli di sopra, quelli di sotto e quelli che cadono». Tale asserzione rimanda alla realtà contemporanea, in cui ci sono ricchi capitalisti-proprietari che hanno maggior potere e che non si curano di coloro che vivono in una situazione più difficoltosa e precaria, e ancor meno dei bisognosi.
La rappresentazione della società emerge anche nella scelta degli individui che abitano il centro verticale di autogestione: uomini e donne di diverse età, appartenenti a differenti etnie e, di conseguenza, parlanti idiomi distinti e aventi culture dissimili. Come affermato precedentemente, ci si trova di fronte a una sorta di Torre di Babele caratterizzata da un’intensa incomunicabilità. L’appartenenza a popoli eterogenei rimembra nello spettatore una specifica scena del film, in cui il regista rivela il razzismo ancora presente nel XXI secolo. Si tratta del momento in cui Trimagasi spiega a Goreng la ragione per cui si trova nella “fossa”: «Ho preso il mio televisore, l’ho lanciato dalla finestra ed è caduto sopra a un maledetto immigrante illegale che andava in bicicletta. Davvero è colpa mia se è morto? Non doveva neanche essere lì». All’interno di questa dichiarazione si manifestano due elementi estremamente attuali: il primo, lo si è detto, è la discriminazione razziale; il secondo rinvia alla metafora degli individui che stando ai livelli più alti possono decidere le sorti dei più deboli situati ai livelli inferiori, segnandone addirittura la morte. Inoltre, interessante notare che l’arma che provoca il decesso dell’uomo definito da Trimagasi “immigrato” non è nient’altro che il simbolo per eccellenza della società dei consumi.
Nonostante le differenze sopracitate, gli individui della “fossa” sono accomunati da valori umani quali l’egoismo, l’avidità e l’ingordigia. Anche Goreng, seppur sia mosso da nobili ideali e sia incarnazione della cultura, con il passare del tempo si assuefà. Il suo cambiamento è visibile nel rapporto che ha con il cibo: al principio mangia normalmente ed è quasi disgustato nel vedere Trimagasi abbuffarsi, ma in seguito anch’egli comincia a depredare la tavola. Questo concetto di razzia del cibo riguarda tutti i soggetti del CVA che, malgrado siano a conoscenza delle condizioni nei livelli inferiori, non avanzano alcunché.
L’individualismo esasperato porta dunque alla noncuranza della collettività e perfino di fronte alla morte altrui il pensiero è rivolto a se stessi. A tal proposito è emblematico il dialogo che intercorre tra Goreng e Trimagasi al livello 48 quando un uomo di un piano sovrastante si suicida buttandosi nel vuoto: «Che cos’era, una persona?», chiede Goreng, «Certo che era una persona. Spero che non fosse astemia, ultimamente arriva poco vino» risponde Trimagasi.
I caratteri propri dell’egoismo insito nell’essere umano rimandano alla massima mors tua vita mea (“la tua morte è la mia vita”) e all’espressione latina di Plauto homo homini lupus (“l’uomo è un lupo per l’uomo”), ripresa nel 1651 da Thomas Hobbes ne Il Leviatano. Il filosofo britannico utilizza la seconda delle due locuzioni per designare lo stato di natura contraddistinto dalla lotta tra gli individui per la conservazione. All’interno del centro verticale di autogestione si ha quindi un ritorno alla condizione naturale e originaria dell’uomo e al cosiddetto “stato di guerra”, simboleggiati dal famoso samurai plus. Anche in questo caso è Trimagasi a informare gli astanti di tale status: «È meglio mangiare che venire mangiati». Il ritorno a una condizione in cui ognuno è nemico dell’altro porta con sé delle conseguenze: nulla può essere considerato ingiusto e non possono sussistere i concetti di equo e non equo, di giustizia ed ingiustizia. Dove non vige alcuna legge infatti non può esserci ingiustizia e la forza, nello stato di guerra, diviene così una delle virtù cardinali.
Nel corso dell’analisi sono state menzionate alcune delle asserzioni più significative della pellicola; l’ultima che si vuole segnalare è rintracciabile nei primi minuti del lungometraggio: «Nella fossa ognuno è libero di fare quello che vuole». Ricorrendo a tale espressione si reputa che il regista voglia sottolineare il concetto teologico e filosofico del libero arbitrio, ossia la libertà dell’uomo nel prendere le proprie scelte. Ne consegue che le azioni degli individui non derivano da forze superiori ma da essi stessi quali soggetti autonomi dotati di intelletto. Subiectum est homo in questo essere libero che decide il proprio destino.
Inoltre nella frase pronunciata da Trimagasi è ravvisabile un rinvio alla Divina Commedia. Al verso ventiduesimo del canto quinto della terza cantica (Paradiso) il poeta fiorentino allude al maggior dono fatto da Dio creatore: “fu de la volontà libertate”. Si tratta della libertà dell’uomo, che Dante sempre afferma e onora. In El hoyo, come nell’opera trecentesca, si manifesta l’idea di una scelta libera e sovrana – supremo rischio (la volontà di Goreng e Imoguiri di entrare nella “fossa”) e supremo onore (la discesa finalizzata al razionamento del cibo e alla consegna del messaggio all’amministrazione) – che segna le storie degli uomini. Le decisioni che gli abitanti del CVA prendono hanno dunque un ruolo determinante sul loro destino.
In conclusione, il pubblico, durante la visione dell’opera cinematografica, si trova di fronte ad una rappresentazione dell’umanità contemporanea che ha perso sé stessa e che deve essere restaurata. Tramite Goreng, personaggio in cui lo spettatore si rispecchia, si ritiene che Galder Gaztelu-Urrutia Munitxa voglia indirizzare al pubblico un appello di responsabilità civile. La pellicola tende quindi, esplicitamente, a un rinnovamento della humana civilitas (l’umana convivenza) nella pace e nella giustizia, con la sconfitta e il superamento dell’egoismo insito nell’animo umano e il ristabilirsi delle sublimi virtù. Soltanto con una coscienza collettiva gli uomini, singolarmente, potranno prendere iniziative personali volte a modificare lo status quo.
El hoyo è un film che porta gli astanti a interrogarsi sulla contemporaneità ma soprattutto su se stessi e su come essi si rapportano con gli altri. Ecco allora che, di nuovo, il lungometraggio è riconducibile al pensiero di Theodor Adorno. Nella Dialettica dell’Illuminismo Adorno e Horkheimer sostengono che la vera arte abbia sempre un significato politico, ovvero che debba esprimere una verità e portare gli individui all’azione. Essa è l’annuncio della possibilità di una società diversa dal presente e dunque di un futuro differente. L’operazione che la vera arte deve realizzare è una rottura della nostra convivenza e rapporto con il mondo. Mostrando gli elementi dissonanti della realtà essa provoca un brivido e uno shock nei fruitori che, a seguito dello sconvolgimento causato dalla visione dell’elemento disturbante, sono indotti a un cambiamento. Per fare questo l’arte però non può essere mimetica perché se lo fosse riprodurrebbe la realtà; si spiega così il ricorso alla rappresentazione della società contemporanea all’interno del centro verticale di autogestione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
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