Esponente di spicco della Nouvelle Vague francese, Jean-Luc Godard (3 dicembre 1930 – 13 settembre 2022) è uno dei pochissimi autori capaci di segnare la storia della Settima arte, elaborando nuove forme espressive e innovando alla base il linguaggio cinematografico. Autore prolifico, fondamentale nella rottura dei codici del cinema classico all'inizio degli anni Sessanta, vive la sua lunghissima carriera tra esaltazione e crisi profonda, alternando fasi distinte nella sua produzione, sempre alla ricerca di nuovi stimoli e nuove sfide intellettuali, tra sperimentalismo e cinema politico e militante. Uomo di raffinata cultura, proveniente da una famiglia alto borghese di origine svizzera (padre medico e madre figlia di banchieri), si diploma in Etnologia alla Sorbona e successivamente inizia a occuparsi di critica cinematografica, distinguendosi per le sue intransigenti critiche sui Cahiers du cinéma.
Realizza alcuni cortometraggi nella seconda metà degli anni Cinquanta e, successivamente, dà vita all'opera-manifesto della nuova corrente del cinema francese, Fino all'ultimo respiro (1960): il film, considerato un capolavoro assoluto, scardina tutto quanto visto sul grande schermo fino a quel momento, diventando una pellicola fondamentale per la nascita del cinema “moderno”. Protagonisti sono Jean-Paul Belmondo e Jean Seberg. Il suo fermento artistico, negli anni Sessanta, è all'apice. Tra le opere imprescindibili di questo periodo, è d'obbligo menzionare almeno Questa è la mia vita (1962), Il disprezzo (1963) e Il bandito delle 11 (1965). Negli anni immediatamente successivi, mette in discussione la sua stessa natura di autore, sposa gli ideali marxisti di feroce critica alla società dei consumi e valuta la possibilità di realizzare un cinema davvero rivoluzionario, fondando il Gruppo Dziga Vertov, collettivo basato su un revisionismo totale. Dalla metà degli anni Settanta, esplora le potenzialità dei nuovi mezzi tecnologici, in cui video ed elettronica si fondono con il cinema. Nell'ultima fase della sua carriera che realizza le opere più radicali e ostiche. Tra i film più significativi degli anni Ottanta ci sono Passion (1982), Prénom Carmen (1983), contestatissimo Leone d'oro a Venezia, e Je vous salue, Marie (1985). Segna una tappa importante all'interno del cinema sperimentale con Adieu au langage (2014) e il successivo Le livre d'image (2018), entrambi premiati al Festival di Cannes.
Qui il link al webinar gratuito sugli sguardi nel cinema di JLG, il nostro piccolo omaggio a un autore che ha segnato in modo indelebile la storia della Settima arte.
Qui invece la nostra classifica dei suoi dieci migliori film:
10) Week End – Un uomo e una donna dal sabato alla domenica (1967)
In quello che è uno dei suoi film più feroci e spietati, Godard firma un attacco frontale contro le consuetudini borghesi, mettendo in scena la (possibile) Apocalisse generata da una società dei consumi al limite dell'implosione. La crisi dei valori morali genera mostri, e la deriva che l'autore fa prendere alla sua storia è tanto crudele quanto agghiacciante. Con grande rigore formale, Godard dà vita a un pamphlet grottesco, cinico e brutale, in cui non è esente un ragionamento psicanalitico sulla coppia: la donna, frustrata, per liberarsi definitivamente delle oppressioni del marito si ciberà della sua carne. Durissimo ma di grande spessore. Celebre anche per una carrellata (tra le più lunghe della storia del cinema) su una fila di automobili in coda.
