lunedì 3 marzo 2025
alle 15:20
Play it again, Sean. Quando le ultime indiscrezioni sembravano portare le stauette più pesanti verso scenari folk o, ancora più a sorpresa, verso gli intrighi esistenzial-religiosi di un collegio cardinalizio in un Vaticano mai così politicizzato, ecco squarciarsi il velo di Maya sul compassato establishment dell'Academy Awards ed esplodere in tutta la sua febbrile vitalità l'estro creativo di Sean Baker. È lui il vincitore assoluto di questa 97ª edizione degli Oscar, il wonder boy del New Jersey, classe 1971, che dopo essersi portato a casa la Palma d'oro al Festival di Cannes, ha sbancato anche oltreoceano.
Baker fa centro sotto ogni punto di vista, e a livello di consenso trova un magico punto di contatto che, forse, non si riscontrava dai tempi di Parasite (2019). La folgorante bellezza del gesto filmico torna a essere protagonista e Anora viene osannato in maniera trasversale dalla critica internazionale e dal pubblico giovane (ma anche giovanile) e colto, ormai stufo dei prodotti standardizzati delle piattaforme, desideroso di riscoprire nuovamente, nel buio della sala, la magia del grande cinema, in una delicata fase di transizione in cui le esangui offerte dei cataloghi dei colossi dello streaming non sembrano più trovare consensi nemmeno tra il pubblico generalista, spesso in cerca solo di prodotti "di facile consumo": la qualità, grazie a dio, sembra avere ancora il suo peso. Sean Baker vince, meritatamente, e fa la storia di premi Oscar, aggiudicandosi ben quattro premi personali all'interno della stessa edizione (Miglior film, Miglior regia, Miglior sceneggiatura originale e Miglior montaggio), traguardo record raggiunto solo da Walt Disney nel 1954 (premiato però per quattro opere distinte e non per un unico film).
E poi c'è lei, la magnifica Mikey Madison, astro nascente di cui sentiremo parlare a lungo. Californiana, classe 1999, Madisdon racchiude tutta la forza espressiva, la determninazione e lo spirito non-convenzionale di un film ribelle eppure estremamente maturo, istintivo ma controllatissimo, che modula i generi e gli stati d'animo dei personaggi senza mai andare "oltre". Lei è Anora, lei è letteralmente il film. In una categoria, quella della Migliore attrice protagonista, fino qualche mese fa blindata, alla fiine ha trionfato, come era giusto che fosse fin dall'inizio.
Nonostante il traino di uno scatenato Timothée Chalamet, che pochi giorni fa ha infiammato (e diviso) l'opinione pubblica con il suo personalissimo acceptance speech dopo aver ritirato lo Screen Actors Guild Award come miglior attore cinematografico, A Complete Unknown floppa e se ne torna a casa con un bilancio di zero premi su otto candidature, come accadde ad esempio a The Elephant Man del compianto maestro David Lynch nel 1981. Un verdetto alquanto ingeneroso, quasi punitivo per certi versi, dal momento che James Mangold, pur non avendo il talento cristallino di Pablo Larraín, maestro del biopic contemporaneo, né la personalità di Todd Haynes (sempre a proposito di Bob Dylan...) o di Ken Russell, colui che ha rivoluzionato con spirito visionario e fiammeggiante le biografie musicali negli anni '70, ha dimostrato, ancora una volta, di sapersi muoversi con disinvoltura entro i binari di un raffinato classicismo d'altri tempi, proprio come aveva già dimostrato in passato con buonissimi film come L'amore brucia l'anima (2005), Quel treno per Yuma (2007) o Le Mans '66 (2019).
Se il monumentale kolossal in VistaVision 70mm The Brutalist si è aggiudicato gli unici tre premi a cui realisticamente potesse ambire, ovvero Miglior attore protagonista (Adrien Brody), Miglior fotografia e Miglior colonna sonora (ma possiamo immaginare l'ira funesta di Brady Corbet per il mancato riconoscimentoi alla regia), lo scettro della più cocente batosta della serata va senza dubbio a Emilia Pérez di Jacques Audiard, che si porta a casa due striminzite statuette, Miglior attrice non protagonista (Zoe Saldaña) e Miglior canzone originale (El mal) su ben tredici nomination. Un esito ampiamente previsto, a seguito del tanto chiacchierato "affaire Gascón", che ha tenuto banco a livello mediatico generando conseguenze davvero preoccupanti. Un grande, grandissimo film, finito in un baratro senza via d'uscita.
