Al termine del workshop dedicato a Federico Fellini, abbiamo proposto ai partecipanti di scrivere un elaborato su un elemento emblematico del cinema di questo maestro indiscusso della Settima arte. Ecco i lavori che hanno meritato la pubblicazione!
Lucia Cirillo
Affinità oniriche
Attraversare il tempo e ciò nonostante riuscire ancora ad anticiparlo. Forse è questa la vera e immensa portata dell’eredità di un autore capace di scrivere la storia del cinema senza rientrare in alcuna catalogazione di genere se non in quella di “Felliniano”. Affermare che il cinema contemporaneo meglio rappresentato gli sia debitore è quasi pleonastico, soprattutto per generazioni di registi, come Lynch, che si sono plasmate con chi ha fatto di quelle sue suggestioni la sua cifra più rappresentativa. E infatti tutto il suo cinema pare non essere che un omaggio più o meno consapevole a quelle atmosfere, a quel mondo onirico - surreale e grottesco - fatto di spiriti e demoni immersi in scenari definiti da colori primari dalla forte valenza simbolica e narrativa. E poi la costante messa a fuoco sul mondo borghese, pretesto imprescindibile per l’analisi della crisi dell’uomo contemporaneo, con i suoi valori imposti da una morale cattolica che reprime gli impulsi attraverso il senso di colpa, col suo bisogno di ordine, pulizia, certezza.
In Giulietta degli spiriti, primo lungometraggio a colori - e ingiustamente considerato una sua opera minore - Fellini porta avanti tutto il suo immaginario legato al femminile attraverso un omaggio alla sua compagna di sempre, mettendo in scena la storia di un percorso di affrancamento e di consapevolezza di sé attraverso l’elaborazione di quel lutto dolorosissimo che è il tradimento da parte del proprio uomo.
Il film pare cominciare con la promessa di una pace armoniosa nella bella tenuta borghese, la stessa ravvisabile dall’incipit di Velluto blu - siamo anche qui alle prese con la storia di un amore ossessivo - con cui Lynch definiva il contesto idilliaco nel quale di lì a poco sarebbe successo di tutto. Entrambi i film puntano su una premessa narrativa che di fatto durerà pochissimo. Per comprendere la realtà non basterà affidarsi solo ad essa. Sarà necessario invocare spiriti, intraprendere viaggi onirici, incontrare personaggi grotteschi e surreali, mescolarsi ai ricordi d’infanzia. Tutto questo occorrerà perché gli eventi convergano.
Per Giulietta l’incontro con la vicina di casa (Sandra Milo) sarà l’approdo a un mondo sconosciuto e fino ad allora precluso, fatto di colori e arredi circensi, di corpi che si mescolano per del sesso promiscuo. E come non ritrovare nelle labbra rosse di quella donna giunonica e sensuale quelle dallo stesso richiamo erotico della Rossellini?
Si potrebbe poi tentare di riconoscere anche delle affinità meno evidenti tra i due grandi registi, come il richiamo ad un’idea cinema intesa quale esperienza essenzialmente visiva e rappresentativa e che si esplicita nell’uso non ortodosso del doppiaggio: in Velluto blu un istrionico Dennis Hopper canta “In dreams” in un playback volutamente “smascherato”. Fellini, dal canto suo, doppiava i dialoghi affinché gli attori si concentrassero completamente sulla loro resa scenica.
Due film, due storie non uguali e cronologicamente molto distanti ma con elementi di contatto in grado di restituire una comunanza di approccio in quanto a estetica e suggestioni. Due film frutto del lavoro di due registi attivi in tempi e contesti diversi eppure convergenti. Essere affini. Nient’altro che questo.
Marco Maderna
Un sassolino nell'universo: Federico Fellini
«Non lo so a cosa serve questo sassolino, ma a qualcosa deve servire, perché se questo è inutile, allora è inutile tutto, anche le stelle. Almeno credo. E anche tu. Anche tu servi a qualcosa».
Il cinema felliniano, in fin dei conti, potrebbe essere tutto in queste parole del Matto a Gelsomina (La strada, 1954): si tratta di scoprire il senso, cioè il posto nell’universo, la relazione col Tutto, di un sassolino chiamato Federico Fellini. Senza con questo negare la pluralità delle situazioni narrative e dei temi, tanto più complessi quanto più il regista (e sceneggiatore) sceglie di addentrarsi nei territori della vita interiore e dell’inconscio e/o di ricorrere al linguaggio dei simboli.