9) Agente Lemmy Caution, missione Alphaville (1965)
Nel corso degli anni Cinquanta, Eddie Constantine divenne famoso per aver più volte interpretato Lemmy Caution, agente creato dalla penna dell'inglese Peter Cheyney. Naturalmente, però, in questo caso non ci troviamo davanti a una semplice nuova indagine del noto detective, ma di fronte a un'opera cinematografica di grande spessore estetico diretta da un regista che non si sarebbe mai accontentato di firmare un semplice poliziesco come tanti. Jean-Luc Godard, nello stesso anno de Il bandito delle 11, costruisce un riuscito mix di noir e fantascienza, che guarda al cinema del passato senza trascurare il futuro. I riferimenti sono i classici film di genere con Humphrey Bogart degli anni Quaranta, ma anche il cinema muto e l'espressionismo tedesco: non a caso il personaggio dell'inventore si chiama Nosferatu (come il capolavoro di F.W. Murnau del 1922), e l'attore che lo interpreta è quel Howard Vernon che era stato tra gli interpreti dell'ultimo lungometraggio di Fritz Lang, Il diabolico Dr. Mabuse (1960). Godard sperimenta col sonoro, gioca con la luce e la fotografia, sguazza nel bianco e nero di Raoul Coutard e non lesina una certa malinconia di fondo per un personaggio – ormai sorpassato, nel decennio di James Bond – che riprenderà diversi anni dopo in Allemagne 90 neuf zéro (1991). Alphaville è Parigi, ripresa nei suoi angoli più avveniristici. Orso d'oro al Festival di Berlino.
8) La donna è donna (1961)
«Genere Lubitsch». Una didascalia iniziale ci guida immediatamente verso la strada del passato della Settima arte che il film omaggia, facendo riferimento a uno dei generi più fortunati della Hollywood classica: il musical. La protagonista sogna di vivere in una pellicola di Gene Kelly, dove ogni cosa si sistemava nel verso giusto, ma ora, nel cinema moderno, non si può più avere tale solidità di scrittura, montaggio invisibile e lieti fini: Godard accentua il discorso iniziato con il suo capolavoro Fino all'ultimo respiro (1960), fa parlare i personaggi in macchina, inframezza la trama con gag e situazioni surreali, e costruisce una narrazione disarticolata e concitata. Il tutto però funziona, il risultato è delizioso e i momenti geniali abbondano: Anna Karina, che dopo le riprese sposerà il regista, in una sequenza sembra volersi nascondere da una macchina da presa che non può cessare d'inquadrarla. È lei la protagonista del film ed è intorno a lei che Godard costruisce una pellicola che è anche un'esaltazione della bellezza della sua futura compagna. Primo film di Godard a colori, ma le sue sperimentazioni toccano anche il sonoro e il formato Cinemascope. Premio speciale della giuria e premio per la miglior interpretazione femminile al Festival di Berlino.
7) Bande à part (1964)
Dopo la maestosità de Il disprezzo (1963), ambientato in Italia, Jean-Luc Godard torna a Parigi per girare una pellicola più piccola e affine allo spirito originario della Nouvelle Vague. Attraverso una messinscena anarchica e libera da vincoli produttivi, il regista costruisce un “noir da banlieue” sincero e spontaneo. Tra momenti non necessari e digressioni di ogni tipo, Bande à part mette in scena un triangolo amoroso che tanto ricorda quello di Jules et Jim (1962) di François Truffaut. Non sempre solido e rigoroso, è un film che procede per accumulo di sequenze e situazioni, alcune di culto come la memorabile corsa nel Louvre di Parigi in cui i protagonisti vogliono dimostrare che si può visitarlo integralmente in pochi minuti: pura, ma affatto sterile, provocazione tesa a dissacrare quella cultura borghese che opta per visite guidate e spesso estenuanti. Ritenuto da Godard un film pessimo, con il passare del tempo si è imposto come un gioiello assolutamente imprescindibile.
