In attesa della 96ª edizione dei premi Oscar, che si terrà a Los Angeles al Dolby Theatre il 10 marzo 2024, ecco tutti i nominati come Miglior film dal peggiore al migliore, secondo il nostro ordine di preferenza.
10. BARBIE (Greta Gerwig)
Quarta prova dietro la macchina da presa per Greta Gerwig, regista sempre attenta a raccontare personaggi femminili in cerca di una propria identità (si vedano in tal senso i precedenti Lady Bird e Piccole donne), che torna a collaborare in fase di sceneggiatura con il compagno Noah Baumbach, dopo Frances Ha e Mistress America. Questi due film precedenti, in cui la sceneggiatrice era anche l’attrice protagonista, erano entrambi diretti da Baumbach mentre in questo caso è la prima volta in cui i due collaborano a un copione poi diretto da lei. Primo adattamento cinematografico live action della celebre serie di fashion doll della Mattel, Barbie si apre con una divertente citazione/parodia di 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, già utilizzata anche mesi prima dell’uscita tra le tantissime iniziative di (viral?) marketing che hanno accompagnato la produzione di questa pellicola. Si capisce molto presto come in questo lungometraggio ci sia un’ambizione molto più alta di quella che si potrebbe pensare a prima vista di fronte a una pellicola sulla bambola più venduta del mondo, a partire dal confronto tra il mondo incantato di Barbie e quello reale, come specchi di due società incentrate una sul femminile e l’altra sul patriarcato. Gli spunti sono importanti e coerenti con quanto messo in scena, ma i toni da comizio e una ridondanza impressionante rendono i messaggi troppo didascalici e inutilmente ripetuti. Non mancano di certo le idee a questo film (notevole l’estetica visiva dell’universo di Barbie), ma non sono abbastanza per dare vita a un intrattenimento del tutto compiuto e il film finisce per risultare meno incisivo del dovuto. Molto colorato e a tratti divertente, è un lungometraggio che incuriosisce ma che non riesce a essere del tutto ficcante, soprattutto in una seconda parte che rimette in pista troppi concetti già espressi in precedenza. Buona prova di Margot Robbie, perfettamente in parte in un ruolo meno semplice di quello che sembra.
9. AMERICAN FICTION (Cord Jefferson)
È un film sull’identità American Fiction, esordio alla regia per Cord Jefferson, già sceneggiatore di serie televisive di successo come Watchmen e Station Eleven. Prendendo spunto dal romanzo Erasure di Percival Everett Erasure del 2001, Jefferson racconta un personaggio che (s)vende la sua identità e quello in cui crede davvero, per creare un alter ego che scrive seguendo le mode del momento e che si vende per quello che non è. Un tradimento pensato per fare soldi facilmente, ma anche per prendersi qualche rivincita su un sistema che sente corrotto, fino alla prevedibile redenzione. American Fiction gioca coi luoghi comuni e gli stereotipi della narrativa (e del cinema) più politically correct possibile, ironizzando sui cliché e sulla retorica relativa alla letteratura black e a tutte le più ruffiane conseguenza in ambito commerciale. In questa satira al vetriolo c’è spazio per spunti di notevole intelligenza (soprattutto nella prima parte) e per momenti puramente divertenti, anche se a lungo andare il gioco mostra un po’ alla corda e diversi passaggi sono prevedibili quasi quanto i bersagli che il film ha nel suo mirino. Qualche calo col passare dei minuti non aiuta, anche se la scrittura dei personaggi è brillante e il finale azzeccato. Il risultato è un film imperfetto ma riuscito, che ha nella prova di un ottimo Jeffrey Wright uno dei suoi massimi punti di forza.
8. POVERE CREATURE! (Yorgos Lanthimos)
Adattando l'omonimo romanzo (1992) dello scrittore e artista visivo scozzese Alasdair Gray, precedentemente intitolato in Italia dapprima Poveracci! e successivamente Vita e misteri della prima donna medico d'Inghilterra, Yorgos Lanthimos ha dato vita a una fiaba gotica che, come accade nel testo letterario d'origine, non nasconde i riferimenti a Mary Shelley, sparigliando le carte del canonico racconto di formazione con una sorta di Frankenstein al femminile. La parabola di Belle, tra educazione sentimentale e presa di coscienza individuale, segue una traiettoria fin troppo rigida, ma l'evoluzione del suo punto di vista è uno degli aspetti più accattivanti del film, soprattutto quando si trova ancora a ragionare, letteralmente, con la testa di una bambina. La donna, oggetto di possesso e manipolazione sia fisica (da parte del dottore) sia mentale (da parte dell'avvocato), è costantemente costretta a difendere la propria autonomia di pensiero, in un mondo ai limiti della surreale distopia, dove la volontà di possesso dell'uomo assume tratti animaleschi. Lanthimos gioca tutte le sue carte all'insegna di un formalismo esasperante e spesso puramente autoreferenziale, ma le zampate vincenti non mancano. Il legittimo desiderio di evasione, uguaglianza ed emancipazione della protagonista si concretizza in un'avventura dalle location visivamente strabilianti e la figura del Dr. Godwin Baxter vale da sola la visione del film, ma il regista greco non riesce a portare fino alle estreme conseguenze la sua volontà di destabilizzare e portare fuori dalla sua abituale confort zone lo spettatore. Il registro è sempre quello giusto e i tanti momenti di grottesco umorismo funzionano senza riserve, ma le dinamiche che si susseguono, quasi sempre duplicate in maniera ridondante per fissarle in un rigido quadro d'insieme al limite del didascalismo, fanno perdere brio a un film a cui avrebbe giovato non poco una maggiore libertà artistica. Eccellenti la fotografia (Robbie Ryan), le scenografie (Shona Heath, James Price) e i costumi (Holly Waddington). Vincitore del Leone d'oro alla Mostra del Cinema di Venezia.