E allora, cosa resterà di questi Oscar 2025? Rimarranno impressi l'omaggio alla saga James Bond, Ariana Grande che rende un commovente tributo a Los Angeles, devastata dagli incendi, interpretando l'intramontabile Somewhere over the Rainbow, Isabella Rossellini nel suo magnifico abito di velluto blu (chapeau), l'incredibile assenza di Alain Delon nel video-tributo "In Memoriam" (sigh!), ma soprattutto rimarrà indelebile il ricordo del trionfo assoluto, incontestabile e per svariati motivi inaspettato di un film che segna profondamente la contemporaneità, sotto gli occhi di un'America dilaniata in questo preciso momento storico da sciagurati e preoccupanti scenari geopolitici. Vince un film che deforma l'american dream, ormai sempre più simile a un incubo a occhi aperti, ribaltando dall'interno il cliché della favola a lieto fine e mettendo in luce i risvolti più amari di una cultura massificata e priva di valori autentici. Hollywood osanna il film indie antihollywoodiano più anarchico e vitale dell'anno, in un gesto liberatorio reso forse possibile solo dall'uscita di scena Emilia Pérez, altro magnifico film ultra moderno destinato, fino a qualche mese fa, a sbaragliare la concorrenza. Sembra davvero lontana anni luce l'epoca del conservatorismo esasperato anni '90, quando un modesto film in costume come Shakespeare in Love poteva aggiudicarsi sette statuette. Certo, in tempi molto più recenti sono arrivati anche investiture ben peggiori (ce lo ricordiamo tutti il trionfo di Coda – In segni del cuore nel 2022, vero?), ma poco importa, the show must go on: in questa edizione, gli Oscar hanno spazzato via la puzza di naftalina dai premi e, soprattutto, come nelle annate migliori, si sono posti come manfestazione in grado di diventare specchio della contemporaneità, delle tendenze più autentiche dell'industria cinematografica dei giorni nostri. W gli Oscar, W Anora!

Baker fa centro sotto ogni punto di vista, e a livello di consenso trova un magico punto di contatto che, forse, non si riscontrava dai tempi di Parasite (2019). La folgorante bellezza del gesto filmico torna a essere protagonista e Anora viene osannato in maniera trasversale dalla critica internazionale e dal pubblico giovane (ma anche giovanile) e colto, ormai stufo dei prodotti standardizzati delle piattaforme, desideroso di riscoprire nuovamente, nel buio della sala, la magia del grande cinema, in una delicata fase di transizione in cui le esangui offerte dei cataloghi dei colossi dello streaming non sembrano più trovare consensi nemmeno tra il pubblico generalista, spesso in cerca solo di prodotti "di facile consumo": la qualità, grazie a dio, sembra avere ancora il suo peso. Sean Baker vince, meritatamente, e fa la storia di premi Oscar, aggiudicandosi ben quattro premi personali all'interno della stessa edizione (Miglior film, Miglior regia, Miglior sceneggiatura originale e Miglior montaggio), traguardo record raggiunto solo da Walt Disney nel 1954 (premiato però per quattro opere distinte e non per un unico film).
E poi c'è lei, la magnifica Mikey Madison, astro nascente di cui sentiremo parlare a lungo. Californiana, classe 1999, Madisdon racchiude tutta la forza espressiva, la determninazione e lo spirito non-convenzionale di un film ribelle eppure estremamente maturo, istintivo ma controllatissimo, che modula i generi e gli stati d'animo dei personaggi senza mai andare "oltre". Lei è Anora, lei è letteralmente il film. In una categoria, quella della Migliore attrice protagonista, fino qualche mese fa blindata, alla fiine ha trionfato, come era giusto che fosse fin dall'inizio.

