Nato Roy Harold Scherer Jr., il 17 novembre 1925, Rock Hudson si arruola in Marina durante la Seconda guerra mondiale e, una volta terminato il conflitto, inizia a lavorare come camionista. L’incontro decisivo che cambia completamente la sua vita è con Henry Willson, un agente che lo nota e gli fa ottenere un provino a Hollywood, oltre a donargli il nome d’arte che lo accompagnerà per tutta la sua carriera. Una star d'altri tempi, malinconica e tormentata, che si è prematuramente spenta a soli 59 anni a causa dell’AIDS, costretta per quasi tutta la vita a sopportare il peso dello status di sex symbol sciupafemmine imposto al grande pubblico dalle major.
Il volto pulito e rassicurante dell'America degli anni '50 e '60. Il ricco ma tormentato proprietario terriero che porta sulle proprie spalle il peso dell'eredità famigliare. Il ragazzo della porta accanto, pronto a sedurre con garbo la vicina di casa con cui condivide un duplex. La preda preferita della donna, macho e sicuro di sé solo in apparenza. Questi, in buona sostanza, i punti fermi della carriera di Rock Hudson, le molteplici sfaccettature di un magnifico (ma troppo spesso dimenticato) attore della Hollywood del tempo che fu, capace di passare con disinvoltura dalle grandi epopee a stelle e strisce dal sapore western alla screwball comedy più raffinata, passando per le lievi e vaporose pene d'amore a lieto fine della commedia rosa. Ma, a rimanere scolpito nella memoria, è il groviglio di passione e inquietudine che ha saputo resituire sullo schermo nelle opere più clamorose di Douglas Sirk, indiscusso maestro del melodramma in Technicolor degli anni '50.
Un autore, Sirk, per cui è sempre stata solo una questione di stile. Il suo tocco raffinato, riconoscibile nella composizione dell'inquadratura, nella direzione degli attori e nella tensione emotiva al di là della verosimiglianza della storia, ha trovato nell'attitudine recitativa e nella fisicità di Hudson un elemento di rilievo assoluto. Mélo al femminile, incentrati su fiammeggianti conflitti, dove la centralità della donna si riflette anche nelle insicurezze dei personaggi maschili, in un universo fittizio dove un vaso di fiori o uno specchio possono racchiudere il significato di tutta una pellicola. Douglas Sirk non si è mai fidato del linguaggio come mezzo veritiero, come interprete della realtà, ha imparato ad affidarsi ai suoi occhi, piuttosto che al vento delle parole. Ed è proprio in questo aspetto che risiede tutta la sua grandezza. Sbertucciato all'epoca e ingenerosamente etichettato come un regista per casalinghe insoddisfatte, Sirk, esattamente a metà degli anni '50, ha in realtà scritto la storia del melodramma, con due film di straordinaria bellezza capaci di influire come pochissimi altri sull'orientamento cinematografico di un intero decennio. Protagonista maschile, in entrambi i casi, Rock Hudson.