Per Fellini, sembra non esserci altra chiave d’accesso alla vita vera, all’esistenza vissuta e non sciupata, celebrata e non sopportata, che il rapporto personale con l’universale, con l’assoluto, il solo che può permettere a quei puntini che sono gli uomini di aprire una danza che celebri la vita, danza di cui si accenna, ad esempio, nel tardo Ginger e Fred (1986).
C’è danza e danza nei film di Fellini, c’è musica e musica, c’è arte e arte, c’è performance e performance. Ce n’è una che getta le maschere ed è portatrice di un rinnovato, personale, rapporto con l’essere; un’altra che non fa altro che aggiungere finzione ad una vita che di falsificazioni e menzogne è già satura.
Proprio La Strada è tra quei titoli che più si sforzano di tracciare il confine tra le due, nel caso specifico incarnate dall’esibizionismo ferino di Zampanò in opposizione alla chapliniana fanciullezza di Gelsomina o all’angelica esultanza del Matto. È un confronto svolto anche ne Le notti di Cabiria (1957), tra il mago che si approfitta della sventurata protagonista e i musicanti o circensi della sequenza finale, fauni festanti che la accolgono nel loro gruppo.
Il novero potrebbe proseguire a lungo, in quella continua oscillazione tra comparse fiabesche di una terra da sogno e volti spettrali di un mondo di tenebra che è il cinema di Fellini. Infatti, là dove non c’è arte genuina, il tipicamente rarefatto paesaggio felliniano arriva a somigliare, più che a un deserto, a un teatro di pallide routine, alle tinte fosche di un incubo, come accade ne La dolce vita (1960): dalla maschera all’involucro vuoto, allo spettro, alla morte vivente.
Caratteristica dei simulacri e delle finzioni sembra quella di un progressivo astrarsi dalla vita, fino alla separazione estrema, al definitivo congedo: in ultima analisi, vacuità e noia svelano un vero e proprio impulso mortifero. È quanto accade al personaggio di Steiner: «Qualche volta, la notte, questo silenzio e questa oscurità mi pesano. È la pace che mi fa paura. Temo la pace più di ogni altra cosa. Mi sembra che sia soltanto un’apparenza e che nasconda l’inferno». Il non riuscire a «vivere nell’armonia dell’opera d’arte riuscita, in quell’ordine incantato», che è quanto Steiner vorrebbe, ha come conseguenza ultima il suo suicidio, previa strage della sua famiglia.
Ne La dolce vita, eros e thanatos, energia vitale e pulsione di morte, sono due poli sempre attivi, sempre in lotta, mentre i personaggi attendono, più o meno consapevolmente, che la vita in persona – la dolce vita – venga lei a palesarsi agli uomini, prenda dimora tra di loro e dentro di loro. L’attesa del divino è sempre ricorrente nella filmografia di Fellini.
E una dea ci sarebbe anche, una Giunone che si aggira nel reticolo notturno dei vicoli di Roma: ma il suo posto sembra essere tra i numi scolpiti nella fontana di Trevi, non tra gli esseri umani. Troppo dedita all’auto-contemplazione, troppo noncurante della loro vita per poter esser lei a diradare l’incubo in cui gli uomini vivono.
Forse i veri tratti del divino, sembra dirci Fellini, somigliano più a quelli di un povero matto che al classicistico splendore di una divinità arcaica, come la “matta” («l’oracolo») che, proprio ne La dolce vita, rivela una saggezza che nessun altro attorno a lei sembra possedere: «Io credo che se uno vive intensamente, in pienezza spirituale, ogni istante conta per un anno e ogni anno si diventa cinque anni più giovani». Ma, in fin dei conti, le sue parole cadono nel vuoto, la sua presenza non ha il potere di cambiare nulla nel salotto borghese di cui è ospite.
Non sarà forse che, a volte, son gli esseri umani stessi a non aver occhi per vedere? Non sarà che solo una creatura povera, spogliata ormai di tutto, una fanciulla senza dimora come Gelsomina o una prostituta come Cabiria, può dirsi nelle condizioni di incontrare il divino? È a loro che succede quel che ai borghesi romani non succede mai. E nelle strade avviene quel che nei circoli perbene, nella società che conta, sembra non verificarsi mai.
Certo che, comunque, per disturbarsi a visitare strade e straccioni, ruderi e mendicanti, questo divino dev’essere matto per davvero. Solo uno come il Matto de La Strada può fare di un sassolino l’oggetto della più alta considerazione, assegnandogli addirittura un posto nell’universo. Solo il più pazzo tra tutti gli dei può perdere la testa per una Gelsomina qualunque.
