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Rita Hayworth, atomica e fragile diva di Hollywood

- Gilda, are you decent?
- Me..? Sure. I'm decent.


Margarita Carmen Cansino alias Rita Hayworth, una delle donne più seducenti mai apparse sul grande schermo, una delle più fragili. Bella, troppo bella, forse: una bellezza che oscurò il suo talento di interprete (spesso drammaticamente sottovalutato) e arrivò a renderle amara anche una vita privata dominata in ogni aspetto dalle prevaricazioni di uomini feroci e dittatoriali. Nata a Brooklyn il 17 ottobre del 1918, figlia di due ballerini, fu presto iniziata agli oneri del palcoscenico dal padre che la voleva con sé durante le sue tournée di flamenco. Notata da un talent-scout della 20th Century Fox, la giovanissima Margarita fu reclutata e sottoposta a dolorosi trattamenti estetici mirati a smussare il suo fascino "troppo latino" che la trasformarono nella bomba sexy e rosseggiante divenuta poi icona.







Talmente sensuale da essere soprannominata l'Atomica
(la sua immagine fu incollata sulla bomba atomica sperimentale lanciata sull'atollo di Bikini): ormai lanciatissima nel panorama cinematografico, Hayworth affiancò i maggiori divi dell'epoca in film di diverso genere, da James Cagney nella commedia Bionda fragola (1941), a Tyrone Power nel dramma sentimentale Sangue e arena (1941), cimentandosi anche nel musical, come in Non sei mai stata così bella (1942), accanto a Fred Astaire, e in Fascino (1944), al fianco di Gene Kelly. 





Ma la consacrazione vera, quella che sarà al tempo benedizione e condanna, arriva nel 1946 con il ruolo dell'esplosiva Gilda nell'omonimo film diretto da Charles Vidor: l'opera che ha contribuito a stigmatizzare la figura di Hayworth, consacrandola come sex-symbol a livello mondiale. Una cristallizzazione equivalente a uno stigma per l'attrice, intrappolata in un personaggio talmente iconico da divenire il principale polo d'attrazione di un film che si identifica con il genere noir, rileggendone al tempo le caratteristiche principali: il mistero che scatena le reazioni dei personaggi (in verità, abbastanza insulso), il triangolo amoroso (assai sfumato e sottilmente ambiguo), la figura della femme fatale (costantemente frustrata nelle sue aspettative, ferita e plasmata idealmente da ogni essere di sesso maschile che tenti di entrare nelle sue grazie). La struttura narrativa è a dir poco incerta, ma le derive sadomasochistiche che permeano il film («Ti odio a tal punto che distruggerei me stessa per trascinarti con me») e alcune sequenze entrate nell'immaginario collettivo (la prima, sconvolgente, apparizione della Hayworth, “più presentabile del necessario”; una sensualissima Gilda che si esibisce sulle note di Put the Blame on Mame, per poi essere violentemente schiaffeggiata da Johnny) conferiscono al film un fascino malsano a cui è impossibile sottrarsi.





«Gli uomini vanno a letto con Gilda e si risvegliano con me»: celeberrima frase (citata anche da Julia Roberts/Anna Scott in Notting Hill) con cui Hayworth definisce la propria vita dopo l'interpretazione che la rese una diva. Assediata e oppressa dallo star system e da produttori tiranni (il boss della Columbia Harry Cohn era follemente geloso di lei, tanto da far collocare dei microfoni nascosti nel suo camerino durante le riprese di Gilda, nel timore che tra lei e Glenn Ford potesse nascere una relazione), Hayworth collabora con il marito Orson Welles (i due erano in crisi e poco dopo si separarono) per La signora di Shangai, noir girato a basso budget in cui il regista impone alla compagna di tagliarsi i capelli e farseli biondi: uno scandalo per tutti coloro che avevano apprezzato l'ormai mitica folta chioma fulva. Ma la scelta di Welles è coerente all'interno di un prodotto che sovverte le regole e le attese del cinema di genere dando vita a uno stile radicale, inconsueto e barocco. E mostrando al mondo il talento della sua interprete.





Seguono il divorzio da Welles, la sospensione dalla Columbia (causa rifiuto di un ruolo e conseguenti rappresaglie dell'inacidito Cohn, le cui motivazioni personali superavano di gran lunga quelle professionali) e il matrimonio con il principe ismailita Aly Khan, erede dell'Aga Khan III, per il quale Hayworth abbandona Hollywood. Un altro fallimento è però in agguato: la relazione non dura e l'attrice è costretta a tornare alla porta di Cohn, che si vendica in modo miserabile e bieco tagliandola sostanzialmente fuori dai grandi ruoli.





Altri rapporti falliti, una prematura decadenza fisica dovuta all'abuso di alcolici e l'insorgere precoce della malattia di Alzheimer: Hayworth si spegne il 14 maggio 1987, in composto e ritirato silenzio, accudita dalla figlia Yasmin. Un destino crudele per un'artista che ha segnato l'immaginario collettivo in modo indelebile, mille volte citata e omaggiata, mai eguagliata, il cui ricordo vivrà per sempre.
Non una donna, prego. LA donna.



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