7. ANATOMIA DI UNA CADUTA (Justine Triet)
Parte subito fortissimo Anatomia di una caduta, quarto lungometraggio della regista francese Justine Triet, che ci mostra in pochi minuti quali saranno i due snodi fondamentali dell’intera vicenda: il rapporto tra realtà e finzione, esplicitamente evocato, e gli screzi tra marito e moglie. Quest’ultima sta facendo un’intervista con una studentessa, ma il marito dal piano di sopra alza talmente tanto la musica da rendere impossibile la conversazione tra le due. Pochi minuti dopo, la tragedia che darà il via all’indagine. Scritto dalla regista insieme ad Arthur Harari, è un film dal copione solido e avvincente, nonostante l’eccessivamente lunga durata (circa 150 minuti) limiti a tratti il coinvolgimento. Durante il processo, quando la donna viene interrogata sulla sua relazione con il marito, mentre viene a galla il ritratto di un rapporto difficile e tormentato, ci sono però i passaggi più intensi, a partire da un potentissimo flashback che noi spettatori vediamo, mentre in tribunale viene “soltanto” ascoltato tramite una registrazione. Triet costruisce bene i personaggi, dando anche grande attenzione al figlio Daniel, che alcuni anni prima ha subito un incidente che l’ha privato della vista e che ha portato la coppia a una crisi perdurata poi nel tempo. Costretto ad assistere al processo, Daniel vive un profondo conflitto interiore che sarà uno degli snodi principali della vicenda. Alcuni passaggi possono risultare eccessivamente studiati a tavolino, ma il disegno d’insieme risulta sempre credibile e non forzato, nonostante qualche momento un po’ troppo convenzionale. Tra i tanti pregi di un’operazione comunque pienamente riuscita, una menzione speciale va alla straordinaria performance di Sandra Hüller in uno dei ruoli più intensi e significativi della sua carriera. Presentato in concorso al Festival di Cannes dove ha vinto la Palma d'oro.
6. MAESTRO (Bradley Cooper)
Dopo aver esordito alla regia con A Star Is Born (2018), Bradley Cooper torna dietro la macchina da presa con una palpitante storia ad alto tasso emotivo con al centro, ancora una volta, la musica. Dal country rock interpretato accanto a Lady Gaga, si passa qui alle atmosfere morbide ed eleganti di un biopic che sfrutta al meglio tutte le potenzialità delle convenzioni del genere di stampo hollywoodiano, all'insegna di un limpido classicismo che è la sintesi di uno sforzo produttivo di altissimo livello (tra i produttori figurano Martin Scorsese e Steven Spielberg). Tutto giocato su dualismi (attrazione per gli uomini e attrazione per le donne, pubblico e privato, vita e arte) che ci danno il quadro della costante perdita di equilibrio di Bernstein, in un certo senso "scisso" anche a livello di creazione artistica, il film passa sapientemente dal bianconero al colore per dipingere circa quarant'anni della vita di un genio assoluto, mettendo in primo piano la sfera intima che riguarda la vita di coppia e le dolorose scelte che bisogna compiere quando (non) ci si assume piena responsabilità delle proprie azioni. Le partiture musicali di Bernstein vivono sullo schermo con estrema fluidità, senza mai diventare un tappeto musicale fine a se stesso, e alcuni momenti di febbrile emozione nel ripercorrere le tappe di una carriera incredibile, come ad esempio l'omaggio al capolavoro On the Town (1944), musical di Bernstein portato sul grande schermo da Stanley Donen e Gene Kelly nel 1949, colpiscono nel segno. Cruciale il personaggio di Felicia, figura femminile che infonde sicurezza e affetto a un uomo in preda a una inesauribile voglia di creare e amare che però troppo spesso si trova vittima dei propri fantasmi interiori. Raffinatissimo nella messa in scena, giocata su lunghe inquadrature fisse e plastici movimenti di macchina, il film trova nell'eccezionale direzione degli interpreti il suo pregio più grande: Bradley Cooper e Carey Mulligan incantano per naturalezza e intensità in ogni singola sequenza, valorizzando la sceneggiatura dello stesso Cooper e di Josh Singer (Il caso Spotlight, The Post, First Man – Il primo uomo), autori di un copione con qualche momento più debole di altri (soprattutto all’inizio e alla fine), ma capace di coinvolgere a pieno nella parte centrale. Probabilmente gioca su un terreno fin troppo consolidato per guadagnarsi l'appellativo di "grande film", ma esempi di cinema come questo sono modelli destinati a durare a lungo nel tempo. Distribuito da Netflix e presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia.