Secondo amore (1955)
Vedova benestante e madre irreprensibile, la morigerata Cary (Jane Wyman) si innamora del bel giardiniere Ron (Rock Hudson) di dieci anni più giovane di lei, assunto dal marito della donna quando ancora era in vita. Non sarà facile per Cary superare le vili e spregevoli civetterie del vicinato e l'ottusa opposizione dei figli Kay (Gloria Talbott) e Ted (William Reynolds) alla passionale relazione. Esemplare quadro delle pulsioni represse e della radicata ipocrisia che si cela dietro al perbenismo di facciata della upper-class americana, vittima di pregiudizi e retaggi culturali antiquati, tenuti in vita al solo scopo di conservare uno status di (presunta) rispettabilità all'insegna di una effimera omologazione. Una società chiusa nella propria torre d'avorio squarciata da una delle storie d'amore più iconiche di sempre, cuore pulsante di un melodramma stratificato e ricco di preziose sfaccettature, messo in scena da Sirk con un raffinato distacco che esclude ogni eccesso di gratuito sentimentalismo. La scrittura lineare sottende una profonda valenza metaforica e ogni personaggio incarna uno specifico aspetto che impreziosisce la narrazione (l'inamidato corteggiatore interpretato da Conrad Nagel, la pettegola Sara a cui presta il volto Agnes Moorehead). Gli interni impeccabilmente arredati, simbolo di rigide consuetudini, e i salotti borghesi simili a ostili prigioni del sentimento si contrappongono alla bellezza incontaminata della natura (gli alberi, gli animali) e al senso di protezione suggerito dal vecchio mulino pronto a diventare primigenia alcova d'amore. La paura diventa speranza di un avvenire felice in un finale conciliatorio che sfiora la poesia. Magnifica Jane Wyman, pudica e malinconica, che dà vita a uno dei più bei ritratti femminili di tutto il cinema classico delle major hollywoodiane, ma non è da sottovalutare nemmeno Rock Hudson, perfetto come romantico spirito libero al di sopra delle convenzioni. Straordinario Technicolor di Russell Metty, che rappresenta una vetta nell'uso espressivo del colore al cinema. Preso a modello da Todd Haynes per Lontano dal paradiso (2002) e rifatto da Fassbinder, grande ammiratore di Sirk, con La paura mangia l'anima (1974).
Come le foglie al vento (1956)
Amici d'infanzia, il modesto Mitch (Rock Hudson) e l'alcolizzato Kyle (Robert Stack) lavorano entrambi per conto del padre di quest'ultimo, il magnate del petrolio Hadley (Robert Keith). Il loro affettuoso rapporto si frantuma a causa di Lucy (Lauren Bacall) la quale, amata da entrambi, sposa Kyle finendo per subire le conseguenze di un matrimonio fallimentare. I delicati equilibri esplodono quando la coppia si convince di non poter avere figli e Mitch è costretto a subire le provocanti avances della giovane e viziata Marylee (Dorothy Malone), sorella di Kyle. Scritto da George Zuckerman sulla base dell'omonimo romanzo di Robert Wilder, un fiammeggiante racconto sulla sconfitta e il fallimento dell'America nel disperato tentativo di preservare la purezza dell'istituzione famigliare attraverso il sangue del proprio sangue, in cui la perdita dell'innocenza si intreccia alla virilità ferita, al senso di colpa e al peso di una ricchezza che comporta schiaccianti responsabilità. Melodramma definitivo, è uno dei vertici del cinema passionale degli anni '50 nonché un compendio della poetica di Sirk. Un soffocante ritratto di pulsioni represse, angoscia, gelosie, morbosa ossessione, tensioni (omo)sessuali e tragica opulenza destinata a specchiarsi nell'ombra lunga della morte. La dissoluzione morale genera violenza e un irreversibile processo di autodistruzione ma, in fondo, è impossibile non provare compassione per chi si trova compresso in simili dissidi interiori. Cinema puro, in cui la finzione diventa manipolazione artificiosa così spinta da portare il mélo allo stato dell'arte. Basterebbe l'intuizione di contrapporre l'oppressiva presenza dei possedimenti Hadley al desiderio di rifugiarsi nel passato (la cameretta, il picnic sul fiume, ma anche il bar malfamato) per fare di Come le foglie al vento un grande film. La regia avvolge i protagonisti assetati d'affetto e ne esalta la ribollente carica emotiva, ma mantiene un raffinato distacco dalla vicenda. Splendido nella costruzione narrativa circolare (con l'incipit che inquadra già ogni singolo carattere), nella direzione degli attori e nella ricostruzione degli interni. Fondamentale il contributo del Technicolor di Russell Metty. Oscar alla migliore attrice non protagonista (una memorabile Dorothy Malone).
