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Far East Film Festival 22: la nostra top 5 del concorso

La ventiduesima edizione del Far East Film Festival si è conclusa ieri con la vittoria del dramma Better Days. Sono stati trentotto i film in concorso, provenienti da otto Paesi asiatici: Cina, Corea del Sud, Filippine, Giappone, Hong Kong, Indonesia, Malesia e Taiwan.
Ad aggiudicarsi il premio del pubblico è stato il dramma giovanile Better Days di Derek Tsang; di seguito, invece, trovate la nostra personale Top 5.
La classifica tiene conto solo dei titoli in concorso, ma è necessario citare almeno Labyrinth of Cinema, testamento artistico di Nobuhiko Obayashi e film più bello tra quelli visti quest'anno al FEFF, il documentario d'assalto i -Documentary of the Journalist- e l'universo cinematografico di Hirobumi Watanabe, un autore giovane ma dalla visione artistica già ben definita, di cui abbiamo potuto apprezzare quattro eccellenti titoli.

5) BETTER DAYS di Derek Tsang (Cina, 2019)

Il film vincitore del FEFF è un'opera dura e difficile da recensire. Diretto dal giovane Derek Tsang, Better Days ha avuto un'ottima risposta di pubblico in Cina, e ha fatto incetta di premi agli Hong Kong Film Awards. Allo stesso tempo, ha destato preoccupazioni in patria per la durezza con cui descrive il fenomeno del bullismo, tanto che ci viene il sospetto che i ritocchi di post-produzione che hanno causato l'esclusione del film all'ultimo festival di Berlino siano stati voluti proprio dalla distribuzione cinese, forse preoccupata che il film mettesse troppo in cattiva luce le istituzioni. Nel raccontare la storia di Chen Nian, ragazza tormentata da un gruppo di compagne, e di Liu Beishan, teppista dal cuore d'oro che decide di proteggerla, il regista Derek Tsang dimostra di avere talento e sensibilità per i drammi giovanili, come già dimostrato nel notevole Soul Mate (2016). La messa in scena è elegante e arricchita dalla bella di fotografia di Yu Jing-pin, che esalta soprattutto le scene notturne, con un montaggio serrato che tiene alto il ritmo del film. Il bullismo è rappresentato senza edulcorare, in un'escalation di violenza tanto più insostenibile quanto plausibile; e la banalità del male si gioca tutta nel contrasto tra l'espressione carica di dolore di Chen Nian (una straordinaria Zhou Dongyu) e quella compiaciuta e sadicamente innocente della sua aguzzina. I due giovani protagonisti sono bravi e credibili, ma sono attorniati da personaggi meno azzeccati o mal delineati, come quelli del poliziotto empatico o della madre di Chen Nian. Nonostante qualche vistoso passo falso, soprattutto nel cambio repentino di registro da dramma a crime movie, Better Days coinvolge mettendoci di fronte a un dramma quotidiano dalle conseguenze devastanti e merita sicuramente di essere conosciuto anche dal pubblico occidentale.

4) ROMANCE DOLL di Yuki Tanada (Giappone, 2020)

In un'edizione carica di romanticismo, la storia d'amore più bella è quella raccontata da Yuki Tanada in Romance Doll. Un film che si apre in flashforward, segnato dallo spettro di un destino ineluttabile, per poi ripercorrere dagli inizi la storia di un matrimonio durato dieci anni. Succede tutto in fretta tra il goffo Tetsuo e la bella Sonoko: si conoscono, si innamorano, si sposano. Lei viene descritta da tutti come "bella, buona cuoca e devota al marito"; lui, invece, è sempre più distante, assorbito dal suo lavoro di costruttore di bambole erotiche, di cui lei è all'oscuro. Quando i segreti reciproci vengono finalmente confessati, i due riscoprono una passione destinata a durare per poco e, allo stesso tempo, per sempre. Nell'adattare il suo stesso romanzo, Tanada realizza un'opera tanto eterea quanto profondamente carnale, in cui la fotografia dai toni spenti sembra smorzare la differenza tra la mutabilità dei corpi e la permanenza delle bambole. Contrariamente a quanto si possa pensare, però, il film non è solo estremamente commovente, ma anche leggero e spensierato, e parla di sesso e rapporti di coppia in maniera originale e mai banale. E non mancano momenti divertenti e persino grotteschi, nello stile tipico e inimitabile di certo cinema giapponese contemporaneo. Il finale in spiaggia ricorda Kitano e chiude il film con una battuta memorabile e dissacrante che riassume l'essenza dell'opera.

