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I migliori film di Roman Polanski: la nostra Top 10

«Il mio lavoro non è terapia. Tuttavia, devo ammettere che ho familiarità con molti dei meccanismi dell'apparato di persecuzione mostrati nel film, e questo mi ha chiaramente ispirato»

Regista ostico, perturbante, scomodo, la cui poetica è legata a doppio filo alle vicende personali, compresi i guai con la giustizia: Roman Polanski vive un’esistenza sofferta, tra fughe e traumi (dall'Olocausto alla tragica morte della moglie Sharon Tate per mano della setta di Charles Manson), ed è autore di un cinema ambiguo e personalissimo, segnato  da claustrofobia, pessimismo ed erotismo morboso e tensivo. In occasione del suo ottantottesimo compleanno (18 agosto 1933), ecco una top 10 dei suoi migliori film!


10) Venere in pelliccia (2013)

Ispirandosi alle pagine di Leopold von Sacher-Masoch e in piena continuità stilistica con il precedente Carnage (2011), Roman Polanski allestisce una geniale opera cinematografica che lavora sua tre piani paralleli (la rappresentazione della materia di base originale, la versione moderna del romanzo messa in scena da Thomas e Wanda nel teatro vuoto e infine il film, che ingloba le prime due), dove i due attori entrano ed escono continuamente dal doppio ruolo che interpretano e dove teatro e cinema diventano elemento unico e inscindibile. La “duplice finzione” viene contaminata (anche) con la realtà: Polanski trasforma Mathieu Amalric in se stesso (per pettinatura, atteggiamento, vestiti) e inizia così a sfidare la sua vera moglie Emmanuelle Seigner in una stuzzicante gara di seduzione, dove i ruoli si fanno sempre più sfumati: la preda diventa cacciatore e lo schiavo diventa padrone.


9) Repulsione (1965)

La seconda opera di Roman Polanski, che gli valse l'Orso d'argento a Berlino e la consacrazione internazionale, è un macabro e surreale viaggio nella mente di una protagonista in rotta di collisione con la realtà domestica e la vita metropolitana, dove il free jazz nella colonna sonora (di Chico Hamilton) fa da beffardo contrappunto a sequenze allucinanti che anticipano Rosemary ‘s Baby (1968) e L'inquilino del terzo piano (1976). La sceneggiatura, firmata dal regista con Gérard Brach, non è ancora calibrata al millimetro, ma gli incredibili sprazzi visionari (la sequenza del corridoio, con mani che emergono dal muro come a voler afferrare Carol) e l'indagine psicologica da manuale rendono Repulsion un'opera imprescindibile, testimonianza primaria della contaminazione tra quotidianità e incubo tanto cara all'autore polacco.


8) Luna di fiele (1992)

«Ogni rapporto tra uomo e donna, anche se armonioso, ha in sé il seme della farsa o della tragedia». Peccaminosa e malata “contro-storia” d'amore, Luna di fiele è il film con cui Roman Polanski affronta di petto un tema che da sempre aveva accarezzato in tutte le sue opere precedenti: la guerra psicologica su cui si basano tutti i rapporti di coppia. Venature sadomaso, crudeltà da manuale e un'atmosfera torbida che innerva funzionalmente la pellicola, tratteggiando un ritratto cupo e pessimistico della solitudine contemporanea. Il gioco di specchi, compresso nelle claustrofobiche cabine della nave o nei soffocanti interni parigini, diventa disturbante e affascinante allo stesso tempo, coinvolgendo lo spettatore in un morboso atto voyeuristico.


7) La morte e la fanciulla (1994)

Roman Polanski adatta l'omonima pièce di Ariel Dorfman, mantenendone l'impostazione teatrale, dove l'azione si svolge (quasi) tutta nello stesso luogo e dove la tensione scaturisce dallo scontro tra le personalità dei protagonisti. Al contenuto squisitamente politico dell'opera originale, con un ribaltamento tanto inevitabile quanto disturbante per cui le vittime diventano carnefici, Polanski aggiunge la sua consueta atmosfera morbosa carica di ambiguità e di erotismo, regalando al cinema l'ennesima perla della sua prolifica carriera. Anche in un progetto come questo, apparentemente lontano dalle consuete tematiche polanskiane, il fantasma del triangolo amoroso presente sin da Il coltello nell'acqua (1962) continua ad aggirarsi tra le pieghe della narrazione.


6) Cul-de-sac (1966)

Dopo la parentesi di Repulsion (1965), Roman Polanski, anche sceneggiatore con Gérard Brach, torna a dipingere un rapporto a tre come nella sua pellicola d'esordio, Il coltello nell'acqua (1962) ma, al posto di una visione ambigua dei rapporti interpersonali, predilige un impianto grottesco con diverse incursioni nella commedia nera, virando la narrazione verso una perfetta commistione di generi. Surrealismo imperante, corrosiva satira sul rapporto tra sessi (destinato sempre e comunque, secondo il regista, al collasso e all'annullamento), inserti demenziali che conducono inaspettatamente alla tragedia, tratteggiata quasi come una casuale anomalia: opera incisiva e anarchica sul fondamentale (non) senso dell'esistenza.