Davide Dubinelli
Il volto pulito e rassicurante dell'America degli anni '50 e '60. Il ricco ma tormentato proprietario terriero che porta sulle proprie spalle il peso dell'eredità famigliare. Il ragazzo della porta accanto, pronto a sedurre con garbo la vicina di casa con cui condivide un duplex. La preda preferita della donna, macho e sicuro di sé solo in apparenza. Questi, in buona sostanza, i punti fermi della carriera di Rock Hudson, le molteplici sfaccettature di un magnifico (ma troppo spesso dimenticato) attore della Hollywood del tempo che fu, capace di passare con disinvoltura dalle grandi epopee a stelle e strisce dal sapore western alla screwball comedy più raffinata, passando per le lievi e vaporose pene d'amore a lieto fine della commedia rosa. Ma, a rimanere scolpito nella memoria, è il groviglio di passione e inquietudine che ha saputo resituire sullo schermo nelle opere più clamorose di Douglas Sirk, indiscusso maestro del melodramma in Technicolor degli anni '50.
«Ho cercato di scrivere su sei film di Douglas Sirk scoprendo così la difficoltà di scrivere su delle opere che parlano della vita e non sono letteratura. Ho tralasciato molte cose che forse sarebbero state più importanti. Non ho parlato abbastanza delle luci, l'unico che può stargli alla pari in questo campo è Josef von Sternberg. E ho parlato troppo poco degli interni che Sirk stesso realizzava e della loro incredibile accuratezza. E poi ho visto troppi pochi suoi film, vorrei averli visti tutti, tutti e trentanove. Forse allora avrei capito di più su me stesso, sulla mia vita, sui miei amici. Ho visto solo sei film di Douglas Sirk, erano i film piu belli del mondo». (Rainer Werner Fassbinder, 1971)
Un autore, Sirk, per cui è sempre stata solo una questione di stile. Il suo tocco raffinato, riconoscibile nella composizione dell'inquadratura, nella direzione degli attori e nella tensione emotiva al di là della verosimiglianza della storia, ha trovato nell'attitudine recitativa e nella fisicità di Hudson un elemento di rilievo assoluto. Mélo al femminile, incentrati su fiammeggianti conflitti, dove la centralità della donna si riflette anche nelle insicurezze dei personaggi maschili, in un universo fittizio dove un vaso di fiori o uno specchio possono racchiudere il significato di tutta una pellicola. Douglas Sirk non si è mai fidato del linguaggio come mezzo veritiero, come interprete della realtà, ha imparato ad affidarsi ai suoi occhi, piuttosto che al vento delle parole. Ed è proprio in questo aspetto che risiede tutta la sua grandezza. Sbertucciato all'epoca e ingenerosamente etichettato come un regista per casalinghe insoddisfatte, Sirk, esattamente a metà degli anni '50, ha in realtà scritto la storia del melodramma, con due film di straordinaria bellezza capaci di influire come pochissimi altri sull'orientamento cinematografico di un intero decennio. Protagonista maschile, in entrambi i casi, Rock Hudson.