Maria Clara Tonini
Il cinema di Federico Fellini
Personaggio complesso e tormentato il nostro grande regista.
Coraggioso nel mettersi a nudo, nel fare outing, proprio nella definizione del termine, “confessione dell’esperienza emozionale” del vivere - paure, desideri inespressi, passioni, manie, nostalgie - utilizzando un mezzo narrativo potente come la filmografia.
A quella realtà della vita cruda, vuota, triste, fatta di delusioni, di drammi, per lo più condita con quella melanconia che è spesso borderline con la depressione, a quel malessere interiore che è sempre appartenuto all’uomo, e a lui in particolare, trova la soluzione con la finzione, il sogno, la fantasia.
Ricerca il benessere e un rifugio nella leggerezza che lo spettacolo può dare, utilizzando quegli strumenti terapeutici come il disegno, la musica (elemento importante nei suoi film), la danza (i caroselli in alcune sequenze finali) e in ultimo il colore, importanti nella cura dell’anima.
I suoi film esplicitano metaforicamente come la narrazione sia una componente necessaria all’uomo per aprirsi e non rimanere intrappolato nel dolore, nel disagio e nei cambiamenti, in uno scenario economico, sociale e politico in continuo divenire, che descrive sapientemente con sottile ironia.
E la sua grandezza è proprio questa: il racconto di se stesso e del suo tempo in modo fantastico e al contempo reale fa sì che ognuno di noi può trovare una parte di sé, può trovare la sua collocazione in qualunque tempo viva, può entrare in empatia con il narratore, riuscendo a imparare o ad aggiungere un qualcosa in più al suo esistere attraverso la sua esperienza.
Si potrebbe dire egoista o egocentrico nell’esibire in tutti i suoi film i suoi stati d’animo: la solitudine, la malinconia, la nostalgia della sua terra, del suo mare, della famiglia, l’ossessione per le donne in una ricerca continua di affetto e di attenzione, l’interesse ai reietti, all’anticonvenzionalismo.
Ma direi invece il contrario, generoso perché ci sa indicare la cura per affrontare i grandi temi della vita: sognare può aiutare a sperare; ricordare può aiutare ad affrontare la vecchiaia ed anche la morte.
Lucia Cirillo
Affinità oniriche
Attraversare il tempo e ciò nonostante riuscire ancora ad anticiparlo. Forse è questa la vera e immensa portata dell’eredità di un autore capace di scrivere la storia del cinema senza rientrare in alcuna catalogazione di genere se non in quella di “Felliniano”. Affermare che il cinema contemporaneo meglio rappresentato gli sia debitore è quasi pleonastico, soprattutto per generazioni di registi, come Lynch, che si sono plasmate con chi ha fatto di quelle sue suggestioni la sua cifra più rappresentativa. E infatti tutto il suo cinema pare non essere che un omaggio più o meno consapevole a quelle atmosfere, a quel mondo onirico - surreale e grottesco - fatto di spiriti e demoni immersi in scenari definiti da colori primari dalla forte valenza simbolica e narrativa. E poi la costante messa a fuoco sul mondo borghese, pretesto imprescindibile per l’analisi della crisi dell’uomo contemporaneo, con i suoi valori imposti da una morale cattolica che reprime gli impulsi attraverso il senso di colpa, col suo bisogno di ordine, pulizia, certezza.
In Giulietta degli spiriti, primo lungometraggio a colori - e ingiustamente considerato una sua opera minore - Fellini porta avanti tutto il suo immaginario legato al femminile attraverso un omaggio alla sua compagna di sempre, mettendo in scena la storia di un percorso di affrancamento e di consapevolezza di sé attraverso l’elaborazione di quel lutto dolorosissimo che è il tradimento da parte del proprio uomo.
Il film pare cominciare con la promessa di una pace armoniosa nella bella tenuta borghese, la stessa ravvisabile dall’incipit di Velluto blu - siamo anche qui alle prese con la storia di un amore ossessivo - con cui Lynch definiva il contesto idilliaco nel quale di lì a poco sarebbe successo di tutto. Entrambi i film puntano su una premessa narrativa che di fatto durerà pochissimo. Per comprendere la realtà non basterà affidarsi solo ad essa. Sarà necessario invocare spiriti, intraprendere viaggi onirici, incontrare personaggi grotteschi e surreali, mescolarsi ai ricordi d’infanzia. Tutto questo occorrerà perché gli eventi convergano.