6) Due o tre cose che so di lei (1967)
Parigi. Juliette è una moglie e madre di tre figli, che si prostituisce per potersi permettere beni superflui e poco necessari. Per Jean-Luc Godard, la protagonista è un mezzo per veicolare il suo messaggio: Juliette è una figura retorica, una sineddoche e una metafora, un simbolo per parlare di qualcosa di più ampio e importante. Attraverso il suo personaggio, il regista condanna la corsa all'acquisto della società occidentale, la mercificazione, la tendenza dell'essere umano di crearsi un'identità soltanto attraverso ciò che gli appartiene. La “lei” del titolo non è Juliette, ma è Parigi, una città che sta vivendo una profonda trasformazione urbanistica e sociale, ulteriore emblema di cosa sta avvenendo nel mondo occidentale. Due o tre cose che so di lei è una delle opere più malinconiche di Godard, lucidissimo nell'offrire spunti allo spettatore e spietato nel mostrare un universo dove ogni forma di bellezza (nel senso più ancestrale del termine) sembra ormai inesistente. Un ultimo battito del cuore originario della Nouvelle Vauge, che il regista abbandonerà definitivamente poco dopo, optando per un cinema più politico e militante. La sequenza con al centro una tazzina di caffè ha fatto epoca, ed è stata omaggiata persino da Martin Scorsese nel suo capolavoro Taxi Driver (1976).
5) Adieu au langage (2013)
È lo stesso Jean-Luc Godard a proporre una sinossi di un film impossibile da riassumere e forse da raccontare. Citazioni continue e incessanti, montaggio frenetico e sonoro sovrastante: Adieu au langage è un vero e proprio bombardamento audiovisivo, una partitura a più voci composta per chi è desideroso di coglierne il senso, sempre che un senso esista davvero. Uno sberleffo (forse), una provocazione sperimentale (perché no?), un ultimo ricordo di quella Nouvelle Vague di cui Godard è stato tra i massimi interpreti. È un'opera sulla scomposizione, sulla crisi d'identità, sul raddoppiamento. Un nuovo Numéro Deux (il riferimento è al suo lungometraggio del 1975) dove a raddoppiare sono i film, i personaggi e persino il cane (del regista) che entra di soppiatto nella storia prima di richiamare su di sé il ruolo di protagonista. Si discute di tutto (dal sesso alla politica, passando per la filosofia) ma, in mezzo a tante domande prive di risposta, la certezza è l'incredibile lucidità con la quale Godard, alla soglia degli ottantaquattro anni di età, riesca ancora a parlare di quei temi che gli sono sempre stati a cuore e di quelle forme linguistiche che, in qualche modo, questa volta vuole innovare con il 3D. La stereoscopia gli permette di oltrepassare i limiti delle inquadrature, e di creare scomposizioni che lasciano a bocca aperta: dalla separazione al ricongiungimento in uno sdoppiarsi che forse non avrà mai fine. Non un film in 3D ma, per la prima volta nella storia del cinema, sul 3D. Allo stesso tempo un epitaffio sul linguaggio della settima arte (già morta?) e una proiezione di quello che potrà essere il futuro dell'audiovisione. Premio della giuria al 67° Festival di Cannes.
4) Il disprezzo (1963)
L'omonimo romanzo di Alberto Moravia è solo un pretesto, narrativo e produttivo, per realizzare una pellicola che amplia decisamente il raggio d'azione rispetto alle pagine del testo di partenza. Jean-Luc Godard compie una spietata e cinica analisi delle dinamiche di coppia, costruendo un film, in parte autobiografico, incentrato sull'opposizione tra vera arte (Omero) e prodotto commerciale (la pellicola hollywoodiana). Attraverso una confezione impeccabile, fatta di sinuosi movimenti di macchina e di ambientazioni suggestive (Villa Malaparte, a Capri), l'autore dà vita a una complessa riflessione sulla maestosità dell'arte classica che oggi potrebbe essere proseguita dal cinema, rappresentato dall'amato Fritz Lang che veste i panni del regista dell'ipotetica Odissea. Le sceneggiature si cambiano, i personaggi si modificano, persino la “diva” può morire, ma il cinema prosegue il suo cammino e non può fermarsi, come dimostra il magnifico finale. Incommentabili i tagli e i rimaneggiamenti imposti da Carlo Ponti per la versione italiana, da evitare come la peste.