5. PAST LIVES (Celine Song)
Un magnetico sguardo in macchina. Così inizia Past Lives, intima e struggente opera prima di Celine Song. L’esordio dietro la macchina da presa della drammaturga e sceneggiatrice coreana (naturalizzata canadese) possiede sicuramente dei forti rimandi autobiografici: come Nora, la protagonista del suo film, anche la regista ha dovuto lasciare la Corea con la propria famiglia all’età di dodici anni. Eppure, nonostante il personalissimo spunto narrativo iniziale, Song riesce a mettere in scena un’opera dal respiro universale in grado di rappresentare, senza alcun tipo di retorica, un sentimento complesso, sfaccettato e spesso abusato nella storia del cinema come quello della nostalgia. Con una regia che stupisce per lucidità e sensibilità, tanto nei movimenti di macchina quanto nelle scelte di inquadratura o di uso del montaggio, la giovane cineasta accompagna lo spettatore per tre epoche diverse, proponendo un’importante riflessione sull’immanenza del tempo e del suo rapporto universale con l’essere umano. Le due parole che formano il titolo sono, infatti, due concetti da prendere singolarmente: il passato e il presente della vita “che va avanti”, sembra dirci la regista, sono termini apparentemente estremi ma, nella realtà dei fatti, in grado di intrecciarsi e influenzarsi reciprocamente. Past Lives, d’altronde, è un film dalla duplice anima, dove il tema del doppio è un costante rimando per tutta la durata della pellicola. Il bilinguismo della protagonista (che parla inglese e coreano) si riflette nella sua personale ricerca identitaria legata a doppio filo ad opposte dimensioni temporali, spaziali, culturali e amorose. Tra presente e passato, New York e Seoul, occidente e oriente, l’anima di Nora è divisa anche dal suo amore per il marito americano Arthur (John Magaro) e il forte senso di nostalgia nei confronti di Hang-seo, suo primo amore d’infanzia, ultimo legame con un tempo e un luogo passati che non torneranno più. In questo senso, la ricerca di una propria dimensione identitaria, lontana dalle proprie origini, sembra scontrarsi con la potenza evocativa rappresentata dal ricordo. Non è un caso che il film faccia un dichiarato riferimento, anche nella scelta di ambientare una parte del racconto nella località di Montauk, a Se mi lasci ti cancello, opera la cui essenza psicanalitica e il profondo rapporto con il tema della memoria sono conservati e rielaborati da Celine Song. Ma Past Lives è anche un film di grande potenza empatica, in grado di far saltare qualsiasi archetipo narrativo legato alla dicotomia tra bene e male per raccontare, invece, il tentativo di comprendersi tra esseri umani nonostante le evidenti barriere linguistiche, culturali ed emotive. In questo senso, nel film ritorna più volte il concetto di inyeon (ripreso dal buddismo), secondo cui tutto è collegato e qualsiasi incontro della nostra vita ha un corrispettivo antecedente all’interno delle nostre vite passate ma anche una potenziale proiezione nel futuro.
4. THE HOLDOVERS – LEZIONI DI VITA (Alexander Payne)
Dolceamaro film natalizio, carico di nostalgia ma anche di un certo sarcasmo, The Holdovers segna il ritorno dietro la macchina da presa di Alexander Payne a sei anni di distanza dal debolissimo Downsizing, probabilmente la prova più trascurabile della sua bella carriera. Mescolando dramma e commedia – come in A proposito di Schmidt (2002) e Paradiso amaro (2011) – il regista americano firma una pellicola semplice soltanto in apparenza, visto il soggetto che può richiamare molti altri lungometraggi del passato: un professore e uno studente, entrambi soli e inizialmente avversi l’uno all’altro, finiranno per imparare molto stando insieme, scambiandosi i ruoli e tornando ad avere fiducia e speranza nella vita. Se la base può così apparire banalotta, l’esito è molto diverso e bastano alcuni dialoghi (battibecchi compresi!) o momenti di silenzio (la capocuoca che lascia i vestitini di suo figlio neonato alla sorella incinta) per dimostrare la profondità di una pellicola incisiva e di fortissima presa emotiva. Personaggi scritti benissimo e una messinscena che gioca molto sui continui cambi di posizione degli stessi (a volte molto vicini, altre volte particolarmente distanti rispetto alla macchina da presa) rendono The Holdovers una pellicola perfetta per riflettere, in maniera tanto spontanea quanto sincera, sull’esistenza e sul rapporto tra le generazioni. Si ride e ci si commuove con questo film che ha, tra i suoi tanti punti di forza, anche l’ottima prova di un Paul Giamatti in stato di grazia, ma tutto il cast è in formissima. Quella composta dal professore Paul, dallo studente Angus e dalla capocuoca Mary è una delle “famiglie” più anomale, credibili, sentite e magnifiche che siano mai apparse sul grande schermo in una sequenza relativa al classico cenone di Natale. Presentato in anteprima al Festival di Toronto, The Holdovers ha poi ottenuto moltissime nomination nei premi più importanti della stagione.
3. KILLERS OF THE FLOWER MOON (Martin Scorsese)
Un film di Martin Scorsese. Basterebbero queste parole per descrivere Killers of the Flower Moon, pellicola in cui ritroviamo tutte le principali tematiche e ossessioni dello straordinario regista americano: dall’alienazione post bellica di Taxi Driver al racconto simbolico della nascita degli Stati Uniti come in Gangs of New York, passando per una cinefilia che parte dal grande cinema muto (da Griffith ai western dell’epoca) per arrivare a Il gigante di George Stevens. A tutto questo, però, si aggiunge un purissimo piacere per lo storytelling che Scorsese non aveva mai sperimentato così tanto in precedenza. Alla base c’è l’omonimo libro-inchiesta del 2017, scritto dal giornalista americano David Grann, che Scorsese e lo sceneggiatore Eric Roth hanno adattato per il grande schermo in maniera mirabile, regalando una vera e propria goduria relativa all’arte del raccontare: si mescolano stili e generi – dal western al gangster, passando per il cinema processuale – in questa potentissima sarabanda di registri e di emozioni. Tra le tante sequenze che richiamano le tradizioni dei nativi americani, c’è spazio per momenti profondamente spirituali e commoventi, a partire dall'addio di un personaggio in cui Scorsese crea uno straordinario montaggio alternato, tra ciò che vede la donna che sta morendo attraverso il suo cuore e il suo spirito e ciò che la mera realtà ci offre davanti agli occhi. All’interno di una pellicola che scava in maniera feroce negli abissi più reconditi dell’animo umano, c’è però spazio per passaggi di purissima commedia: tra i memorabili duetti tra De Niro e DiCaprio ci sono anche momenti di grande leggerezza, in cui si percepisce il divertimento che attori e regista hanno voluto regalare e regalarsi. In questa mescolanza di tantissimi spunti estetici e stilistici, c’è inoltre il disegno generale di una produzione che vuole anche raccontare un’importante cartolina storica su una terribile vicenda americana che non va dimenticata. La leggerezza di cui sopra è anche, miracolosamente, quella percepita di fronte alle circa tre ore e trenta minuti di durata: Killers of the Flower Moon vola via in un attimo, come un soffio lieve, grazie a un montaggio ben assestato e a un’ottima colonna sonora, oltre a una attenzione ai movimenti della macchina da presa che certo non stupisce di fronte alla maestria di un autore di tale calibro. In questo lungometraggio dal sapore epico, ancora uno spazio lo meritano i già citati protagonisti, i due “attori preferiti” del regista che qui si trovano per la prima volta faccia a faccia in un film di Scorsese (è la sesta collaborazione tra l’autore americano e DiCaprio; la decima con De Niro): fin dal loro iniziale incontro, si percepisce la grandezza di una prova d’attori che verterà su una serie di passaggi fondamentali nella loro relazione, tra le più intense e stratificate di tutto il cinema di un regista che si è messo davvero il cuore in mano con questo lavoro dove si percepisce tutta la sua passione. Il risultato è un film che, nonostante conosciamo bene le tematiche e le modalità tecniche tipiche del suo autore, riesce a stupire per tutta la sua durata, inquietandoci e divertendoci dalla prima all’ultima sequenza. Un grande film. Un film di Martin Scorsese.
