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Sacrificio di Andrej Tarkovskij, un'analisi

Ultima opera girata in vita dal cineasta sovietico Andrej Tarkovskij, Sacrificio si configura come un film-parabola il cui soggetto originale doveva essere basato sulla vicenda di Aleksandr, affetto da una malattia mortale che guarisce passando una notte a letto con una strega. Gli avvenimenti, nella stesura originale così come in quella definitiva, dovevano rappresentare non soltanto una parabola sul sacrificio, ma anche la storia della salvezza fisica del protagonista. Non si tratta soltanto della guarigione da una malattia mortale, bensì di una rinascita spirituale espressa nella figura della donna.

Il film prosegue sul discorso avviato nei film precedenti del regista, come ad esempio Nostalghia, anche se in Sacrificio viene posta una particolare attenzione a ciò riguarda la componente poetica legata alla drammaturgia. Tarkovskij stesso afferma come, in questo film, egli non si sia limitato a elaborare l’azione di ogni episodio in base alla sua esperienza e alle leggi della drammaturgia in chiave impressionistica (dove ogni episodio è appunto preso dalla quotidianità e percepito dallo spettatore nella sua pienezza), ma abbia effettuato un particolare sforzo nel costruire poeticamente il film unendo tutti gli episodi. Proprio per questa ragione, la struttura generale di Sacrificio è diventata più complessa assumendo la forma di una parabola poetica. Se in Nostalghia è quasi assente lo sviluppo drammatico, in Sacrificio i conflitti tra i diversi personaggi non solo hanno uno sviluppo, ma giungono fino all’esplosione.

Come Domenico in Nostalghia, anche Aleksandr in Sacrificio è dotato di disponibilità all’azione e la fonte di tale disponibilità è la capacità di presagire i mutamenti che stanno per sopravvenire. Aleksandr è un uomo in uno stato di depressione costante, stanco di tutto: dei cambiamenti che avvengono nel mondo legati allo sviluppo incontrollabile delle tecnologie, dei dissapori familiari e del cosiddetto progresso di cui avverte morbosamente i pericoli. Ha preso a odiare le parole vuote e si rifugia nel silenzio, cercando di trovarvi almeno un briciolo di verità. Egli si rivolge a Dio. Rompe con la vita passata, brucia i ponti dietro di sé non lasciando aperta alcuna via per tornare indietro pur di scongiurare l’imminente catastrofe nucleare. Distrugge il focolare domestico, si congeda dal figlio che ama infinitamente e si rinchiude nel silenzio, svalutando in tutto ciò la parola dell’uomo contemporaneo.

La prima scena, dove viene piantato l’albero inaridito, e l’ultima, dove viene innaffiato (cosa che secondo Tarkovskij rappresenterebbe la fede), sono i punti cruciali, tra i quali si sviluppano gli avvenimenti in una dinamica crescente.

Molto interessante risulta la contrapposizione tra i personaggi di Adelaide e Maria. Nel corso del film Adelaide appare come una figura estremamente drammatica: soffoca inconsapevolmente tutto ciò che rappresenti, anche in minima parte, una contrapposizione alla propria autorità. Soffre per la propria mancanza di spiritualità da cui trae, tuttavia, la sua energia distruttiva e incontrollabile, come quella di un’esplosione nucleare. L’opposto della figura di Adelaide è rappresentato da Maria, la domestica della casa di Aleksandr: donna modesta, timida e costantemente insicura di sé. Di fronte alla minaccia della guerra nucleare, il protagonista vede nell’amore di questa donna modesta (inimmaginabile ad inizio film anche per la netta differenza di posizione sociale tra i due) un dono di Dio, la giustificazione del suo destino.

Secondo quanto affermato da Tarkovskij, l’intenzione principale è quella di collegare le emozioni dello spettatore al comportamento di un uomo che ritiene peccaminoso tutto ciò che non è indispensabile alla vita, in quanto a valore spirituale. Questa allusione si riferisce alla nuova vita di Aleksandr, simboleggiata da scene legate agli elementi naturali in chiave psicologica, come l’albero inaridito e il fuoco nell’incendio della casa. Riguardo a quest’ultima scena, non vi era mai stata, fino ad allora, un’inquadratura così lunga in tutta la storia del cinema, ma ciò, sempre secondo il regista, era un elemento indispensabile.

L’intento fondamentale del film è, non a caso, mettere a nudo le questioni vitali dell’esistenza, richiamando lo spettatore alle sorgenti spirituali dimenticate della nostra vita, all’interno di un mondo dominato dal pragmatismo nel quale l’uomo ha costruito una società sul modello della materia morta, applicando a sé stesso le leggi della natura inanimata.


Niccolò Marnati

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