3) Questa è la mia vita (1962)
Dodici quadri per raccontare uno dei personaggi più intensi della prima metà degli anni Sessanta. Diviso in vari capitoli introdotti da un breve sommario, il film è il tentativo, magnificamente riuscito, di unire bellezza estetica e indagine sociologica (tutto nasce, infatti, da un'inchiesta giornalistica sulla prostituzione). Jean-Luc Godard segue il percorso della protagonista, Nanà, interpretata da una indmenticabile Anna Karina, come fossero tante tappe di un'esistenza in perenne divenire. Grazie anche all'utilizzo brillante dei piani-sequenza, il regista trasmette un'estrema veridicità a una vicenda che tocca svariate tematiche, dalla miseria alla passione per il cinema, fino alla filosofia. Nanà non vive semplicemente la sua vita così come capita, ma s'interroga sul senso profondo delle cose e non si accontenta mai di risposte o riflessioni di circostanza. Struggente e drammatico più di qualsiasi altro lavoro del grande autore francese. La sequenza al cinema, con la protagonista che si commuove di fronte alla Giovanna d'Arco di Dreyer, identificandosi con lei, è scolpita nella storia. Premio speciale della giuria alla Mostra del Cinema di Venezia.
2) Il bandito delle 11 (1965)
Concitato, sovversivo, indimenticabile. Un'opera romantica, ma mai smielata che, in mezzo a inserti surreali e decise provocazioni audiovisive, mostra le difficoltà del vivere borghese e l'impossibilità di comunicazione all'interno della coppia moderna. Una summa di tutto ciò che Godard ha fatto fino a quel momento, ma mai come in questo caso il regista ha dato tanta importanza al colore e a una struttura frammentata e lucidamente sperimentale. Si cita la letteratura, la poesia, la pittura, il cinema (notevole cameo di Samuel Fuller), eppure di fronte a Il bandito delle 11 (Pierrot le fou, per citare il ben più celebre ed evocativo titolo originale) si ha la sensazione di un prodotto assolutamente unico, lontano da qualsiasi spirito derivativo e forte di un'identità propria. Un film esplosivo, come l'iconico finale, che segna in maniera determinante la cultura degli anni '60 (e non solo). Jean-Paul Belmondo e Anna Karina danno vita a una delle coppie più straordinarie mai viste sullo schermo. Eccezionale fotografia a colori di Raoul Coutard.
1) Fino all'ultimo respiro (1960)
Il manifesto della Nouvelle Vague, il capolavoro di Jean-Luc Godard, il capostipite del cinema moderno. Una pellicola epocale. Indubbiamente tra gli esordi più impressionanti di sempre, l'opera prima di Godard si avvale della collaborazione di François Truffaut (autore del soggetto), di una coppia di attori in stato di grazia (Belmondo-Seberg) e di un montaggio (Cécile Decugis) semplicemente memorabile. Mettendo in pratica le idee innovative che i “giovani turchi” (oltre a Godard e Truffaut, anche Claude Chabrol, Eric Rohmer e Jacques Rivette) promuovevano qualche anno prima sulle colonne dei Cahiers du Cinéma, il giovane regista costruisce un grande omaggio al cinema del passato (i riferimenti a Humphrey Bogart e al poliziesco americano) con uno sguardo, però, proiettato verso il futuro. Godard rivoluziona il linguaggio della settima arte oltrepassando i convenzionali tabù del cinema classico hollywoodiano: i personaggi guardano direttamente in macchina arrivando persino a rivolgersi verbalmente allo spettatore. I piani-sequenza si alternano ai jump-cut, la pista visiva è frammentata mentre quella sonora prosegue tranquillamente, gli scavalcamenti di campo sono continui: Fino all'ultimo respiro è un manifesto, anche politico, che arriva a frantumare le regole fondamentali del montaggio contiguo e della narrazione cinematografica. È la miccia che ha portato all'esplosione di un “cinema nuovo”, che attraverserà tutti gli anni Sessanta in diverse nazioni di tutto il mondo. Orso d'argento per la miglior regia al Festival di Berlino.
