“Tutte le categorie sono importanti per fare riferimenti incrociati.”
Ci siamo quasi, il gran finale in cui David Fincher torna dietro la macchina da presa è alle porte, eppure Mindhunter sembra avere ancora così tanto da dire e da dare che non stupisce sia già stato rinnovato per un’altra stagione, almeno.
Alla regia, per gli episodi 7 e 8, Andrew Douglas, capace di mantenere alta la qualità generale dell’opera e, per ora, dirigendo quello che sembrerebbe essere il miglior episodio della serie, ossia il settimo. È infatti interessante come le vite dei protagonisti ora risentano delle loro quotidiane attività all’FBI, come se i casi riecheggiassero pericolosamente nella loro intimità, ed è in particolare Jerry Brudos – serial killer feticista e amante delle scarpe da donna, attivo tra il 1968 e il 1969, qui interpretato da Happy Anderson – a far vacillare la coppia di agenti, in particolare Holden, che poco prima era stato quasi rimproverato dal suo partner: “Se questo lavoro non ti fa effetto, sei più incasinato di quanto pensassi. Oppure menti”.
Le indagini proseguono, i casi sono sempre più violenti, ma è soprattutto sulle vite private che si concentra maggiormente Douglas, il quale fonda la sua coppia di episodi sui concetti di famiglia e di intimità, declinati in più modi, messi in discussione, talvolta compromessi e a volte irreparabilmente. C’è tensione, la si percepisce ed è come se si viaggiasse su quattro binari differenti ma comunque intrecciati: le vite private dei tre protagonisti e il caso da seguire, analizzare e, se possibile, cercare di comprendere. Douglas è molto abile nel gestire una sceneggiatura che si fa sempre più intricata e che, ora, tornerà nelle mani di chi aveva iniziato tutto.