Per Giulietta l’incontro con la vicina di casa (Sandra Milo) sarà l’approdo a un mondo sconosciuto e fino ad allora precluso, fatto di colori e arredi circensi, di corpi che si mescolano per del sesso promiscuo. E come non ritrovare nelle labbra rosse di quella donna giunonica e sensuale quelle dallo stesso richiamo erotico della Rossellini?
Si potrebbe poi tentare di riconoscere anche delle affinità meno evidenti tra i due grandi registi, come il richiamo ad un’idea cinema intesa quale esperienza essenzialmente visiva e rappresentativa e che si esplicita nell’uso non ortodosso del doppiaggio: in Velluto blu un istrionico Dennis Hopper canta “In dreams” in un playback volutamente “smascherato”. Fellini, dal canto suo, doppiava i dialoghi affinché gli attori si concentrassero completamente sulla loro resa scenica.
Due film, due storie non uguali e cronologicamente molto distanti ma con elementi di contatto in grado di restituire una comunanza di approccio in quanto a estetica e suggestioni. Due film frutto del lavoro di due registi attivi in tempi e contesti diversi eppure convergenti. Essere affini. Nient’altro che questo.
Marco Maderna
Un sassolino nell'universo: Federico Fellini
«Non lo so a cosa serve questo sassolino, ma a qualcosa deve servire, perché se questo è inutile, allora è inutile tutto, anche le stelle. Almeno credo. E anche tu. Anche tu servi a qualcosa».
Il cinema felliniano, in fin dei conti, potrebbe essere tutto in queste parole del Matto a Gelsomina (La strada, 1954): si tratta di scoprire il senso, cioè il posto nell’universo, la relazione col Tutto, di un sassolino chiamato Federico Fellini. Senza con questo negare la pluralità delle situazioni narrative e dei temi, tanto più complessi quanto più il regista (e sceneggiatore) sceglie di addentrarsi nei territori della vita interiore e dell’inconscio e/o di ricorrere al linguaggio dei simboli.
Per Fellini, sembra non esserci altra chiave d’accesso alla vita vera, all’esistenza vissuta e non sciupata, celebrata e non sopportata, che il rapporto personale con l’universale, con l’assoluto, il solo che può permettere a quei puntini che sono gli uomini di aprire una danza che celebri la vita, danza di cui si accenna, ad esempio, nel tardo Ginger e Fred (1986).
C’è danza e danza nei film di Fellini, c’è musica e musica, c’è arte e arte, c’è performance e performance. Ce n’è una che getta le maschere ed è portatrice di un rinnovato, personale, rapporto con l’essere; un’altra che non fa altro che aggiungere finzione ad una vita che di falsificazioni e menzogne è già satura.
Proprio La Strada è tra quei titoli che più si sforzano di tracciare il confine tra le due, nel caso specifico incarnate dall’esibizionismo ferino di Zampanò in opposizione alla chapliniana fanciullezza di Gelsomina o all’angelica esultanza del Matto. È un confronto svolto anche ne Le notti di Cabiria (1957), tra il mago che si approfitta della sventurata protagonista e i musicanti o circensi della sequenza finale, fauni festanti che la accolgono nel loro gruppo.
Il novero potrebbe proseguire a lungo, in quella continua oscillazione tra comparse fiabesche di una terra da sogno e volti spettrali di un mondo di tenebra che è il cinema di Fellini. Infatti, là dove non c’è arte genuina, il tipicamente rarefatto paesaggio felliniano arriva a somigliare, più che a un deserto, a un teatro di pallide routine, alle tinte fosche di un incubo, come accade ne La dolce vita (1960): dalla maschera all’involucro vuoto, allo spettro, alla morte vivente.
Caratteristica dei simulacri e delle finzioni sembra quella di un progressivo astrarsi dalla vita, fino alla separazione estrema, al definitivo congedo: in ultima analisi, vacuità e noia svelano un vero e proprio impulso mortifero. È quanto accade al personaggio di Steiner: «Qualche volta, la notte, questo silenzio e questa oscurità mi pesano. È la pace che mi fa paura. Temo la pace più di ogni altra cosa. Mi sembra che sia soltanto un’apparenza e che nasconda l’inferno». Il non riuscire a «vivere nell’armonia dell’opera d’arte riuscita, in quell’ordine incantato», che è quanto Steiner vorrebbe, ha come conseguenza ultima il suo suicidio, previa strage della sua famiglia.