«La culture, c'est la règle; l'art, c'est l'exception»
Realizza alcuni cortometraggi nella seconda metà degli anni Cinquanta e, successivamente, dà vita all'opera-manifesto della nuova corrente del cinema francese, Fino all'ultimo respiro (1960): il film, considerato un capolavoro assoluto, scardina tutto quanto visto sul grande schermo fino a quel momento, diventando una pellicola fondamentale per la nascita del cinema “moderno”. Protagonisti sono Jean-Paul Belmondo e Jean Seberg. Il suo fermento artistico, negli anni Sessanta, è all'apice. Tra le opere imprescindibili di questo periodo, è d'obbligo menzionare almeno Questa è la mia vita (1962), Il disprezzo (1963) e Il bandito delle 11 (1965). Negli anni immediatamente successivi, mette in discussione la sua stessa natura di autore, sposa gli ideali marxisti di feroce critica alla società dei consumi e valuta la possibilità di realizzare un cinema davvero rivoluzionario, fondando il Gruppo Dziga Vertov, collettivo basato su un revisionismo totale. Dalla metà degli anni Settanta, esplora le potenzialità dei nuovi mezzi tecnologici, in cui video ed elettronica si fondono con il cinema. Nell'ultima fase della sua carriera che realizza le opere più radicali e ostiche. Tra i film più significativi degli anni Ottanta ci sono Passion (1982), Prénom Carmen (1983), contestatissimo Leone d'oro a Venezia, e Je vous salue, Marie (1985). Segna una tappa importante all'interno del cinema sperimentale con Adieu au langage (2014) e il successivo Le livre d'image (2018), entrambi premiati al Festival di Cannes.
Qui il link al webinar gratuito sugli sguardi nel cinema di JLG, il nostro piccolo omaggio a un autore che ha segnato in modo indelebile la storia della Settima arte.
Qui invece la nostra classifica dei suoi dieci migliori film:
10) Week End – Un uomo e una donna dal sabato alla domenica (1967)
In quello che è uno dei suoi film più feroci e spietati, Godard firma un attacco frontale contro le consuetudini borghesi, mettendo in scena la (possibile) Apocalisse generata da una società dei consumi al limite dell'implosione. La crisi dei valori morali genera mostri, e la deriva che l'autore fa prendere alla sua storia è tanto crudele quanto agghiacciante. Con grande rigore formale, Godard dà vita a un pamphlet grottesco, cinico e brutale, in cui non è esente un ragionamento psicanalitico sulla coppia: la donna, frustrata, per liberarsi definitivamente delle oppressioni del marito si ciberà della sua carne. Durissimo ma di grande spessore. Celebre anche per una carrellata (tra le più lunghe della storia del cinema) su una fila di automobili in coda.