3) LUCKY CHAN-SIL di Kim Cho-hee (Corea del Sud, 2020)

Cosa vuol dire dedicare una vita intera al cinema? Prova a raccontarcelo Kim Cho-hee, qui alla sua opera prima, decennale collaboratrice del regista Hong Sang-soo. Difficile non leggere nella storia di Chan-sil, produttrice indipendente rimasta senza lavoro, un racconto autobiografico, tanto leggero quanto spietato nel raccontare la condizione precaria degli artisti indipendenti in Corea. La quarantenne protagonista (Gang Mal-geum) si ritrova all'improvviso senza appigli e a dover fare i conti con una vita persa a fantasticare sullo schermo. In un'escalation di situazioni tragicomiche, Chan-sil accetta prima di fare la donna delle pulizie per un'amica attrice, per poi innamorarsi, non corrisposta, del maestro di francese di quest'ultima. A complicare le cose ci si mette il fantasma di Leslie Cheung, che appare alla donna come se fosse appena uscito da Happy Together e le fa mettere in questione la propria salute mentale. Lo stile di regia di Kim Cho-hee è debitore del maestro Hong Sang-soo; ma Lucky Chan-sil arricchisce il realismo di quest'ultimo con una buona dose di fantasia cinefila. Diversi i riferimenti a Ozu, Kusturica e a Provaci ancora, Sam. Gang Mal-geum recita con misura e incarna alla perfezione le insicurezza della protagonista. Ed è divertentissima la reazione indispettita di Chan-sil alle parole del maestro di francese, che dice di annoiarsi con Viaggio a Tokyo e di amare Nolan: "Ah, sei uno di quelli...". In un film così metacinematografico, sospeso tra realtà e sogno, spicca un finale al chiaro di luna di chiara ispirazione felliniana.

2) MINORI, ON THE BRINK di Ryutaro Ninomiya (Giappone, 2019)

In un'edizione ricca di film spettacolari, spicca un piccolo film giapponese che fa della sottrazione la propria forza. Il regista trentatreenne Ryutaro Ninomiya ambienta il proprio film in una cittadina sul mare nella provincia di Kanagawa, e dichiara la propria poetica già dalla scena iniziale, un lungo piano sequenza in cui la macchina da presa si interessa prima a una famiglia in spiaggia e poi alla conversazione frivola fra un gruppo di ragazze, prima di abbandonarle per dedicarsi ad altro. Il regista mette in scena la vuota quotidianità di un gruppo di ragazzi della cittadina, scegliendo come punto di vista principale quello della giovane Minori. La ragazza, che lavora come cameriera in un ristorante locale, si differenzia dagli altri giovani della città: sorride poco, non dà risposte banali, ma soprattutto interpella i propri interlocutori al limite dello spossamento. In Minori, on the Brink si parla tanto e dai discorsi emerge il quadro di una società superficiale e sessista, poco abituata al confronto. Minori si muove in questo panorama rifiutando di essere confinata a oggetto del desiderio maschile, cercando al contempo di scuotere la coscienza della timida amica Rieko. Ninomiya si limita a registrare le conversazioni in una serie di quadri che richiama Slacker e il cinema del primo Linklater, rinunciando anche alla musica di accompagnamento per  prediligere le voci e i suoni di un Giappone immobile a alienante.

1) BEASTS CLAWING AT STRAWS di Kim Yong-hoon (Corea del Sud, 2020)

A febbraio, poco prima dell'esplosione della pandemia che sta cambiando il mondo, Parasite di Bong Joon-ho faceva la storia durante la notte degli Oscar. E lo straordinario momento di forma del cinema coreano è stato confermato dal FEFF con una serie di ottimi film, tra cui spiccano diverse opere prime. Se Exit di Lee Sang-geun è stato premiato con il Gelso Bianco, la giuria internazionale ha comunque insistito per assegnare una menzione speciale a Beasts Clawing at Straws, esordio più che promettente di Kim Yong-hoon. Il film è all'apparenza un convenzionale neo-noir che non inventa nulla di nuovo né sul piano narrativo né su quello formale; ma, se dovessimo fare un paragone culinario, sarebbe con un piatto tradizionale dagli ingredienti stabiliti, ma reinventato da un giovane chef esuberante che sperimenta con le dosi e la presentazione. Iniziamo dagli ingredienti: c'è il determinismo dei Coen e di Kubrick (impossibile non leggere nella borsa di Louis Vitton piena di bigliettoni un omaggio a Rapina a mano armata), le luci al neon e la violenza di Refn e Park Chan-wook, ma anche il sottile commentario sociale di Bong Joon-ho. Una perfetta struttura a incastri garantisce l'equilibrio tra gli ingredienti, e la presentazione impeccabile è confezionata da una fotografia superba, un montaggio perfetto e musiche impeccabili. Un ben amalgamato cast di star (tra cui Jeon Do-yeon e Jung Woo-sung) e caratteristi, cliché incarnati che si muovono sulla scacchiera del destino, rappresenta invece il tocco finale dello chef. Signore e signori, un nuovo cult è servito. Ne sentiremo parlare ancora.

Marco Lovisato

Maximal Interjector
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