2. OPPENHEIMER (Christopher Nolan)
È una questione di scelta, una questione morale, quella che mette in scena Oppenheimer, dodicesimo lungometraggio di Christopher Nolan e primo film biografico della sua carriera. Uccidere migliaia di persone per salvarne di più? Usare una bomba, l’arma bellica per eccellenza, per raggiungere la pace? I dilemmi del personaggio principale sono gli stessi di uno spettatore che viene lanciato all’interno della mente di Oppenheimer, che sente i suoi tormenti e le sue eccitazioni, non riuscendo mai a fermarli, come in un’infinita reazione a catena. Visiva, sonora, atomica che sia. Non è così importante leggere la musica (capirla) ma sentirla (come un flusso costante e ininterrotto), parafrasando una delle frasi più significative di una calibratissima sceneggiatura (ispirata alla biografia Robert Oppenheimer, il padre della bomba atomica. Il trionfo e la tragedia di uno scienziato di Kai Bird e Martin J. Sherwin) che raggiunge la vetta nella serratissima parte finale. Non a caso la musica di Ludwig Göransson è martellante e copre quasi interamente la durata (circa 180 minuti) di una pellicola che ha un "tappeto sonoro" di una potenza semplicemente devastante, tesa ancora una volta a rappresentare lo stato mentale di un personaggio geniale e inquietante, talmente ambiguo da essere anche lui parte di quei dubbi morali di cui sopra. Siamo effettivamente dentro di lui, ma cosa prova davvero e quanto il senso di colpa può effettivamente limitare ciò che ha compiuto? Attraverso un costante gioco stilistico, che alterna colore e bianco e nero, immagini mentali soggettive e situazioni oggettive, il tempo prima dello scoppio della bomba atomica e quello successivo, Nolan costruisce l’ennesima narrazione complessa e stratificata della sua carriera, riuscendo a dare ai dialoghi una forza drammaturgica forse mai raggiunta prima nel suo cinema. La tensione si rivela quasi insopportabile in diversi, memorabili passaggi in cui emerge una capacità di gestione del montaggio davvero straordinaria. Viene quasi da chiudere gli occhi, di fronte a certi momenti in tutti i sensi accecanti, all’interno di una pellicola che gioca anche sullo sguardo e su cambi di prospettiva in cui lo spettatore ha sempre un ruolo attivo. Boati ed esplosioni, però, non potranno mai essere disturbanti quanto delle sottili parole, pronunciate lievemente, magari in riva a un lago, mentre nessun altro può sentire. Eccellente prova di Cillian Murphy, ma tutto il cast fa un lavoro egregio: si dovrebbero citare davvero tutti, anche per merito di un grande regista che è anche un grande direttore d’attori, ma una menzione speciale va a un magistrale Robert Downey Jr. nei panni di Lewis Strauss e a una Florence Pugh intensa più che mai.
1. LA ZONA D'INTERESSE (Jonathan Glazer)
A dieci anni esatti dal discusso Under the Skin (2013), interpretato da Scarlett Johansson e presentato non senza polemiche in concorso a Venezia, Jonathan Glazer torna con un nuovo progetto fortemente divisivo. Ispirato all'omonimo romanzo (2014) di Martin Amis, che viene fortemente ridotto all’osso, il film è una straordinaria riflessione sulle potenzialità del linguaggio cinematografico contemporaneo, elevandosi a esperienza di visione di rara potenza espressiva e imponendosi in tutta la sua audacia su un delicatissimo tema, raramente affrontato in maniera così radicale. Tutto il film, girato in un digitale ad altissima definizione che cristallizza le immagini in glaciali quadri illuminati dalla sola luce naturale, sconvolge nella sua profonda ricerca sul sonoro e sulla negazione dell'immagine, evidente fin dal prologo, che trova impressionante compimento in soluzioni sperimentali da brivido. A una "normalità" sempre sull'orlo dell'implosione emotiva, in cui i protagonisti sembrano anestetizzati e ridotti a uomini privi di una reale percezione della realtà, si contrappone la mostruosità del campo di stermino, ma Glazer, spingendo al limite il valore performativo della messa in scena, non lascia mai che l'evidenza delle atrocità prenda il sopravvento: bastano il rumore di un treno (che noi sappiamo essere stipato di deportati al macello), una flebile colonna di fumo dalla ciminiera dei forni crematori o le alte mura di cinta con alla loro sommità il filo spinato per trasmettere disagio. Anche la presenza immobile e severa della natura diventa un elemento di grande portata concettuale. Il salto temporale nel finale, orchestrato con sublime padronanza del mezzo cinematografico, è da togliere il fiato. Straordinario per regia e direzione della fotografia (di Łukasz Żal), il film è stato girato ad Auschwitz nella seconda metà del 2021, mentre la residenza degli Höss è stata ricostruita dallo scenografo Chris Oddy, con gli attori liberi di muoversi all'interno della scena mentre venivano ripresi da più di dieci angolazioni contemporaneamente. Fondamentale il contributo della compositrice britannica Mica Levi. Presentato in concorso al Festival di Cannes dove ha vinto un meritatissimo Grand Prix.
