Dopo aver subito un grave infortunio alla testa cadendo da cavallo, un giovane cowboy (Brady Jandreau) dovrà tenersi lontano dal mondo del rodeo e dedicarsi a un lavoro più tranquillo. Non sarà semplice, però, non ascoltare il richiamo della natura.

Secondo lungometraggio di Chloé Zhao, dopo l’esordio con Songs My Brothers Taught Me (2015), regista cinese che si è trasferita a studiare prima a Londra e poi a Los Angeles. Ha ben poco di cinese questo film che rientra pienamente nei canoni del cinema indie americano, descrivendo con crudezza e forte realismo il mondo della provincia americana. Al centro della trama non c’è solo il cowboy in cerca di una (nuova?) identità, ma una famiglia disfunzionale che cerca di sopravvivere in un universo in cui il rodeo appare essere come una delle flebili luci di speranza per potersi ritagliare un’esistenza migliore della norma. Ambientato nel Midwest americano, questo curioso western dell’anima è un prodotto che fatica un po’ a ingranare nella prima parte, ma una volta inserita la marcia giusta cresce di livello, riuscendo anche a emozionare con l’approssimarsi della conclusione. È un film introspettivo e silenzioso, forte di un notevole approfondimento del personaggio principale e del mondo che lo circonda. Le immagini contano più delle parole per descrivere i sentimenti dei personaggi in campo e il loro rapporto con i cavalli che risultano a tutti gli effetti dei co-protagonisti della pellicola. Curiosità: i tre attori principali sono padre, figlio e figlia anche nella vita reale. Passato in numerosi festival, prima di arrivare nelle sale italiane a oltre due anni di distanza dalla sua prima presentazione alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes 2017.