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Speravo de morì prima: l'ultima cavalcata di Francesco Totti, tra la comicità e l'epica western

Speravo de morì prima. Uno striscione in romano, di un tifoso in curva, ha finito per dare il la a una serie, forse inaspettata, ma certamente azzeccata, su un personaggio, Francesco Totti, indubbia icona popolare degli ultimi trent'anni del nostro Paese.

Trovandosi davanti alla serie Sky Original, si assiste a qualcosa che è a metà tra un racconto di sport all’italiana, che fa della comicità e della leggerezza il suo tratto, e l’epica, il mito che mostra un periodo di vita di un personaggio che ha plasmato l’immaginario collettivo di più generazioni di una città e, forse, di una nazione. Una storia che corre veloce e che usa sei episodi per mostrare due anni, e ricordarne altri venticinque, e che preme sull’acceleratore con i suoi personaggi spesso esagerati, a ricordare al pubblico che, benché tratta da una biografia, si sta assistendo pur sempre a una finzione, che calibra i momenti in cui vuole essere presa sul serio e quelli in cui, invece, l’interpretazione è libera.

Federico Buffa, a lungo voce della NBA su Sky Sport e oggi narratore per eccellenza della mitologia sportiva, parlando della onnipresenza della cultura americana e di Hollywood nella nostra quotidianità, ha fatto un interessante ragionamento. Secondo lui, gli americani, non avendo un’epica di cui possano o vogliano parlare, hanno usato il cinema e lo sport per crearsene una. Dopo aver finito l’epopea dei film con John Wayne e fatto passare il western come qualcosa di epico, si sono legati alla sfera agonistica della loro esistenza. E, quindi, è molto facile che in quest’ottica lo sportivo venga trattato con una logica epica. Perché, non avendola di base, gli americani hanno sostituito l’epica classica con questa.

«Al contrario, nella cultura europea e italiana, di epica, e di storia, ce n’è fin troppa a cui attingere, quindi nel cinema e nello sport questo tratto non sempre viene cercato o addirittura può non essere voluto». Ed è per questo che, nel cinema italiano, lo sport viene visto solo in maniera parodistica. Lo sport è ricreazione, non ha il valore sociale che ha al di là dell’oceano e, per questo, viene raccontato in maniera comica, vedi L’allenatore nel pallone o Eccezzziunale...veramente. In America, lo sport è parte del sistema educativo dei giovani. Hollywood racconta di Toro Scatenato o Million Dollar Baby e vuole che lo spettatore si senta l’atleta, che entri nella sua testa e che viva quell’esperienza, che spesso è di redenzione.

Quello con lo sport non è l’unico parallelismo in cui questa dinamica trova conferma. Nel cinema qualcosa di simile avviene con il western.

Il western è l’epopea per eccellenza made in USA: il romanticismo, le storie d’amore e la tragedia. A questo l’Italia subentra con lo spaghetti western che dissacra tutto. Violenza gratuita, sangue e personaggi che sono tutt’altro che eroi incorruttibili guidati da codici d’onore.

Ecco, da questo punto di vista il Totti di Pietro Castellitto potrebbe essere benissimo un eroe da "spaghetto", impulsivo e mostrato in chiave comica, che vive in un'epica da western. E Speravo de morì prima trova il giusto compromesso per raccontarlo. Il bambino diventato mito e leggenda, la concretizzazione dei sogni dei ragazzini romani e romanisti della città che deve fare un’ultima cavalcata, per poi appendere gli scarpini al chiodo. Stefano Bises (l’uomo dietro Gomorra), Michele Astori (La mafia uccide solo d’estate) e Maurizio Careddu (Rocco Schiavone) usano i sei episodi a disposizione per raccontare il capitano della Roma e i personaggi attorno a lui, sopra le righe.
Totti cerca di essere sempre fedele al suo nome e a ciò che rappresenta, ma non nasconde la sua insofferenza quando viene redarguito dal suo ex fratello maggiore, ora nemico numero uno, Spalletti. Va in guerra aperta con il suo allenatore e scimmiotta Rocky, correndo nel cuore di Roma per dimostrare che la città è fedele a lui.

Sua moglie Ilary (Greta Scarano), fedele compagna, fa appello alla ragione del marito come nei racconti western: non vorrebbe che partisse per un’altra avventura, salvo poi capire che il richiamo dell’ignoto è troppo forte in lui.

E, all’opposto, Antonio Cassano (Gabriel Montesi), il Tuco Ramirez della situazione, alla ricerca della scorciatoia per godersi le gioie della vita e voce interiore che torna più volte per consigliare al cowboy solitario Totti di appendere gli scarpini al chiodo.

Infine Luciano Spalletti, un ottimo Gianmarco Tognazzi. Esagerato nell’imitazione vocale dell’allenatore toscano, che si presenta come un fratello maggiore e torna come il cattivo pronto a far ritirare il protagonista. I confronti tra i due si giocano con dettagli sugli sguardi e primi piani tra i due personaggi, che si sfidano con gli occhi e poi a parole dall’inizio alla fine, con l’ultimo “duello” e la resa dell’uomo dinnanzi all’immortalità dell’icona.

In tutto ciò, il pubblico, dalla prima alla sesta puntata, è parte integrante dello spettacolo. Totti rompe la quarta parete e chiama lo spettatore in causa, perché le persone che ora assistono al riassunto di quegli ultimi due anni sono quelle che hanno visto le sue gesta nei venticinque anni precedenti e, magari, lo hanno tifato o fischiato.
Lo spettatore non è solo invitato a immedesimarsi nel protagonista ma è chiamato a ricordare con lui gli episodi che vengono sceneggiati.

Come in ogni racconto western, però, arriva il momento del tramonto e del cowboy che si congeda. L’ultima puntata vede lentamente dissolversi i momenti sopra le righe e il protagonista inizia a capire di essere alle ultime battute. Ma si vuole mostrare forte di fronte ai suoi figli, si nasconde per non farsi vedere in lacrime e cerca di prepararsi ad affrontare il suo destino.

Per raccontare questo incontro gli sceneggiatori decidono di fare la cosa più intelligente: non cambiare nulla e usare le immagini reali di quel giorno, narrate dal vero Totti. Perché nella nostra epoca, in cui tutto viene filmato e documentato, e dove l’addio di un'icona così grande aveva già avuto ogni tipo di copertura mediatica e subìto un lavoro di storytelling da parte dei media, nessuna rielaborazione sarebbe stata tanto potente da rievocare le emozioni di quei momenti negli occhi di chi li ha visti in presa diretta. Totti è un eroe popolare contemporaneo e quindi si è scelto di far vedere il suo ultimo saluto con le immagini della contemporaneità, quelle delle telecamere delle tv e dei telefonini dei tifosi.

In genere, a questo punto, dovrebbe arrivare la parola fine. Ma questo non è un documentario, è finzione e come insegna Tarantino, nella finzione anche la storia vera può essere piegata al proprio volere. Gli sceneggiatori decidono che il sole, dopo essere tramontato, può sorgere nuovamente e dire al protagonista che forse era tutto un brutto sogno. Il cowboy Totti può firmare un nuovo contratto, che gli porta il suo secondo padre Franco Sensi, e prepararsi a rimettere gli scarpini e ricominciare un’altra avventura.

Mario Mancuso

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