Nonostante il traino di uno scatenato Timothée Chalamet, che pochi giorni fa ha infiammato (e diviso) l'opinione pubblica con il suo personalissimo acceptance speech dopo aver ritirato lo Screen Actors Guild Award come miglior attore cinematografico, A Complete Unknown floppa e se ne torna a casa con un bilancio di zero premi su otto candidature, come accadde ad esempio a The Elephant Man del compianto maestro David Lynch nel 1981. Un verdetto alquanto ingeneroso, quasi punitivo per certi versi, dal momento che James Mangold, pur non avendo il talento cristallino di Pablo Larraín, maestro del biopic contemporaneo, né la personalità di Todd Haynes (sempre a proposito di Bob Dylan...) o di Ken Russell, colui che ha rivoluzionato con spirito visionario e fiammeggiante le biografie musicali negli anni '70, ha dimostrato, ancora una volta, di sapersi muoversi con disinvoltura entro i binari di un raffinato classicismo d'altri tempi, proprio come aveva già dimostrato in passato con buonissimi film come L'amore brucia l'anima (2005), Quel treno per Yuma (2007) o Le Mans '66 (2019).
Se il monumentale kolossal in VistaVision 70mm The Brutalist si è aggiudicato gli unici tre premi a cui realisticamente potesse ambire, ovvero Miglior attore protagonista (Adrien Brody), Miglior fotografia e Miglior colonna sonora (ma possiamo immaginare l'ira funesta di Brady Corbet per il mancato riconoscimentoi alla regia), lo scettro della più cocente batosta della serata va senza dubbio a Emilia Pérez di Jacques Audiard, che si porta a casa due striminzite statuette, Miglior attrice non protagonista (Zoe Saldaña) e Miglior canzone originale (El mal) su ben tredici nomination. Un esito ampiamente previsto, a seguito del tanto chiacchierato "affaire Gascón", che ha tenuto banco a livello mediatico generando conseguenze davvero preoccupanti. Un grande, grandissimo film, finito in un baratro senza via d'uscita.

E allora, cosa resterà di questi Oscar 2025? Rimarranno impressi l'omaggio alla saga James Bond, Ariana Grande che rende un commovente tributo a Los Angeles, devastata dagli incendi, interpretando l'intramontabile Somewhere over the Rainbow, Isabella Rossellini nel suo magnifico abito di velluto blu (chapeau), l'incredibile assenza di Alain Delon nel video-tributo "In Memoriam" (sigh!), ma soprattutto rimarrà indelebile il ricordo del trionfo assoluto, incontestabile e per svariati motivi inaspettato di un film che segna profondamente la contemporaneità, sotto gli occhi di un'America dilaniata in questo preciso momento storico da sciagurati e preoccupanti scenari geopolitici. Vince un film che deforma l'american dream, ormai sempre più simile a un incubo a occhi aperti, ribaltando dall'interno il cliché della favola a lieto fine e mettendo in luce i risvolti più amari di una cultura massificata e priva di valori autentici. Hollywood osanna il film indie antihollywoodiano più anarchico e vitale dell'anno, in un gesto liberatorio reso forse possibile solo dall'uscita di scena Emilia Pérez, altro magnifico film ultra moderno destinato, fino a qualche mese fa, a sbaragliare la concorrenza. Sembra davvero lontana anni luce l'epoca del conservatorismo esasperato anni '90, quando un modesto film in costume come Shakespeare in Love poteva aggiudicarsi sette statuette. Certo, in tempi molto più recenti sono arrivati anche investiture ben peggiori (ce lo ricordiamo tutti il trionfo di Coda – In segni del cuore nel 2022, vero?), ma poco importa, the show must go on: in questa edizione, gli Oscar hanno spazzato via la puzza di naftalina dai premi e, soprattutto, come nelle annate migliori, si sono posti come manfestazione in grado di diventare specchio della contemporaneità, delle tendenze più autentiche dell'industria cinematografica dei giorni nostri. W gli Oscar, W Anora!