9) Agente Lemmy Caution, missione Alphaville (1965)
Nel corso degli anni Cinquanta, Eddie Constantine divenne famoso per aver più volte interpretato Lemmy Caution, agente creato dalla penna dell'inglese Peter Cheyney. Naturalmente, però, in questo caso non ci troviamo davanti a una semplice nuova indagine del noto detective, ma di fronte a un'opera cinematografica di grande spessore estetico diretta da un regista che non si sarebbe mai accontentato di firmare un semplice poliziesco come tanti. Jean-Luc Godard, nello stesso anno de Il bandito delle 11, costruisce un riuscito mix di noir e fantascienza, che guarda al cinema del passato senza trascurare il futuro. I riferimenti sono i classici film di genere con Humphrey Bogart degli anni Quaranta, ma anche il cinema muto e l'espressionismo tedesco: non a caso il personaggio dell'inventore si chiama Nosferatu (come il capolavoro di F.W. Murnau del 1922), e l'attore che lo interpreta è quel Howard Vernon che era stato tra gli interpreti dell'ultimo lungometraggio di Fritz Lang, Il diabolico Dr. Mabuse (1960). Godard sperimenta col sonoro, gioca con la luce e la fotografia, sguazza nel bianco e nero di Raoul Coutard e non lesina una certa malinconia di fondo per un personaggio – ormai sorpassato, nel decennio di James Bond – che riprenderà diversi anni dopo in Allemagne 90 neuf zéro (1991). Alphaville è Parigi, ripresa nei suoi angoli più avveniristici. Orso d'oro al Festival di Berlino.
8) La donna è donna (1961)
«Genere Lubitsch». Una didascalia iniziale ci guida immediatamente verso la strada del passato della Settima arte che il film omaggia, facendo riferimento a uno dei generi più fortunati della Hollywood classica: il musical. La protagonista sogna di vivere in una pellicola di Gene Kelly, dove ogni cosa si sistemava nel verso giusto, ma ora, nel cinema moderno, non si può più avere tale solidità di scrittura, montaggio invisibile e lieti fini: Godard accentua il discorso iniziato con il suo capolavoro Fino all'ultimo respiro (1960), fa parlare i personaggi in macchina, inframezza la trama con gag e situazioni surreali, e costruisce una narrazione disarticolata e concitata. Il tutto però funziona, il risultato è delizioso e i momenti geniali abbondano: Anna Karina, che dopo le riprese sposerà il regista, in una sequenza sembra volersi nascondere da una macchina da presa che non può cessare d'inquadrarla. È lei la protagonista del film ed è intorno a lei che Godard costruisce una pellicola che è anche un'esaltazione della bellezza della sua futura compagna. Primo film di Godard a colori, ma le sue sperimentazioni toccano anche il sonoro e il formato Cinemascope. Premio speciale della giuria e premio per la miglior interpretazione femminile al Festival di Berlino.
7) Bande à part (1964)
Dopo la maestosità de Il disprezzo (1963), ambientato in Italia, Jean-Luc Godard torna a Parigi per girare una pellicola più piccola e affine allo spirito originario della Nouvelle Vague. Attraverso una messinscena anarchica e libera da vincoli produttivi, il regista costruisce un “noir da banlieue” sincero e spontaneo. Tra momenti non necessari e digressioni di ogni tipo, Bande à part mette in scena un triangolo amoroso che tanto ricorda quello di Jules et Jim (1962) di François Truffaut. Non sempre solido e rigoroso, è un film che procede per accumulo di sequenze e situazioni, alcune di culto come la memorabile corsa nel Louvre di Parigi in cui i protagonisti vogliono dimostrare che si può visitarlo integralmente in pochi minuti: pura, ma affatto sterile, provocazione tesa a dissacrare quella cultura borghese che opta per visite guidate e spesso estenuanti. Ritenuto da Godard un film pessimo, con il passare del tempo si è imposto come un gioiello assolutamente imprescindibile.
