- Mi ricordo di voi, siete Norma Desmond, eravate grande!
- Io sono ancora grande, è il cinema che è diventato piccolo!
Stati Uniti, agosto 1950: usciva nelle sale cinematografiche Viale del tramonto, capolavoro senza tempo di Billy Wilder che analizzava con occhio spietato e corrosivo il mondo di Hollywood. Un contesto solo in apparenza gioioso, che dietro i luccichii nascondeva un'anima corrotta e malata. Argomento ormai sdoganato attualmente, ma trattato in modo troppo moderno all'epoca e decisamente in anticipo sui tempi: questo non piacque agli addetti ai lavori. Leggendario l'aneddoto riguardante la boutade del produttore Louis B. Mayer (dispotico capo della Metro Goldwyn Mayer) il quale, infuriato dopo la proiezione, si rivolse a Wilder in questi termini: «Come hai potuto farlo? Che bastardo!». Un Billy Wilder che negli anni Cinquanta era all'apice della propria carriera, e che rispose a tono; ma la reazione alla primissima versione del film, assai diversa nell'incipit, lo rese assai insicuro. Nelle intenzioni autoriali, Viale del tramonto iniziava all'interno di un obitorio, con il cadavere del protagonista Joe Gillis (William Holden) che conversava con altri ospiti deceduti, raccontando la storia della propria dipartita (nella sala mortuaria, anche un bambino: elemento significativo del gusto macabro del regista). La prima proiezione, organizzata per testare le reazioni spettatoriali, fu a dir poco deludente: risate incontenibili. «Fu uno dei miei momenti neri. Una donna uscì e chiese 'Ha mai visto una simile porcheria?' Io la guardai e risposi 'Mai'».
Via alle modifiche, quindi. E così dall'obitorio si passa alla piscina in cui galleggia il corpo di Gillis, inquadrato da una ripresa molto ardita che fa pensare alla macchina da presa posta dentro l'acqua, in realtà frutto di un sapiente gioco di specchi. Wilder, fanatico delle parole più che delle immagini, pare sottolineare, evento più unico che raro, l'aspetto formale. Scelta ampiamente comprensibile. Ma lo script doveva essere rispettato al millimetro dagli attori, non una parola poteva essere cambiata; e la maniacale precisione registica è ribadita in un aneddoto narrato da Nancy Olson, interprete della graziosa e "pulita" Betty Schaefer. «Un giorno arrivai sul set e vidi un tizio che strofinava con le mani una pietra pomice. Poi si soffiò sulle mani e la polvere si sparse in aria: il tutto per rendere la sensazione degli angoli impolverati». Angoli impolverati di una villa sontuosa e decadente, impregnata della personalità della sua proprietaria: Norma Desmond, cuore pulsante del film, diva ormai dimenticata che non si arrende al proprio declino e sogna un ritorno (anzi, una rentrée) sulle scene. Gloria Swanson, che ne incarna mirabilmente il volto, non era la prima scelta: Wilder considerò prima Mae West (scartata perché avrebbe voluto riscrivere i dialoghi), poi Pola Negri (accento troppo polacco) e infine Mary Pickford. L'illuminazione venne da George Cukor che suggerì la Swanson, rivelatasi perfetta. Swanson, realmente diva all'epoca del muto e lanciata da Cecil B. DeMille (che compare in un cameo nei panni di se stesso, artefice dell'illusione e della distruzione di una stella ormai tramontata), toccò l'apice del successo negli anni Venti; poi, l'oblio. La componente metacinematografica domina, rendendo il tema di base (il marciume a Hollywood) ancor più disturbante, e raggiunge il culmine grazie alla presenza di Erich von Stroheim.
Stroheim, geniale e megalomane regista poi riciclatosi (straordinario) attore (si veda alla voce La grande illusione di Jean Renoir) che era molto incuriosito dal modo di girare di Wilder («arrivava sempre per primo sul set, si sedeva sulla sua sedia, solo sulla sua, poi lentamente si avvicinava alla macchina da presa per vedere Billy all'opera»), si rese celebre per l'aura di maledettismo che lo avvolse durante gli anni di attività (1919-1928): pignoleria e scatti d'ira erano i tratti distintivi del suo modus operandi. Tristemente noti anche i tagli della produzione che scempiarono praticamente tutti i suoi film, in particolare Greed (1924), della durata di 9 ore e 40 minuti ridotte vergognosamente a un'ora e 40 («In tutta la mia vita ho fatto un solo film importante, che nessuno ha visto e del quale il pubblico conosce soltanto pochi resti squartati e mutilati»). Tra gli ultimi progetti Queen Kelly con Gloria Swanson, che decretò per entrambi la fine della carriera. Wilder sfrutta abilmente un simile tipo di background, scegliendo il cast ad hoc e rendendo labile il confine tra realtà e immaginazione cinematografica; così Gillis/Holden assiste ai lontani fasti di Norma/Gloria visionando i suoi film del passato (sullo schermo vediamo proprio le immagini di Queen Kelly) e Max/Stroheim rivela al protagonista di essere stato un ex regista di successo diventato maggiordomo per stare accanto all'ex moglie e protetta. E l'indimenticabile sequenza finale ci restituisce una visione deformata di ciò che fu, con la Desmond/Swanson diretta per l'ultima volta da quel regista che la costrinse all'inattività.
«Eccomi, DeMille, sono pronta per il mio primo piano.»
Sara Barbieri