News
Zero esiste e questo è il suo più grande traguardo

Se dovessimo individuare un minimo comune denominatore nelle recenti produzioni seriali a livello internazionale, la nostra ricerca ricadrebbe sulla crescente attenzione verso lo sviluppo di storie che siano volte all’inclusione e alla celebrazione della diversità. Se i paesi anglosassoni e alcuni europei si sono già avviati verso una migliore rappresentazione delle innumerevoli esperienze umane, l’Italia ha sempre arrancato. Tuttavia, si appresta ora a muovere il primo passo significativo in quella direzione, partendo da Zero

Liberamente ispirata al romanzo Non ho mai avuto la mia età del ventottenne Antonio Dikele Distefano, la serie originale Netflix, disponibile dal 21 aprile, è il primo contenuto televisivo italiano a disporre di un cast per la maggior parte costituito da interpreti neri. Il soggetto dello scrittore lombardo di origini angolane, che ha contribuito al progetto in veste di co-sceneggiatore e consulente artistico, è stato, infatti, adattato ai meccanismi della serialità per offrire un prodotto che avesse al centro l’esperienza dei giovani neri nati e cresciuti in Italia.

“Il mondo ti guarda se tu lo guardi. Si occupa di te se tu ti occupi di lui”


Ambientata tra i quartieri periferici di Milano Sud e le architetture di Zaha Hadid a City Life, Zero deve il proprio titolo al soprannome del protagonista, Omar (Giuseppe Dave Seke), giovane con origini senegalesi che, a bordo della propria bicicletta, passa inosservato sia ai bianchi che ai neri. Rider di notte e disegnatore di manga di giorno, si fa carico della propria famiglia composta dal padre, Thierno (Alex Van Damme), e dalla sorella minore Awa (Virginia Diop), ma sogna di potersi trasferire in Belgio per coltivare la propria passione e diventare fumettista. La sua vita viene stravolta da due incontri: il primo, verificatosi durante una consegna a domicilio, lo porta a conoscere e a innamorarsi di Anna (Beatrice Grannò), aspirante architetta che tenta di fare i conti con i propri privilegi, economici ed etnici. Il secondo introduce il protagonista ai suoi futuri amici che vivono nel suo stesso quartiere: Sharif (Haroun Fall), l’anima del gruppo, impulsivo e con il solo obiettivo di prendersi cura della propria comunità, i fratelli — più per scelta che per legame di sangue — Sara (Daniela Scattolin) e Momo (Richard Dylan Magon), lei proprietaria di un studio di registrazione inserito nella scena underground milanese, lui perennemente positivo e con il sorriso stampato sul viso, e Inno (Madior Fall), il più maturo dei quattro e futura stella del calcio.

Il legame con il libro viene, quindi, mantenuto solo nel carattere del protagonista e nel nome di alcuni personaggi, mentre il nucleo narrativo è totalmente rimaneggiato e presenta una svolta decisiva: Omar non è solo metaforicamente invisibile, lo è anche letteralmente.
Secondo la retorica del ragazzetto emarginato che scopre di avere un super potere e deve imparare ad affrontare le responsabilità che ne derivano, Zero inizia a sfruttare le proprie doti per proteggere il quartiere dalle forze nemiche. Ciò lo porterà, da una parte, a contrastare e smascherare gli affari loschi dell’agente immobiliare Ricci (Giordano De Plano) che paga il criminale cubano Rico (Miguel Gobbo Diaz) perché compia atti di vandalismo al fine di mandare in rovina il quartiere, abbassare i prezzi degli edifici e facilitarne la gentrificazione. Dall’altra, Zero si confronterà con La Vergine (Roberta Mattei), misteriosa boss mafiosa che, puntata dopo puntata, si rivela essere sempre più a conoscenza del potere di Omar, del passato della sua famiglia e, in particolare, delle motivazioni dietro la partenza della madre avvenuta in circostanze sospette quando lui era piccolo.

Come sottolineato in apertura, serie televisive come questa svolgono un ruolo a livello sociale e culturale che va oltre il “semplice” intrattenimento: propongono storie e volti alternativi che contribuiscono a una tanto attesa diversificazione delle esperienze rappresentate sul piccolo schermo. Questo obiettivo viene raggiunto da Zero attraverso la scelta di attori e attrici con origini africane alle prese con la loro prima esperienza sul set, mantenendosi in linea con le più recenti produzioni italiane (si pensi a Summertime o a Skam). Tale diversità e interesse per la scoperta di voci emergenti si rispecchia anche a livello musicale, nella creazione di una colonna sonora che può contare su nomi caldi della scena italiana, come Tha Supreme, Marracash, Mahmood e Madame, ma anche straniera, con i brani del duo francese Videoclub e della belga di origini congolesi Lous and the Yakuza. Purtroppo tutti questi elementi, per quanto lodevoli, rischiano di rimanere pura apparenza e di tralasciare la sostanza. 