10. BARBIE (Greta Gerwig)
Quarta prova dietro la macchina da presa per Greta Gerwig, regista sempre attenta a raccontare personaggi femminili in cerca di una propria identità (si vedano in tal senso i precedenti Lady Bird e Piccole donne), che torna a collaborare in fase di sceneggiatura con il compagno Noah Baumbach, dopo Frances Ha e Mistress America. Questi due film precedenti, in cui la sceneggiatrice era anche l’attrice protagonista, erano entrambi diretti da Baumbach mentre in questo caso è la prima volta in cui i due collaborano a un copione poi diretto da lei. Primo adattamento cinematografico live action della celebre serie di fashion doll della Mattel, Barbie si apre con una divertente citazione/parodia di 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, già utilizzata anche mesi prima dell’uscita tra le tantissime iniziative di (viral?) marketing che hanno accompagnato la produzione di questa pellicola. Si capisce molto presto come in questo lungometraggio ci sia un’ambizione molto più alta di quella che si potrebbe pensare a prima vista di fronte a una pellicola sulla bambola più venduta del mondo, a partire dal confronto tra il mondo incantato di Barbie e quello reale, come specchi di due società incentrate una sul femminile e l’altra sul patriarcato. Gli spunti sono importanti e coerenti con quanto messo in scena, ma i toni da comizio e una ridondanza impressionante rendono i messaggi troppo didascalici e inutilmente ripetuti. Non mancano di certo le idee a questo film (notevole l’estetica visiva dell’universo di Barbie), ma non sono abbastanza per dare vita a un intrattenimento del tutto compiuto e il film finisce per risultare meno incisivo del dovuto. Molto colorato e a tratti divertente, è un lungometraggio che incuriosisce ma che non riesce a essere del tutto ficcante, soprattutto in una seconda parte che rimette in pista troppi concetti già espressi in precedenza. Buona prova di Margot Robbie, perfettamente in parte in un ruolo meno semplice di quello che sembra.
9. AMERICAN FICTION (Cord Jefferson)
È un film sull’identità American Fiction, esordio alla regia per Cord Jefferson, già sceneggiatore di serie televisive di successo come Watchmen e Station Eleven. Prendendo spunto dal romanzo Erasure di Percival Everett Erasure del 2001, Jefferson racconta un personaggio che (s)vende la sua identità e quello in cui crede davvero, per creare un alter ego che scrive seguendo le mode del momento e che si vende per quello che non è. Un tradimento pensato per fare soldi facilmente, ma anche per prendersi qualche rivincita su un sistema che sente corrotto, fino alla prevedibile redenzione. American Fiction gioca coi luoghi comuni e gli stereotipi della narrativa (e del cinema) più politically correct possibile, ironizzando sui cliché e sulla retorica relativa alla letteratura black e a tutte le più ruffiane conseguenza in ambito commerciale. In questa satira al vetriolo c’è spazio per spunti di notevole intelligenza (soprattutto nella prima parte) e per momenti puramente divertenti, anche se a lungo andare il gioco mostra un po’ alla corda e diversi passaggi sono prevedibili quasi quanto i bersagli che il film ha nel suo mirino. Qualche calo col passare dei minuti non aiuta, anche se la scrittura dei personaggi è brillante e il finale azzeccato. Il risultato è un film imperfetto ma riuscito, che ha nella prova di un ottimo Jeffrey Wright uno dei suoi massimi punti di forza.
8. POVERE CREATURE! (Yorgos Lanthimos)
Adattando l'omonimo romanzo (1992) dello scrittore e artista visivo scozzese Alasdair Gray, precedentemente intitolato in Italia dapprima Poveracci! e successivamente Vita e misteri della prima donna medico d'Inghilterra, Yorgos Lanthimos ha dato vita a una fiaba gotica che, come accade nel testo letterario d'origine, non nasconde i riferimenti a Mary Shelley, sparigliando le carte del canonico racconto di formazione con una sorta di Frankenstein al femminile. La parabola di Belle, tra educazione sentimentale e presa di coscienza individuale, segue una traiettoria fin troppo rigida, ma l'evoluzione del suo punto di vista è uno degli aspetti più accattivanti del film, soprattutto quando si trova ancora a ragionare, letteralmente, con la testa di una bambina. La donna, oggetto di possesso e manipolazione sia fisica (da parte del dottore) sia mentale (da parte dell'avvocato), è costantemente costretta a difendere la propria autonomia di pensiero, in un mondo ai limiti della surreale distopia, dove la volontà di possesso dell'uomo assume tratti animaleschi. Lanthimos gioca tutte le sue carte all'insegna di un formalismo esasperante e spesso puramente autoreferenziale, ma le zampate vincenti non mancano. Il legittimo desiderio di evasione, uguaglianza ed emancipazione della protagonista si concretizza in un'avventura dalle location visivamente strabilianti e la figura del Dr. Godwin Baxter vale da sola la visione del film, ma il regista greco non riesce a portare fino alle estreme conseguenze la sua volontà di destabilizzare e portare fuori dalla sua abituale confort zone lo spettatore. Il registro è sempre quello giusto e i tanti momenti di grottesco umorismo funzionano senza riserve, ma le dinamiche che si susseguono, quasi sempre duplicate in maniera ridondante per fissarle in un rigido quadro d'insieme al limite del didascalismo, fanno perdere brio a un film a cui avrebbe giovato non poco una maggiore libertà artistica. Eccellenti la fotografia (Robbie Ryan), le scenografie (Shona Heath, James Price) e i costumi (Holly Waddington). Vincitore del Leone d'oro alla Mostra del Cinema di Venezia.