Secondo amore (1955)
Vedova benestante e madre irreprensibile, la morigerata Cary (Jane Wyman) si innamora del bel giardiniere Ron (Rock Hudson) di dieci anni più giovane di lei, assunto dal marito della donna quando ancora era in vita. Non sarà facile per Cary superare le vili e spregevoli civetterie del vicinato e l'ottusa opposizione dei figli Kay (Gloria Talbott) e Ted (William Reynolds) alla passionale relazione. Esemplare quadro delle pulsioni represse e della radicata ipocrisia che si cela dietro al perbenismo di facciata della upper-class americana, vittima di pregiudizi e retaggi culturali antiquati, tenuti in vita al solo scopo di conservare uno status di (presunta) rispettabilità all'insegna di una effimera omologazione. Una società chiusa nella propria torre d'avorio squarciata da una delle storie d'amore più iconiche di sempre, cuore pulsante di un melodramma stratificato e ricco di preziose sfaccettature, messo in scena da Sirk con un raffinato distacco che esclude ogni eccesso di gratuito sentimentalismo. La scrittura lineare sottende una profonda valenza metaforica e ogni personaggio incarna uno specifico aspetto che impreziosisce la narrazione (l'inamidato corteggiatore interpretato da Conrad Nagel, la pettegola Sara a cui presta il volto Agnes Moorehead). Gli interni impeccabilmente arredati, simbolo di rigide consuetudini, e i salotti borghesi simili a ostili prigioni del sentimento si contrappongono alla bellezza incontaminata della natura (gli alberi, gli animali) e al senso di protezione suggerito dal vecchio mulino pronto a diventare primigenia alcova d'amore. La paura diventa speranza di un avvenire felice in un finale conciliatorio che sfiora la poesia. Magnifica Jane Wyman, pudica e malinconica, che dà vita a uno dei più bei ritratti femminili di tutto il cinema classico delle major hollywoodiane, ma non è da sottovalutare nemmeno Rock Hudson, perfetto come romantico spirito libero al di sopra delle convenzioni. Straordinario Technicolor di Russell Metty, che rappresenta una vetta nell'uso espressivo del colore al cinema. Preso a modello da Todd Haynes per Lontano dal paradiso (2002) e rifatto da Fassbinder, grande ammiratore di Sirk, con La paura mangia l'anima (1974).
Come le foglie al vento (1956)
Amici d'infanzia, il modesto Mitch (Rock Hudson) e l'alcolizzato Kyle (Robert Stack) lavorano entrambi per conto del padre di quest'ultimo, il magnate del petrolio Hadley (Robert Keith). Il loro affettuoso rapporto si frantuma a causa di Lucy (Lauren Bacall) la quale, amata da entrambi, sposa Kyle finendo per subire le conseguenze di un matrimonio fallimentare. I delicati equilibri esplodono quando la coppia si convince di non poter avere figli e Mitch è costretto a subire le provocanti avances della giovane e viziata Marylee (Dorothy Malone), sorella di Kyle. Scritto da George Zuckerman sulla base dell'omonimo romanzo di Robert Wilder, un fiammeggiante racconto sulla sconfitta e il fallimento dell'America nel disperato tentativo di preservare la purezza dell'istituzione famigliare attraverso il sangue del proprio sangue, in cui la perdita dell'innocenza si intreccia alla virilità ferita, al senso di colpa e al peso di una ricchezza che comporta schiaccianti responsabilità. Melodramma definitivo, è uno dei vertici del cinema passionale degli anni '50 nonché un compendio della poetica di Sirk. Un soffocante ritratto di pulsioni represse, angoscia, gelosie, morbosa ossessione, tensioni (omo)sessuali e tragica opulenza destinata a specchiarsi nell'ombra lunga della morte. La dissoluzione morale genera violenza e un irreversibile processo di autodistruzione ma, in fondo, è impossibile non provare compassione per chi si trova compresso in simili dissidi interiori. Cinema puro, in cui la finzione diventa manipolazione artificiosa così spinta da portare il mélo allo stato dell'arte. Basterebbe l'intuizione di contrapporre l'oppressiva presenza dei possedimenti Hadley al desiderio di rifugiarsi nel passato (la cameretta, il picnic sul fiume, ma anche il bar malfamato) per fare di Come le foglie al vento un grande film. La regia avvolge i protagonisti assetati d'affetto e ne esalta la ribollente carica emotiva, ma mantiene un raffinato distacco dalla vicenda. Splendido nella costruzione narrativa circolare (con l'incipit che inquadra già ogni singolo carattere), nella direzione degli attori e nella ricostruzione degli interni. Fondamentale il contributo del Technicolor di Russell Metty. Oscar alla migliore attrice non protagonista (una memorabile Dorothy Malone).
Davide Dubinelli