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Vittorio De Sica: i suoi 5 film più belli
Nato il 7 luglio 1901, Vittorio De Sica è senza dubbio uno dei più grandi registi italiani, tra i punti di riferimento quando si parla di neorealismo. Una carriera strepitosa davanti e dietro la macchina da presa, dove ha regalato interpretazioni memorabili (tra cui Il generale Della Rovere, di Roberto Rossellini, o Pane, amore e fantasia, di Luigi Comencini) e diversi film toccanti e indimenticabili, riuscendo a trionfare 4 volte agli Oscar per il Miglior Film Straniero. Per omaggiare il regista, la classifica delle sue opere migliori: ne abbiamo scelte 5!

5) Miracolo a Milano (1951)



Tra miserie e fantasia, il film è caratterizzato da una struttura fiabesca (i dialoghi surreali e naïf, la congrega di personaggi che agisce a livello elementare), contaminando sociologia (le privazioni dei barboni, costretti a difendersi dalle mire capitalistiche di coloro che sostengono la proprietà privata) e un'idea di cinema nel suo senso più lineare (la consequenzialità degli eventi, l'assenza totale di qualunque sottotesto violentemente polemico). De Sica punta all'emozione primaria e riesce ad affascinare attraverso una purezza di sentimenti quasi archetipica, che rende accettabili gli inserti puramente irreali; e la mancata politicizzazione dei personaggi giustifica la scelta di un finale utopico.

4) La ciociara (1960)



Lo schematismo narrativo e ideologico è evidente, ma la presenza esplosiva della Loren (perfetta in una parte che era stata pensata per l'apparentemente ben più calzante Anna Magnani) riesce a rendere il film quasi epico, con momenti di vita quotidiana funzionali a comprendere il necessario pragmatismo contadino e scene entrate di diritto nell'immaginario collettivo: memorabile la sequenza dello stupro in chiesa, condotta con delicatezza estrema mediante ellissi e doverose omissioni. Meno articolato e complesso rispetto ad altri film del regista, ma eticamente ineccepibile e onesto negli intenti, nonostante la produzione in grande stile.

3) Sciuscià (1946)



A emergere prepotente è il contrasto insanabile tra l'universo infantile, destinato a una desolante perdita dell'innocenza (i piccoli protagonisti sono in perenne balìa di inganni e maneggi, atti a far emergere la presunta verità sui traffici illeciti che li hanno condannati alla prigionia), e un mondo adulto meschino, foriero di corruzione e ipocrisia, che sarà il detonatore primario di un iter degenerativo inarrestabile. Una pellicola indimenticabile ed eticamente ineccepibile, in cui la regia minimale e le scelte stilistiche di grande impatto emozionale (i primi piani che scavano i volti sofferenti dei fanciulli) esaltano per contrasto la drammatica materia di base.

2) Umberto D. (1952)



Meraviglioso e straziante apologo sulle miserie della vecchiaia, diretto da Vittorio De Sica e scritto da Cesare Zavattini, che colpisce l'animo dello spettatore grazie a una linearità sommessa e dolente (incarnata dallo stesso protagonista, prototipo del borghese ingrigito da un'esistenza alienante). La poetica del pedinamento, tratto distintivo della corrente neorealista cui il film è giustamente ascritto, riesce a stigmatizzare le sofferenze, la solitudine, l'inadeguatezza connaturate all'essere umano, superando però in corsa l'intento documentaristico ed elevando il film a simbolo universale di soprusi e ingiustizie. 

1) Ladri di biciclette (1948)



Il film riesce a denunciare le miserie di un'Italia ridotta allo stremo dopo la Seconda guerra mondiale, elevando la tragica vicenda di Antonio a simbolo di un affanno universale. La scelta morale di una piena identificazione con la coppia di protagonisti (padre e figlio, delineati come tipologie opposte ma complementari, sia fisicamente che psicologicamente) è veicolata stilisticamente dalla macchina da presa, che segue invisibile i personaggi, testimoniando (e amplificando, grazie a immagini limpide e pulite che trasfigurano il reale per rappresentare la tragedia esistenziale primaria, quella della sofferenza e del dolore) le piccinerie, i soprusi e l'ingiustizia che dominano i rapporti, strutturalmente prevaricanti, tra simili. De Sica esprime una compassione e un'empatia totali, raggiungendo picchi di lirismo mai gratuiti e retorici (raffreddati in ogni caso da uno script minimale e consequenziale), e dà vita a un'opera straziante ed eterna, destinata a entrare di diritto nella storia della settima arte. 

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