Al termine del workshop dedicato al cinema di Paul Thomas Anderson abbiamo chiesto ai partecipanti di redarre un elaborato su una sequenza a scelta diretta dal regista statunitense. Ecco i lavori dei corsisti:
Andrea Cavo
MAGNOLIA
Il terzo film di Paul Thomas Anderson rappresenta un vero e proprio punto di arrivo per il suo cinema.
Infatti, dopo questa pellicola, il regista abbandonerà il racconto corale per concentrarsi su singoli personaggi, arrivando anche ad asciugare il proprio stile abbracciando una messinscena più classica, eliminando i virtuosismi registici che contraddistinguono le sue prime opere. Partendo dalla San Fernando Valley, luogo simbolo del cinema di Anderson, Magnolia racconta ventiquattro ore della vita di undici personaggi in un unico, caotico e difficilmente scomponibile flusso narrativo nel quale individuare una singola sequenza risulta difficile se non impossibile.
La difficile frammentazione del film deriva dal magnifico montaggio di Dylan Tichenor (stesso montatore di America oggi di Robert Altaman, uno dei padri cinematografici di Anderson) il quale intreccia la giornata di ciascun personaggio seguendo un serrato ritmo dettato anche dal ruolo del primissimo piano che ricopre una colonna sonora quasi sempre presente. A causa di questa complessissima struttura sembra più opportuno analizzare un determinato momento della giornata di uno dei personaggi, piuttosto che una sequenza specifica. Durante l’intervista, la giornalista, interpretata dall’attrice April Grace, cerca di scavare nella personalità di Frank T.J Makey nel tentativo di comprendere cosa lo abbia portato a diventare ciò che è. Frank è infatti un guru del rimorchio, maschilista ed egocentrico, interpretato da Tom Cruise in quella che può probabilmente essere considerata la sua miglior performance di sempre. L’intervistatrice pone a Frank delle domande relative al suo passato, in prima battuta riguardo al suo percorso di studi e poi scava più in profondità, chiedendogli dei suoi genitori.
Frank inizialmente mente dicendo che suo padre è deceduto da parecchi anni mentre sua madre è ancora in vita, quando in realtà è vero l’esatto opposto. Successivamente invece tenderà a chiudere il discorso sostenendo che: “Ancorarsi al passato è il modo migliore per non fare progressi”. La giornalista, sapendo bene che suo padre è in realtà vivo e che ha abbandonato lui e la madre durante la malattia che la portò alla morte, pone la domanda che porrà fine al colloquio e che farà riaffiorare il passato del personaggio dal luogo in cui lo aveva sotterrato, in un vano tentativo di chiudere con esso: “Perché hai mentito Frank?”. Questa domanda assume un’importanza cruciale non solo per il personaggio a cui è rivolta ma anche per tutti gli alti. Nell’esatto momento in cui la giornalista smette di parlare Anderson stacca, mostrandoci in alternanza come tutti i personaggi vengano posti difronte a questa realtà: “Noi possiamo chiudere con il passato ma il passato non chiude con noi” dice Jimmy Gator (Philippe Baker Hall) prima dell’inizio del programma What does kids know?. Il passato è il vero protagonista e burattinaio di Magnolia, ed è ciò che ha reso i vari personaggi vittime (figli abbandonati, violentati o sfruttati, partner traditi) o carnefici (padri che se ne vanno, molestatori o sfruttatori e partner traditori). Il loro dolore può essere fermato solamente accettando e comprendendo che ha radice nel passato: “It’s not going to stop ‘til you wise up” recitano le parole della canzone di Aimee Mann che i personaggi, ognuno nel proprio dolore, cominciano a cantare quasi per magia in quella che forse è la sequenza più famosa del film. Accettazione, che porta al superamento del male che si è subìto e all’espiazione delle proprie colpe; espiazione manifestata nel finale del film dalla biblica pioggia di rane che purifica gli animi dei personaggi e mostra come di fronte a certi comportamenti il perdono è impossibile e sono inesistenti le possibilità di redenzione (una rana cadendo dal cielo entra in casa di Jimmy Gator colpendolo e facendo esplodere un colpo dalla pistola che aveva portato alla tempia, impedendogli persino di togliersi la vita con una sua azione); mentre di fronte ad altri atti il perdono è l’unica, difficile, via da percorrere (es. Tom Cruise al capezzale del padre).
Anderson rappresenta un’America in crisi, esasperata in cui pianti, grida e crolli emotivi rappresentano l’inevitabile sfogo di un’intera nazione incapace di trovare la serenità, perché incapace di comprendere e di ammettere quali siano le proprie colpe; lasciando però una sincera speranza nello splendido sorriso di Claudia con cui il film si conclude.
Samantha Ruboni
MAGNOLIA
No it’s not going to stop, so give up: il giudizio divino, il caos e il libero arbitrio di Paul Thomas Anderson nella pioggia di rane di Magnolia.
