Made in Italy
2018
Paese
Italia
Genere
Drammatico
Durata
104 min.
Formato
Colore
Regista
Luciano Ligabue
Attori
Kasia Smutniak
Stefano Accorsi
Marco Pancrazi
Fausto Maria Sciarappa
Lorenzo Pedrotti
Riko (Stefano Accorsi) ha un lavoro che non lo soddisfa e delle ambizioni represse che lo rendono un uomo frustrato, che non sa bene dove indirizzare la sua rabbia. Nemmeno i rapporti con la moglie Sara (Kasia Smutniak) vanno per il meglio e a Riko non resta che contare sulle proprie forze, su un gruppo di amici che in fondo gli sta ancora accanto e sull’affetto del figlio.
Terzo film da regista del cantante Luciano Ligabue, che dopo Radiofreccia (1998) e Da zero a dieci (2002) si concede un’opera terza a sedici anni di distanza dalla sua ultima volta dietro una macchina da presa. Un ritorno, tuttavia, tutt’altro che felice, perché Made in Italy, ispirato nella colonna sonora e nell’ideazione al concept album omonimo dello stesso Ligabue, è un fragoroso fallimento nelle idee, nella forma e nei contenuti, che conferma appieno la pochezza e la velleità già mostrata dal rocker di Correggio con la regia di Da zero a dieci, sequel ideale del precedente e ben più fortunato Radiofreccia. Siamo di fronte a un minestrone indigesto di spunti mal assortiti che vorrebbero raccontare la crisi politica e sociale dell’Italia di oggi, ma che finiscono col risultare un miscuglio avariato di populismo ambiguo, sbalestrate derive mélo e sequenze dal dubbio e confuso impatto etico ed estetico (su tutte quella del corteo di manifestanti sull’articolo 18, nel quale i protagonisti si infilano come si entrerebbe a un ufficio postale). Il film è ovviamente tappezzato dalle canzoni dell’album omonimo, fioccano le strizzatine d’occhio che vorrebbero suggerire l’idea di un istant movie ma sanno già di anacronismo (lo spread!) e il tentativo di lambire l’attualità è tanto ammiccante e urlato quanto farraginoso e fastidioso. Sconcertanti anche i picchi di recitazione verso il basso di Accorsi, una sorta di Freccia ai tempi della crisi caratterizzato pochissimo in sede di scrittura, e di Smutniak (apice scult la scena della zuppa sulle note di Song to the Siren), per non parlare dei sorrentinismi della regia nel filmare Roma. Di rado, nel cinema italiano, si è assistito a un racconto di frustrazione più sfilacciato, pretestuoso e di grana grossa, nel quale non si contano le scene scollegate e insensate rispetto al discutibile disegno complessivo e le battute e gli snodi risibili e posticci (finale compreso, dove si scomoda addirittura Cesare Pavese e il suo “Un paese ci vuole” …).
Terzo film da regista del cantante Luciano Ligabue, che dopo Radiofreccia (1998) e Da zero a dieci (2002) si concede un’opera terza a sedici anni di distanza dalla sua ultima volta dietro una macchina da presa. Un ritorno, tuttavia, tutt’altro che felice, perché Made in Italy, ispirato nella colonna sonora e nell’ideazione al concept album omonimo dello stesso Ligabue, è un fragoroso fallimento nelle idee, nella forma e nei contenuti, che conferma appieno la pochezza e la velleità già mostrata dal rocker di Correggio con la regia di Da zero a dieci, sequel ideale del precedente e ben più fortunato Radiofreccia. Siamo di fronte a un minestrone indigesto di spunti mal assortiti che vorrebbero raccontare la crisi politica e sociale dell’Italia di oggi, ma che finiscono col risultare un miscuglio avariato di populismo ambiguo, sbalestrate derive mélo e sequenze dal dubbio e confuso impatto etico ed estetico (su tutte quella del corteo di manifestanti sull’articolo 18, nel quale i protagonisti si infilano come si entrerebbe a un ufficio postale). Il film è ovviamente tappezzato dalle canzoni dell’album omonimo, fioccano le strizzatine d’occhio che vorrebbero suggerire l’idea di un istant movie ma sanno già di anacronismo (lo spread!) e il tentativo di lambire l’attualità è tanto ammiccante e urlato quanto farraginoso e fastidioso. Sconcertanti anche i picchi di recitazione verso il basso di Accorsi, una sorta di Freccia ai tempi della crisi caratterizzato pochissimo in sede di scrittura, e di Smutniak (apice scult la scena della zuppa sulle note di Song to the Siren), per non parlare dei sorrentinismi della regia nel filmare Roma. Di rado, nel cinema italiano, si è assistito a un racconto di frustrazione più sfilacciato, pretestuoso e di grana grossa, nel quale non si contano le scene scollegate e insensate rispetto al discutibile disegno complessivo e le battute e gli snodi risibili e posticci (finale compreso, dove si scomoda addirittura Cesare Pavese e il suo “Un paese ci vuole” …).
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