5) Macbeth (1971)

Dopo il successo di Rosemary's Baby (1968), Roman Polanski rilegge in modo personale la più cupa delle tragedie di Shakespeare: estremizza la violenza con abbondanza di effetti da grand guignol (che al tempo fecero discutere), spinge sul pedale dell'onorismo visionario e macabro e, soprattutto, dà vita a un Macbeth (quasi) padrone del proprio destino e non semplice pedina in balia degli eventi. Solo la sua volontà, ispirata da un vaticinio, infatti, lo porterà a compiere i noti misfatti. Il risultato è un'opera inquietante e viscerale: la potenza visiva di alcune sequenze (la visita di Macbeth nell'antro delle streghe e il conseguente delirio che ne profetizza l'infausto destino) e le evidenti ossessioni portate sullo schermo da Polanski, reduce dall'assassinio della moglie Sharon Tate, ne concretizzano notevolmente il significato.


4) L'inquilino del terzo piano (1976)

Terzo capitolo, insieme a Repulsion (1965) e Rosemary's Baby (1968), di un'ideale trittico polanskiano incentrato sull'orrore domestico, L'inquilino del terzo piano è un thriller psicologico con venature horror, ancor più mistico e irrazionale rispetto ai due film precedenti. Le atmosfere (da incubo) contano più della, comunque notevole, sceneggiatura (firmata dal regista con Gérard Brach e ispirata al romanzo di Roland Topor Le locataire chimérique): opera visionaria e ambigua nel definire l'iter di degenerazione del protagonista, il film, ricco di tensione dal primo all'ultimo minuto, nega volutamente l'interpretazione univoca, disseminando tasselli che suggeriscono tesi esplicative angosciose e disturbanti (paranoia? intervento soprannaturale? stallo di matrice esistenziale?), e vanta inoltre la miglior prova d'attore del regista polacco, impegnato in una camaleontica interpretazione che segue un vertiginoso coinvolgimento emotivo.


3) Carnage (2011)

Adattando per lo schermo la geniale pièce teatrale Il Dio del massacro di Yasmine Reza, Roman Polanski dà vita a una folgorante opera di cinema-teatro che lo riporta, a sorpresa, ai livelli (altissimi) dei suoi più grandi film del passato. Partendo dal pretesto del bisticcio tra due ragazzini, il regista fa collidere le personalità dei quattro personaggi generando scintille che rivelano, con una chiarezza disarmante, tutte le ipocrisie, le falsità e i finti idoli su cui poggiano le certezze della piccola borghesia americana e quindi, per estensione, della cultura occidentale tutta. Il risultato è un ritratto cinico e spietato, in cui è facile rispecchiarsi e rimanere spassosamente disgustati. Dialoghi continui e funzionalmente estenuanti, caratterizzazioni da manuale e un'atmosfera claustrofobica che veicola il contrasto tra spazio e parola, aumentando lo straniamento: Polanski sa bene come dirigere, e non risparmia stoccate alla desolazione contemporanea, colpendo mirabilmente nel segno.


2) Chinatown (1974)

Pietra miliare di un genere allora in declino e perfetta testimonianza del clima di disillusione dei plumbei anni Settanta, Chinatown, nato come progetto su commissione, è il film che (insieme a Il lungo addio di Robert Altman, del 1973) riportò il noir alla ribalta sulla scena hollywoodiana. Roman Polanski attinge alle atmosfere fumose delle detective stories anni Quaranta, aggiungendovi una serie di simbolismi (il tema dell'acqua, allo stesso tempo portatrice di vita e di morte) e di richiami interni (Faye Dunaway che sbatte la testa sul clacson, in un'evidente anticipazione del celebre finale) che fanno di Chinatown non solo un fedele omaggio al passato, ma anche (e soprattutto) una geniale opera di rivisitazione moderna di un cinema al tempo dato per deceduto. A suggellare la sontuosa operazione, uno script che fa collidere in modo sublime grandi complotti politico-economici con l'irrazionalità dei comportamenti privati e l'interpretazione della coppia di protagonisti, entrata di diritto nella storia del cinema.


1) Rosemary's Baby (1968)

Un lavoro su commissione per Roman Polanski (convinto a dirigere il film dal produttore Robert Evans), che si trasforma inaspettatamente in un capolavoro destinato a superare i confini del genere horror. Partendo dall'omonimo romanzo di Ira Levin, il regista riesce a tratteggiare una trama fondata su angoscia, paranoia, claustrofobia, paura e autentico terrore, svelando al mondo del cinema come l'allusione sia più efficace dell'evidenza; la raffinata arte del suggerire la presenza del Male radicato nella società risulta molto più terrorizzante di qualsiasi mostro artefatto. In una dimensione allucinatoria di rara suggestione (da antologia le sequenze oniriche, nelle quali passato, presente, realtà e fantasia si fondono e confondono), tra presenze mefistofeliche e acuta indagine psicologica in cui emergono la fragilità ma anche la natura spietata dell'Uomo, Polanski raggiunge la perfezione narrativa e formale tramite le corrosive stoccate al cattolicesimo («l'ipocrisia che si cela dietro la religione organizzata»), esaltate per contrasto dal contesto mefistofelico, e attraverso una maniacale ricerca cromatica che segue lo stato d'animo dei protagonisti. Un film che «parte alla Doris Day» (parole dello scenografo Richard Sylbert) e si conclude con l'orrore più insostenibile, accennato e mai apertamente mostrato nel memorabile finale.

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