Come il proprio protagonista che si giostra tra le ambizioni lavorative, l’amore che nutre per Anna, le sfide derivanti dal suo potere e l’obbligazione che sente nei confronti della famiglia e del quartiere, allo stesso modo Zero cerca di toccare più punti, compattando in quattro ore di girato stili, atmosfere e generi i più disparati.
Partendo come racconto di formazione teen, si tinge prima dei toni della commedia romantica mielosa, in seguito si addentra nel genere a tratti dell’heist movie, a tratti d’azione e di lotta contro il crimine organizzato e le mire degli imprenditori bianchi e benestanti. Infine, la storyline “marveliana” diventa predominante su quella sociale portando l’attenzione sulle doti di Omar (e non solo) e sull’esistenza di ragazzi speciali, che riporta alla mente un altro ragazzo invisibile del cinema italiano.

Per quanto nella serialità lo sviluppo di diversi nuclei narrativi in contemporanea sia la prassi, qui il problema non si pone a livello tematico, bensì stilistico. La serie diretta a otto mani da Paola Randi, Ivan Silvestrini, Margherita Ferri e Mohamed Hossameldin fallisce nel costruire un’identità visiva che, volente o nolente, è essenziale al fine di imporsi con forza nel panorama televisivo attuale. Vista l’innovazione apportata da Zero a livello culturale e sociale, c’erano tutti i presupposti affinché questo prodotto potesse elevarsi e fondare un genere a sé stante. Al contrario, facendo un collage di tradizioni e immaginari cinematografici preesistenti, il risultato raggiunto è disorientante e i tratti che dovrebbero essere caratterizzanti sono in realtà solo accennati. 

Oltre che a livello visivo, la sostanza scarseggia anche, e soprattutto, sul piano della sceneggiatura: attraverso frasi fatte e moraleggianti e vere e proprie scene che tentano invano di raccontare la realtà delle nuove generazioni, tali esperienze risultano diluite e auto-censurate. Mancano affermazioni e prese di posizione precise e, perché no, controverse: lo spettatore ha la sensazione che i creatori stiano cercando di raccontare le sfide che derivano dall’essere nati neri in Italia, l’amore e i rapporti sessuali nel XXI secolo e la ricerca adolescenziale della propria identità a un pubblico che si continua a non reputare maturo abbastanza per confrontarsi con la realtà, nuda e cruda.

Imputare tutto ciò alla scelta del target di riferimento, ovvero quello dei più giovani, significa nascondersi dietro a un filo d’erba e non rendersi conto che, complice la diffusione delle piattaforme streaming e il periodo d’oro che stanno vivendo le serie televisive, le nuove generazioni sono le prime a reclamare contenuti genuini, approfonditi e impegnati. Il clima all’acqua di rose colpisce e destabilizza ancora di più gli eventuali lettori del libro al quale Zero si ispira: a differenza della trasposizione televisiva, il romanzo affronta il divorzio turbolento dei genitori di Omar, la relazione omosessuale del padre, la maturità della sorella, in questo caso maggiore, del protagonista, la perdita della verginità nei primi anni dell’adolescenza e le tensioni della comunità in cui cresce Zero che sfociano spesso nella violenza. Il bisogno di riadattare la narrazione ai funzionamenti della serialità è indubbio, ma non si può fare a meno di  immaginarsi che aspetto avrebbe assunto il prodotto se il legame con il testo fosse stato più stretto.

Dovendo fare un bilancio della nuova produzione Netflix, non è intenzione di chi scrive far passare le critiche di cui sopra come un motivo per non guardare la serie o per affermare che se ne sarebbe potuto fare a meno: Zero è essenziale e lo rimane a prescindere da cavilli stilistici o da lacune della sceneggiatura. È un passo fondamentale per il sistema e gli spettatori italiani che vedranno e ascolteranno finalmente una cultura e una componente del nostro paese il più delle volte emarginata, sottovalutata e invisibile. L’auspicio è che, in vista di una possibile seconda stagione, la serie possa migliorarsi, trovare un’identità artistica più distintiva e rappresentare un punto di partenza, non di arrivo, per se stessa e per l’intera industria italiana. 

Lucia Savio

Maximal Interjector
Browser non supportato.