La sequenza della pioggia di rane è sicuramente la scena più criptica e sorprendente della filmografia di Paul Thomas Anderson. Anche se sembra apparire dal nulla alla fine di un lungometraggio complicato e intricato, in realtà non è così. Se facciamo attenzione tutto il film ruota intorno a questa biblica pioggia a partire dalla divisione della pellicola in 3 diversi blocchi definiti da 3 diversi bollettini meteo: parzialmente nuvoloso con possibilità di precipitazioni: 82% (la prima mezz’ora); leggera pioggia. Umidità al 99%. venti da sud-ovest a 12 miglia all’ora (l’ora e mezza centrale); piogge in diminuzione. Brezze notturne (l’ultima mezzora). La pioggia quindi è il silenzioso protagonista del film, sempre presente e mai preso sul serio, perché d’altronde “è solo acqua che cade dal cielo”. È una pioggia che bagna tutti i vari protagonisti del film e li abbraccia nella stessa sorte. Una pioggia purificatrice prima del giudizio finale. Finale che viene (semi)involontariamente spoilerato a metà film da un cartello tenuto in mano da uno spettatore del quiz “What do kids know?”, che recita “Exodus 8:2”, e che viene prontamente azzittito da quello che sembra un cameo di Paul Thomas Anderson. Se andiamo a cercare il versetto dell’esodo recita “Aronne tese la mano sulle acque d’Egitto e le rane uscirono e coprirono il paese d’Egitto”. È la seconda piaga d’Egitto. Le rane divengono l’exploit di un senso di allarme e precarietà e anche d’impotenza, che sovrasta tutto il film e i suoi protagonisti, così come il rumore della pioggia e il suo scrosciare – talmente marcato e continuativo che ci dimentichiamo di sentirlo – sottofondo di tutte le vite e le storie, vero trait d’union del film. Ed è proprio l’impotenza davanti all’inevitabile il vero succo del film, messo a fuoco da frasi come “but it did happen” e “it’s somenthing that happen”. Tanta fatica a pianificare e perfezionare le nostre vite e poi arriva una pioggia di rane. È quindi questa forza impossibile da
conoscere e da calcolare nella perfezione (ricercata) delle nostre vite e dal libero arbitrio che Anderson cerca e vuole indagare, nella quale possiamo riconoscere sia Dio e il suo giudizio (quando Claudia strappa la tenda dallo spavento delle rane e viene illuminata da un raggio di luce e Jimmy che viene salvato proprio da una rana mentre cerca di suicidarsi), che ritroviamo anche nelle pellicole seguenti come ne Il Petroliere, sia che il caos più puro (gli incidenti, le strane situazioni, chi vive e chi muore ). E’qualcosa che accade e tu uomo, individuo, non puoi fare nulla. Il libero arbitrio può molto poco contro questa forza che diventa persino una sorta di liberazione dai pensieri e dalle pene che stanno vivendo i personaggi. Il caos come libertà, come unica salvezza per l’uomo che, come recitato nella canzone Wise Up “no it’s not going to stop, so just give up”, ci si deve abbandonare agli eventi, come le sequenze finali e iniziali del film ci fanno intendere. Il caso quasi come una sorta di concretizzazione del divino.
Alessandra Provera
THE MASTER
Con The Master, Paul Thomas Anderson abbraccia il minimalismo. Spoglia il film di tutto, fino all’osso. Parte da due figure: una – Freddie Quell – è sregolatezza, istinto animale, l’altra – Lancaster Dodd – totale raziocinio.
Via pirotecnie cinematografiche, via grandi colpi di scena, via persino i vestiti delle donne al party di Dodd. Restano gli estremi opposti. Il bianco e il nero. La mente e il corpo. Ma anche la terra e il mare. La scelta dei colori ne è il primo richiamo: i toni del blu e dell’azzurro si contrappongono come pennellate decise ai colori di terra, quasi in ogni scena. Il primo fotogramma del film ci mostra Freddie supino, su uno sfondo di onde marine. Uno degli ultimi in cui appare Dodd, lo vede nel mezzo di un deserto. (E quale può essere il vettore dell’incontro tra terra e mare se non una barca?). Per tutto il film, la “terraferma” Dodd, un uomo nel pieno controllo di se’ che tramite l’uso del suo intelletto ha imparato anche a controllare il prossimo, cerca in ogni modo di imbrigliare gli impulsi imprevedibili di Freddie, che lo rendono un vero selvaggio, un mare in tempesta. Con un’altra analogia marina, si può dire che Freddie resterà per sempre la sua “balena bianca”. Esperimento dopo esperimento prova prima a indottrinarlo, poi quantomeno ad addestrarlo, e penserà di esserci quasi riuscito quando ci si avvicina al finale. Una corsa in motocicletta. Da un punto all’altro andata e ritorno. Facile no? Guarda… E in quel momento, come un’onda sul bagnasciuga che si infrange, e più cerchi di trattenerla più torna indietro, Freddie, a cavallo della motocicletta, senza più segni di tempesta, senza clamore, scompare. E si dissolve, come schiuma. Il racconto di Anderson ci offre lo spettacolo di due figure agli antipodi, che si incontrano, si studiano, a tratti si ammirano, ma non cambiano. Sembrano venirsi incontro e poi si allontanano, in un infinito andare e venire che lascerà entrambi incompleti.