Ne La dolce vita, eros e thanatos, energia vitale e pulsione di morte, sono due poli sempre attivi, sempre in lotta, mentre i personaggi attendono, più o meno consapevolmente, che la vita in persona – la dolce vita – venga lei a palesarsi agli uomini, prenda dimora tra di loro e dentro di loro. L’attesa del divino è sempre ricorrente nella filmografia di Fellini.
E una dea ci sarebbe anche, una Giunone che si aggira nel reticolo notturno dei vicoli di Roma: ma il suo posto sembra essere tra i numi scolpiti nella fontana di Trevi, non tra gli esseri umani. Troppo dedita all’auto-contemplazione, troppo noncurante della loro vita per poter esser lei a diradare l’incubo in cui gli uomini vivono.
Forse i veri tratti del divino, sembra dirci Fellini, somigliano più a quelli di un povero matto che al classicistico splendore di una divinità arcaica, come la “matta” («l’oracolo») che, proprio ne La dolce vita, rivela una saggezza che nessun altro attorno a lei sembra possedere: «Io credo che se uno vive intensamente, in pienezza spirituale, ogni istante conta per un anno e ogni anno si diventa cinque anni più giovani». Ma, in fin dei conti, le sue parole cadono nel vuoto, la sua presenza non ha il potere di cambiare nulla nel salotto borghese di cui è ospite.
Non sarà forse che, a volte, son gli esseri umani stessi a non aver occhi per vedere? Non sarà che solo una creatura povera, spogliata ormai di tutto, una fanciulla senza dimora come Gelsomina o una prostituta come Cabiria, può dirsi nelle condizioni di incontrare il divino? È a loro che succede quel che ai borghesi romani non succede mai. E nelle strade avviene quel che nei circoli perbene, nella società che conta, sembra non verificarsi mai.
Certo che, comunque, per disturbarsi a visitare strade e straccioni, ruderi e mendicanti, questo divino dev’essere matto per davvero. Solo uno come il Matto de La Strada può fare di un sassolino l’oggetto della più alta considerazione, assegnandogli addirittura un posto nell’universo. Solo il più pazzo tra tutti gli dei può perdere la testa per una Gelsomina qualunque.
Maria Clara Tonini
Il cinema di Federico Fellini
Personaggio complesso e tormentato il nostro grande regista.
Coraggioso nel mettersi a nudo, nel fare outing, proprio nella definizione del termine, “confessione dell’esperienza emozionale” del vivere - paure, desideri inespressi, passioni, manie, nostalgie - utilizzando un mezzo narrativo potente come la filmografia.
A quella realtà della vita cruda, vuota, triste, fatta di delusioni, di drammi, per lo più condita con quella melanconia che è spesso borderline con la depressione, a quel malessere interiore che è sempre appartenuto all’uomo, e a lui in particolare, trova la soluzione con la finzione, il sogno, la fantasia.
Ricerca il benessere e un rifugio nella leggerezza che lo spettacolo può dare, utilizzando quegli strumenti terapeutici come il disegno, la musica (elemento importante nei suoi film), la danza (i caroselli in alcune sequenze finali) e in ultimo il colore, importanti nella cura dell’anima.
I suoi film esplicitano metaforicamente come la narrazione sia una componente necessaria all’uomo per aprirsi e non rimanere intrappolato nel dolore, nel disagio e nei cambiamenti, in uno scenario economico, sociale e politico in continuo divenire, che descrive sapientemente con sottile ironia.
E la sua grandezza è proprio questa: il racconto di se stesso e del suo tempo in modo fantastico e al contempo reale fa sì che ognuno di noi può trovare una parte di sé, può trovare la sua collocazione in qualunque tempo viva, può entrare in empatia con il narratore, riuscendo a imparare o ad aggiungere un qualcosa in più al suo esistere attraverso la sua esperienza.
Si potrebbe dire egoista o egocentrico nell’esibire in tutti i suoi film i suoi stati d’animo: la solitudine, la malinconia, la nostalgia della sua terra, del suo mare, della famiglia, l’ossessione per le donne in una ricerca continua di affetto e di attenzione, l’interesse ai reietti, all’anticonvenzionalismo.
Ma direi invece il contrario, generoso perché ci sa indicare la cura per affrontare i grandi temi della vita: sognare può aiutare a sperare; ricordare può aiutare ad affrontare la vecchiaia ed anche la morte.