7. ANATOMIA DI UNA CADUTA (Justine Triet)
Parte subito fortissimo Anatomia di una caduta, quarto lungometraggio della regista francese Justine Triet, che ci mostra in pochi minuti quali saranno i due snodi fondamentali dell’intera vicenda: il rapporto tra realtà e finzione, esplicitamente evocato, e gli screzi tra marito e moglie. Quest’ultima sta facendo un’intervista con una studentessa, ma il marito dal piano di sopra alza talmente tanto la musica da rendere impossibile la conversazione tra le due. Pochi minuti dopo, la tragedia che darà il via all’indagine. Scritto dalla regista insieme ad Arthur Harari, è un film dal copione solido e avvincente, nonostante l’eccessivamente lunga durata (circa 150 minuti) limiti a tratti il coinvolgimento. Durante il processo, quando la donna viene interrogata sulla sua relazione con il marito, mentre viene a galla il ritratto di un rapporto difficile e tormentato, ci sono però i passaggi più intensi, a partire da un potentissimo flashback che noi spettatori vediamo, mentre in tribunale viene “soltanto” ascoltato tramite una registrazione. Triet costruisce bene i personaggi, dando anche grande attenzione al figlio Daniel, che alcuni anni prima ha subito un incidente che l’ha privato della vista e che ha portato la coppia a una crisi perdurata poi nel tempo. Costretto ad assistere al processo, Daniel vive un profondo conflitto interiore che sarà uno degli snodi principali della vicenda. Alcuni passaggi possono risultare eccessivamente studiati a tavolino, ma il disegno d’insieme risulta sempre credibile e non forzato, nonostante qualche momento un po’ troppo convenzionale. Tra i tanti pregi di un’operazione comunque pienamente riuscita, una menzione speciale va alla straordinaria performance di Sandra Hüller in uno dei ruoli più intensi e significativi della sua carriera. Presentato in concorso al Festival di Cannes dove ha vinto la Palma d'oro.
6. MAESTRO (Bradley Cooper)
Dopo aver esordito alla regia con A Star Is Born (2018), Bradley Cooper torna dietro la macchina da presa con una palpitante storia ad alto tasso emotivo con al centro, ancora una volta, la musica. Dal country rock interpretato accanto a Lady Gaga, si passa qui alle atmosfere morbide ed eleganti di un biopic che sfrutta al meglio tutte le potenzialità delle convenzioni del genere di stampo hollywoodiano, all'insegna di un limpido classicismo che è la sintesi di uno sforzo produttivo di altissimo livello (tra i produttori figurano Martin Scorsese e Steven Spielberg). Tutto giocato su dualismi (attrazione per gli uomini e attrazione per le donne, pubblico e privato, vita e arte) che ci danno il quadro della costante perdita di equilibrio di Bernstein, in un certo senso "scisso" anche a livello di creazione artistica, il film passa sapientemente dal bianconero al colore per dipingere circa quarant'anni della vita di un genio assoluto, mettendo in primo piano la sfera intima che riguarda la vita di coppia e le dolorose scelte che bisogna compiere quando (non) ci si assume piena responsabilità delle proprie azioni. Le partiture musicali di Bernstein vivono sullo schermo con estrema fluidità, senza mai diventare un tappeto musicale fine a se stesso, e alcuni momenti di febbrile emozione nel ripercorrere le tappe di una carriera incredibile, come ad esempio l'omaggio al capolavoro On the Town (1944), musical di Bernstein portato sul grande schermo da Stanley Donen e Gene Kelly nel 1949, colpiscono nel segno. Cruciale il personaggio di Felicia, figura femminile che infonde sicurezza e affetto a un uomo in preda a una inesauribile voglia di creare e amare che però troppo spesso si trova vittima dei propri fantasmi interiori. Raffinatissimo nella messa in scena, giocata su lunghe inquadrature fisse e plastici movimenti di macchina, il film trova nell'eccezionale direzione degli interpreti il suo pregio più grande: Bradley Cooper e Carey Mulligan incantano per naturalezza e intensità in ogni singola sequenza, valorizzando la sceneggiatura dello stesso Cooper e di Josh Singer (Il caso Spotlight, The Post, First Man – Il primo uomo), autori di un copione con qualche momento più debole di altri (soprattutto all’inizio e alla fine), ma capace di coinvolgere a pieno nella parte centrale. Probabilmente gioca su un terreno fin troppo consolidato per guadagnarsi l'appellativo di "grande film", ma esempi di cinema come questo sono modelli destinati a durare a lungo nel tempo. Distribuito da Netflix e presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia.
5. PAST LIVES (Celine Song)
Un magnetico sguardo in macchina. Così inizia Past Lives, intima e struggente opera prima di Celine Song. L’esordio dietro la macchina da presa della drammaturga e sceneggiatrice coreana (naturalizzata canadese) possiede sicuramente dei forti rimandi autobiografici: come Nora, la protagonista del suo film, anche la regista ha dovuto lasciare la Corea con la propria famiglia all’età di dodici anni. Eppure, nonostante il personalissimo spunto narrativo iniziale, Song riesce a mettere in scena un’opera dal respiro universale in grado di rappresentare, senza alcun tipo di retorica, un sentimento complesso, sfaccettato e spesso abusato nella storia del cinema come quello della nostalgia. Con una regia che stupisce per lucidità e sensibilità, tanto nei movimenti di macchina quanto nelle scelte di inquadratura o di uso del montaggio, la giovane cineasta accompagna lo spettatore per tre epoche diverse, proponendo un’importante riflessione sull’immanenza del tempo e del suo rapporto universale con l’essere umano. Le due parole che formano il titolo sono, infatti, due concetti da prendere singolarmente: il passato e il presente della vita “che va avanti”, sembra dirci la regista, sono termini apparentemente estremi ma, nella realtà dei fatti, in grado di intrecciarsi e influenzarsi reciprocamente. Past Lives, d’altronde, è un film dalla duplice anima, dove il tema del doppio è un costante rimando per tutta la durata della pellicola. Il bilinguismo della protagonista (che parla inglese e coreano) si riflette nella sua personale ricerca identitaria legata a doppio filo ad opposte dimensioni temporali, spaziali, culturali e amorose. Tra presente e passato, New York e Seoul, occidente e oriente, l’anima di Nora è divisa anche dal suo amore per il marito americano Arthur (John Magaro) e il forte senso di nostalgia nei confronti di Hang-seo, suo primo amore d’infanzia, ultimo legame con un tempo e un luogo passati che non torneranno più. In questo senso, la ricerca di una propria dimensione identitaria, lontana dalle proprie origini, sembra scontrarsi con la potenza evocativa rappresentata dal ricordo. Non è un caso che il film faccia un dichiarato riferimento, anche nella scelta di ambientare una parte del racconto nella località di Montauk, a Se mi lasci ti cancello, opera la cui essenza psicanalitica e il profondo rapporto con il tema della memoria sono conservati e rielaborati da Celine Song. Ma Past Lives è anche un film di grande potenza empatica, in grado di far saltare qualsiasi archetipo narrativo legato alla dicotomia tra bene e male per raccontare, invece, il tentativo di comprendersi tra esseri umani nonostante le evidenti barriere linguistiche, culturali ed emotive. In questo senso, nel film ritorna più volte il concetto di inyeon (ripreso dal buddismo), secondo cui tutto è collegato e qualsiasi incontro della nostra vita ha un corrispettivo antecedente all’interno delle nostre vite passate ma anche una potenziale proiezione nel futuro.