6) Due o tre cose che so di lei (1967)
Parigi. Juliette è una moglie e madre di tre figli, che si prostituisce per potersi permettere beni superflui e poco necessari. Per Jean-Luc Godard, la protagonista è un mezzo per veicolare il suo messaggio: Juliette è una figura retorica, una sineddoche e una metafora, un simbolo per parlare di qualcosa di più ampio e importante. Attraverso il suo personaggio, il regista condanna la corsa all'acquisto della società occidentale, la mercificazione, la tendenza dell'essere umano di crearsi un'identità soltanto attraverso ciò che gli appartiene. La “lei” del titolo non è Juliette, ma è Parigi, una città che sta vivendo una profonda trasformazione urbanistica e sociale, ulteriore emblema di cosa sta avvenendo nel mondo occidentale. Due o tre cose che so di lei è una delle opere più malinconiche di Godard, lucidissimo nell'offrire spunti allo spettatore e spietato nel mostrare un universo dove ogni forma di bellezza (nel senso più ancestrale del termine) sembra ormai inesistente. Un ultimo battito del cuore originario della Nouvelle Vauge, che il regista abbandonerà definitivamente poco dopo, optando per un cinema più politico e militante. La sequenza con al centro una tazzina di caffè ha fatto epoca, ed è stata omaggiata persino da Martin Scorsese nel suo capolavoro Taxi Driver (1976).
5) Adieu au langage (2013)
È lo stesso Jean-Luc Godard a proporre una sinossi di un film impossibile da riassumere e forse da raccontare. Citazioni continue e incessanti, montaggio frenetico e sonoro sovrastante: Adieu au langage è un vero e proprio bombardamento audiovisivo, una partitura a più voci composta per chi è desideroso di coglierne il senso, sempre che un senso esista davvero. Uno sberleffo (forse), una provocazione sperimentale (perché no?), un ultimo ricordo di quella Nouvelle Vague di cui Godard è stato tra i massimi interpreti. È un'opera sulla scomposizione, sulla crisi d'identità, sul raddoppiamento. Un nuovo Numéro Deux (il riferimento è al suo lungometraggio del 1975) dove a raddoppiare sono i film, i personaggi e persino il cane (del regista) che entra di soppiatto nella storia prima di richiamare su di sé il ruolo di protagonista. Si discute di tutto (dal sesso alla politica, passando per la filosofia) ma, in mezzo a tante domande prive di risposta, la certezza è l'incredibile lucidità con la quale Godard, alla soglia degli ottantaquattro anni di età, riesca ancora a parlare di quei temi che gli sono sempre stati a cuore e di quelle forme linguistiche che, in qualche modo, questa volta vuole innovare con il 3D. La stereoscopia gli permette di oltrepassare i limiti delle inquadrature, e di creare scomposizioni che lasciano a bocca aperta: dalla separazione al ricongiungimento in uno sdoppiarsi che forse non avrà mai fine. Non un film in 3D ma, per la prima volta nella storia del cinema, sul 3D. Allo stesso tempo un epitaffio sul linguaggio della settima arte (già morta?) e una proiezione di quello che potrà essere il futuro dell'audiovisione. Premio della giuria al 67° Festival di Cannes.
4) Il disprezzo (1963)
L'omonimo romanzo di Alberto Moravia è solo un pretesto, narrativo e produttivo, per realizzare una pellicola che amplia decisamente il raggio d'azione rispetto alle pagine del testo di partenza. Jean-Luc Godard compie una spietata e cinica analisi delle dinamiche di coppia, costruendo un film, in parte autobiografico, incentrato sull'opposizione tra vera arte (Omero) e prodotto commerciale (la pellicola hollywoodiana). Attraverso una confezione impeccabile, fatta di sinuosi movimenti di macchina e di ambientazioni suggestive (Villa Malaparte, a Capri), l'autore dà vita a una complessa riflessione sulla maestosità dell'arte classica che oggi potrebbe essere proseguita dal cinema, rappresentato dall'amato Fritz Lang che veste i panni del regista dell'ipotetica Odissea. Le sceneggiature si cambiano, i personaggi si modificano, persino la “diva” può morire, ma il cinema prosegue il suo cammino e non può fermarsi, come dimostra il magnifico finale. Incommentabili i tagli e i rimaneggiamenti imposti da Carlo Ponti per la versione italiana, da evitare come la peste.
