«La vita è una sceneggiatura che ha meno varianti di un buon film western»
Autore duro e puro dal tocco sporco e ruvido, capace di momenti di violenza insostenibile alternati a straziante lirismo e approfondimento psicologico dei personaggi: Sam Peckinpah, regista rivoluzionario, considerato tra i principali rinnovatori del western made in Usa, fu uomo e artista complesso, poco incline al compromesso, spesso accusato di fascismo e misoginia e perennemente in lotta con le produzioni che scempiavano i suoi film; in ogni caso, un cineasta fondamentale nella storia della settima arte, che ha regalato momenti cinematografici da antologia e influenzato tutta una generazione di autori a venire. Per celebrare il giorno della sua nascita (21 febbraio 1925), ecco i migliori 10 film di Sam Peckinpah, dal decimo al primo posto!
Killer Elite (1975)
L'undicesimo lungometraggio di Sam Peckinpah si incastona perfettamente nei meccanismi del film di genere, nel classico racconto dell'eroe che “cade e risorge”; la novità è il tocco esotico, con il richiamo all'Oriente e alle arti marziali. Costruito sulla virilità ironica e sensuale di James Caan (contrapposto al malinconico traditore Robert Duvall), parte con potenza, regala perle come la sequenza della fuga in taxi e mette sul tavolo una serie di bei personaggi; peccato per il calo nell'ultima parte, da cui era lecito aspettarsi di più.
Getaway! (1972)
Un classico del cinema di rapina, dietro il quale stanno tre menti creative che godono oggi dello status di culto: l'autore del romanzo di partenza Jim Thompson, lo sceneggiatore (e futuro regista) Walter Hill e, dietro alla macchina da presa, il grande Sam Peckinpah. Getaway! è un heist-movie intriso di ironia nera dove centrale è il rapporto d'amore e complicità tra i due protagonisti. Il regista gioca con l'archetipo di Bonnie & Clyde, ribaltandolo: non è infatti la ribellione e la tragedia a segnare il destino di Doc e Carol ma, più realisticamente, l'istinto di sopravvivenza. Discontinuo ma decisamente innovativo.
La croce di ferro (1977)
Forte di un cast di prim'ordine (ottimi James Coburn, Maximilian Schell e James Mason), La croce di ferro è un durissimo apologo pacifista e anti-militarista, dove la guerra, come sembra dirci la canzonetta che scorre sui titoli di testa, è un crudele gioco da bambini. Si superano gli stereotipi mostrando personaggi ben lontani dalla mostruosità del fanatismo nazista (cui si accenna con nera ironia), mentre la messa in scena dell'orrore e della stupidità del macello bellico non ha un'ombra di retorica.
Sfida nell'Alta Sierra (1962)
Opera seconda di Sam Peckinpah, che prosegue il suo percorso di revisionismo del western americano inserendo in un contesto tradizionale (il viaggio, la corsa all'oro) elementi di estremo realismo che epurano l'universo della frontiera da ogni traccia di mito. Pensiamo ai volti sporchi, alla complessità dei personaggi, agli audaci cenni di erotismo, alla cruda messa in scena dell'umanità viziosa che popola il villaggio minerario, alla mancanza totale di eroismo nella rappresentazione della morte. Malinconico e crepuscolare, anticipa di diversi anni il cambio di rotta della fine degli anni '60 attraverso il quale gli autori della New Hollywood abbandoneranno definitivamente il western classico.
Sierra Charriba (1965)
Terzo film diretto da Sam Peckinpah, prova della maturità ormai raggiunta da un autore capace di riscrivere con lucidità l'immaginario del Mito americano. A ben 278 minuti ammontava la durata della versione originale, deturpata dal taglio imposto dalla produzione di dieci sequenze significative (solo parzialmente ripristinate nel restauro del 2005 di 136 minuti e poi nel director's cut lungo di 152). Affresco epico di innegabile potenza, dove la caccia all'indiano, topos di tanto western classico e post-classico, non è nemmeno più una rielaborazione di Moby Dick, quanto un mero spunto per raccontare una “guerra” di ben più vaste proporzioni: quella che gli americani combattono contro i nemici (Apache, francesi), tra loro (la lotta fratricida tra Nord e Sud è il vero asse portante della pellicola) o dentro se stessi.