4. THE HOLDOVERS – LEZIONI DI VITA (Alexander Payne)
Dolceamaro film natalizio, carico di nostalgia ma anche di un certo sarcasmo, The Holdovers segna il ritorno dietro la macchina da presa di Alexander Payne a sei anni di distanza dal debolissimo Downsizing, probabilmente la prova più trascurabile della sua bella carriera. Mescolando dramma e commedia – come in A proposito di Schmidt (2002) e Paradiso amaro (2011) – il regista americano firma una pellicola semplice soltanto in apparenza, visto il soggetto che può richiamare molti altri lungometraggi del passato: un professore e uno studente, entrambi soli e inizialmente avversi l’uno all’altro, finiranno per imparare molto stando insieme, scambiandosi i ruoli e tornando ad avere fiducia e speranza nella vita. Se la base può così apparire banalotta, l’esito è molto diverso e bastano alcuni dialoghi (battibecchi compresi!) o momenti di silenzio (la capocuoca che lascia i vestitini di suo figlio neonato alla sorella incinta) per dimostrare la profondità di una pellicola incisiva e di fortissima presa emotiva. Personaggi scritti benissimo e una messinscena che gioca molto sui continui cambi di posizione degli stessi (a volte molto vicini, altre volte particolarmente distanti rispetto alla macchina da presa) rendono The Holdovers una pellicola perfetta per riflettere, in maniera tanto spontanea quanto sincera, sull’esistenza e sul rapporto tra le generazioni. Si ride e ci si commuove con questo film che ha, tra i suoi tanti punti di forza, anche l’ottima prova di un Paul Giamatti in stato di grazia, ma tutto il cast è in formissima. Quella composta dal professore Paul, dallo studente Angus e dalla capocuoca Mary è una delle “famiglie” più anomale, credibili, sentite e magnifiche che siano mai apparse sul grande schermo in una sequenza relativa al classico cenone di Natale. Presentato in anteprima al Festival di Toronto, The Holdovers ha poi ottenuto moltissime nomination nei premi più importanti della stagione.
3. KILLERS OF THE FLOWER MOON (Martin Scorsese)
Un film di Martin Scorsese. Basterebbero queste parole per descrivere Killers of the Flower Moon, pellicola in cui ritroviamo tutte le principali tematiche e ossessioni dello straordinario regista americano: dall’alienazione post bellica di Taxi Driver al racconto simbolico della nascita degli Stati Uniti come in Gangs of New York, passando per una cinefilia che parte dal grande cinema muto (da Griffith ai western dell’epoca) per arrivare a Il gigante di George Stevens. A tutto questo, però, si aggiunge un purissimo piacere per lo storytelling che Scorsese non aveva mai sperimentato così tanto in precedenza. Alla base c’è l’omonimo libro-inchiesta del 2017, scritto dal giornalista americano David Grann, che Scorsese e lo sceneggiatore Eric Roth hanno adattato per il grande schermo in maniera mirabile, regalando una vera e propria goduria relativa all’arte del raccontare: si mescolano stili e generi – dal western al gangster, passando per il cinema processuale – in questa potentissima sarabanda di registri e di emozioni. Tra le tante sequenze che richiamano le tradizioni dei nativi americani, c’è spazio per momenti profondamente spirituali e commoventi, a partire dall'addio di un personaggio in cui Scorsese crea uno straordinario montaggio alternato, tra ciò che vede la donna che sta morendo attraverso il suo cuore e il suo spirito e ciò che la mera realtà ci offre davanti agli occhi. All’interno di una pellicola che scava in maniera feroce negli abissi più reconditi dell’animo umano, c’è però spazio per passaggi di purissima commedia: tra i memorabili duetti tra De Niro e DiCaprio ci sono anche momenti di grande leggerezza, in cui si percepisce il divertimento che attori e regista hanno voluto regalare e regalarsi. In questa mescolanza di tantissimi spunti estetici e stilistici, c’è inoltre il disegno generale di una produzione che vuole anche raccontare un’importante cartolina storica su una terribile vicenda americana che non va dimenticata. La leggerezza di cui sopra è anche, miracolosamente, quella percepita di fronte alle circa tre ore e trenta minuti di durata: Killers of the Flower Moon vola via in un attimo, come un soffio lieve, grazie a un montaggio ben assestato e a un’ottima colonna sonora, oltre a una attenzione ai movimenti della macchina da presa che certo non stupisce di fronte alla maestria di un autore di tale calibro. In questo lungometraggio dal sapore epico, ancora uno spazio lo meritano i già citati protagonisti, i due “attori preferiti” del regista che qui si trovano per la prima volta faccia a faccia in un film di Scorsese (è la sesta collaborazione tra l’autore americano e DiCaprio; la decima con De Niro): fin dal loro iniziale incontro, si percepisce la grandezza di una prova d’attori che verterà su una serie di passaggi fondamentali nella loro relazione, tra le più intense e stratificate di tutto il cinema di un regista che si è messo davvero il cuore in mano con questo lavoro dove si percepisce tutta la sua passione. Il risultato è un film che, nonostante conosciamo bene le tematiche e le modalità tecniche tipiche del suo autore, riesce a stupire per tutta la sua durata, inquietandoci e divertendoci dalla prima all’ultima sequenza. Un grande film. Un film di Martin Scorsese.