3) Questa è la mia vita (1962)
Dodici quadri per raccontare uno dei personaggi più intensi della prima metà degli anni Sessanta. Diviso in vari capitoli introdotti da un breve sommario, il film è il tentativo, magnificamente riuscito, di unire bellezza estetica e indagine sociologica (tutto nasce, infatti, da un'inchiesta giornalistica sulla prostituzione). Jean-Luc Godard segue il percorso della protagonista, Nanà, interpretata da una indmenticabile Anna Karina, come fossero tante tappe di un'esistenza in perenne divenire. Grazie anche all'utilizzo brillante dei piani-sequenza, il regista trasmette un'estrema veridicità a una vicenda che tocca svariate tematiche, dalla miseria alla passione per il cinema, fino alla filosofia. Nanà non vive semplicemente la sua vita così come capita, ma s'interroga sul senso profondo delle cose e non si accontenta mai di risposte o riflessioni di circostanza. Struggente e drammatico più di qualsiasi altro lavoro del grande autore francese. La sequenza al cinema, con la protagonista che si commuove di fronte alla Giovanna d'Arco di Dreyer, identificandosi con lei, è scolpita nella storia. Premio speciale della giuria alla Mostra del Cinema di Venezia.
2) Il bandito delle 11 (1965)
Concitato, sovversivo, indimenticabile. Un'opera romantica, ma mai smielata che, in mezzo a inserti surreali e decise provocazioni audiovisive, mostra le difficoltà del vivere borghese e l'impossibilità di comunicazione all'interno della coppia moderna. Una summa di tutto ciò che Godard ha fatto fino a quel momento, ma mai come in questo caso il regista ha dato tanta importanza al colore e a una struttura frammentata e lucidamente sperimentale. Si cita la letteratura, la poesia, la pittura, il cinema (notevole cameo di Samuel Fuller), eppure di fronte a Il bandito delle 11 (Pierrot le fou, per citare il ben più celebre ed evocativo titolo originale) si ha la sensazione di un prodotto assolutamente unico, lontano da qualsiasi spirito derivativo e forte di un'identità propria. Un film esplosivo, come l'iconico finale, che segna in maniera determinante la cultura degli anni '60 (e non solo). Jean-Paul Belmondo e Anna Karina danno vita a una delle coppie più straordinarie mai viste sullo schermo. Eccezionale fotografia a colori di Raoul Coutard.
1) Fino all'ultimo respiro (1960)
Il manifesto della Nouvelle Vague, il capolavoro di Jean-Luc Godard, il capostipite del cinema moderno. Una pellicola epocale. Indubbiamente tra gli esordi più impressionanti di sempre, l'opera prima di Godard si avvale della collaborazione di François Truffaut (autore del soggetto), di una coppia di attori in stato di grazia (Belmondo-Seberg) e di un montaggio (Cécile Decugis) semplicemente memorabile. Mettendo in pratica le idee innovative che i “giovani turchi” (oltre a Godard e Truffaut, anche Claude Chabrol, Eric Rohmer e Jacques Rivette) promuovevano qualche anno prima sulle colonne dei Cahiers du Cinéma, il giovane regista costruisce un grande omaggio al cinema del passato (i riferimenti a Humphrey Bogart e al poliziesco americano) con uno sguardo, però, proiettato verso il futuro. Godard rivoluziona il linguaggio della settima arte oltrepassando i convenzionali tabù del cinema classico hollywoodiano: i personaggi guardano direttamente in macchina arrivando persino a rivolgersi verbalmente allo spettatore. I piani-sequenza si alternano ai jump-cut, la pista visiva è frammentata mentre quella sonora prosegue tranquillamente, gli scavalcamenti di campo sono continui: Fino all'ultimo respiro è un manifesto, anche politico, che arriva a frantumare le regole fondamentali del montaggio contiguo e della narrazione cinematografica. È la miccia che ha portato all'esplosione di un “cinema nuovo”, che attraverserà tutti gli anni Sessanta in diverse nazioni di tutto il mondo. Orso d'argento per la miglior regia al Festival di Berlino.