La ballata di Cable Hogue (1970)
Al quinto film, Sam Peckinpah continua a segnare in modo indelebile il genere western e il suo linguaggio. Dopo una serie di pellicole che rappresentano senza sconti la violenza primigenia alle radici della società americana, è ora il turno di una rilettura grottesca e quasi scanzonata dell'immaginario della Frontiera, tutta giocata intorno al bizzarro protagonista cui presta il volto un grande Jason Robards. Quella del rozzo, analfabeta e umanissimo Cable Hogue è una sorta di versione stravagante del sogno americano, gioiosamente irriverente verso i tradizionali valori della società fino a toccare tratti di comicità surreale.
Cane di paglia (1971)
Per la prima volta, Sam Peckinpah esce dai territori del West, si cala nella contemporaneità e ci regala una delle più spietate riflessioni sulla violenza di tutti gli anni '70. Rileggendo il romanzo di Gordon Williams, ma guardando anche ai saggi degli etologi Robert Ardrey e Konrad Lorenz, il regista americano trascina lo spettatore in un thriller carico di tensione in cui, in un contesto solo apparentemente bucolico, l'intellettuale colto si contrappone alla massa che ragiona secondo regole ataviche e istintuali. Roventi polemiche e accuse di misoginia e morbosità.
Pat Garrett e Billy the Kid (1973)
«Mama, take this badge off of me/I can't use it anymore/it's getting dark, too dark to see». Quando i versi di Knockin' on Heaven's Door di Bob Dylan accompagnano una delle sequenze più dolorose dell'intera storia del genere, capiamo davvero come il cinema di Sam Peckinpah sia un insieme di amarezza e poesia, crudeltà e pietas. Il western classico è “morto”; ora c'è posto solo per il post-western, definitivamente smitizzato e antieroico. La violenza è dosata eppure implacabile, assurda, inevitabilmente destinata a posare una pietra tombale su un'amicizia leggendaria (filiale o forse omoerotica, poco importa) e, soprattutto, sulla vecchia America. Un film disteso e lirico, incorniciato dalle note bucoliche di Bob Dylan (anche interprete dello stralunato Alias) come se non fosse altro che una lunga ballata malinconica.
Voglio la testa di Garcia (1974)
Al decimo lungometraggio, sul culmine di una carriera funestata da infiniti litigi con i produttori e di una profonda crisi personale all'insegna del binomio alcolismo & follia, Sam Peckinpah partorisce uno dei suoi migliori lavori: allucinato e impregnato di nichilismo, è un film che regala una perfetta rappresentazione visiva della sua poetica anticonsolatoria. Se al di qua del Rio Grande la vita risponde a regole primitive (l'onore, la vendetta, lo strapotere dell'hidalgo, la sottomissione della donna), dalla sponda opposta arrivano i cinici e ben vestiti killer americani, personaggi ancora più rivoltanti. La morte, il vizio e la corruzione fanno capolino in ogni momento, senza lasciare speranza agli innocenti; in questo marciume, tenta un impossibile riscatto (illusorio perché abbacinato dal miraggio del dio denaro) l'antieroe inevitabilmente loser impersonato da Warren Oates, tra gli attori più ingiustamente sottoutilizzati del cinema americano.
Il mucchio selvaggio (1969)
Capolavoro assoluto di Sam Peckinpah, maestoso monumento funebre al western classico che da questo momento lascerà spazio al modernismo crepuscolare dei decenni successivi. Nelle due devastanti carneficine che aprono e chiudono il film, il regista tocca lo zenith del suo talento tecnico-estetico: con l'apporto della fotografia di Lucien Ballard e del montaggio convulso di Lou Lombard (oltre 3600 i frame, ai tempi un record), la spettacolarizzazione della morte al ralenti diventa il tratto distintivo dell'autore. Non si tratta di violenza gratuita e autocompiaciuta, come sostennero i detrattori, ma del correlativo visivo di una poetica, di una concezione del mondo. Summa del cinema di Peckinpah, in tutti i suoi elementi: l'amicizia virile, l'ossessione per il denaro, l'aspra critica al potere e alle istituzioni, la carnalità, l'infanzia quale simbolo di innocenza e, insieme, di crudeltà. Imprescindibile.