2. OPPENHEIMER (Christopher Nolan)
È una questione di scelta, una questione morale, quella che mette in scena Oppenheimer, dodicesimo lungometraggio di Christopher Nolan e primo film biografico della sua carriera. Uccidere migliaia di persone per salvarne di più? Usare una bomba, l’arma bellica per eccellenza, per raggiungere la pace? I dilemmi del personaggio principale sono gli stessi di uno spettatore che viene lanciato all’interno della mente di Oppenheimer, che sente i suoi tormenti e le sue eccitazioni, non riuscendo mai a fermarli, come in un’infinita reazione a catena. Visiva, sonora, atomica che sia. Non è così importante leggere la musica (capirla) ma sentirla (come un flusso costante e ininterrotto), parafrasando una delle frasi più significative di una calibratissima sceneggiatura (ispirata alla biografia Robert Oppenheimer, il padre della bomba atomica. Il trionfo e la tragedia di uno scienziato di Kai Bird e Martin J. Sherwin) che raggiunge la vetta nella serratissima parte finale. Non a caso la musica di Ludwig Göransson è martellante e copre quasi interamente la durata (circa 180 minuti) di una pellicola che ha un "tappeto sonoro" di una potenza semplicemente devastante, tesa ancora una volta a rappresentare lo stato mentale di un personaggio geniale e inquietante, talmente ambiguo da essere anche lui parte di quei dubbi morali di cui sopra. Siamo effettivamente dentro di lui, ma cosa prova davvero e quanto il senso di colpa può effettivamente limitare ciò che ha compiuto? Attraverso un costante gioco stilistico, che alterna colore e bianco e nero, immagini mentali soggettive e situazioni oggettive, il tempo prima dello scoppio della bomba atomica e quello successivo, Nolan costruisce l’ennesima narrazione complessa e stratificata della sua carriera, riuscendo a dare ai dialoghi una forza drammaturgica forse mai raggiunta prima nel suo cinema. La tensione si rivela quasi insopportabile in diversi, memorabili passaggi in cui emerge una capacità di gestione del montaggio davvero straordinaria. Viene quasi da chiudere gli occhi, di fronte a certi momenti in tutti i sensi accecanti, all’interno di una pellicola che gioca anche sullo sguardo e su cambi di prospettiva in cui lo spettatore ha sempre un ruolo attivo. Boati ed esplosioni, però, non potranno mai essere disturbanti quanto delle sottili parole, pronunciate lievemente, magari in riva a un lago, mentre nessun altro può sentire. Eccellente prova di Cillian Murphy, ma tutto il cast fa un lavoro egregio: si dovrebbero citare davvero tutti, anche per merito di un grande regista che è anche un grande direttore d’attori, ma una menzione speciale va a un magistrale Robert Downey Jr. nei panni di Lewis Strauss e a una Florence Pugh intensa più che mai.
1. LA ZONA D'INTERESSE (Jonathan Glazer)
A dieci anni esatti dal discusso Under the Skin (2013), interpretato da Scarlett Johansson e presentato non senza polemiche in concorso a Venezia, Jonathan Glazer torna con un nuovo progetto fortemente divisivo. Ispirato all'omonimo romanzo (2014) di Martin Amis, che viene fortemente ridotto all’osso, il film è una straordinaria riflessione sulle potenzialità del linguaggio cinematografico contemporaneo, elevandosi a esperienza di visione di rara potenza espressiva e imponendosi in tutta la sua audacia su un delicatissimo tema, raramente affrontato in maniera così radicale. Tutto il film, girato in un digitale ad altissima definizione che cristallizza le immagini in glaciali quadri illuminati dalla sola luce naturale, sconvolge nella sua profonda ricerca sul sonoro e sulla negazione dell'immagine, evidente fin dal prologo, che trova impressionante compimento in soluzioni sperimentali da brivido. A una "normalità" sempre sull'orlo dell'implosione emotiva, in cui i protagonisti sembrano anestetizzati e ridotti a uomini privi di una reale percezione della realtà, si contrappone la mostruosità del campo di stermino, ma Glazer, spingendo al limite il valore performativo della messa in scena, non lascia mai che l'evidenza delle atrocità prenda il sopravvento: bastano il rumore di un treno (che noi sappiamo essere stipato di deportati al macello), una flebile colonna di fumo dalla ciminiera dei forni crematori o le alte mura di cinta con alla loro sommità il filo spinato per trasmettere disagio. Anche la presenza immobile e severa della natura diventa un elemento di grande portata concettuale. Il salto temporale nel finale, orchestrato con sublime padronanza del mezzo cinematografico, è da togliere il fiato. Straordinario per regia e direzione della fotografia (di Łukasz Żal), il film è stato girato ad Auschwitz nella seconda metà del 2021, mentre la residenza degli Höss è stata ricostruita dallo scenografo Chris Oddy, con gli attori liberi di muoversi all'interno della scena mentre venivano ripresi da più di dieci angolazioni contemporaneamente. Fondamentale il contributo della compositrice britannica Mica Levi. Presentato in concorso al Festival di Cannes dove ha vinto un meritatissimo Grand Prix.