In occasione dei suoi 65 anni (30 aprile 1956), non potevamo non dedicare la nostra classifica settimanale al genio maledetto di Lars von Trier, uno degli autori più controversi del panorama cinematografico contemporaneo. Anticonformista e provocatorio, sfrutta le potenzialità del linguaggio filmico attraverso un cinema innovativo e sperimentale, che indaga la violenza e il lato oscuro dell'animo umano. Ipocondriaco e affetto da diverse fobie, soffre di lunghi periodi di depressione che influenzano le sue opere.
Ecco i suoi cinque migliori film:
Reduce da un periodo di profonda depressione, Lars von Trier dà libero sfogo al proprio pessimismo, immaginando un’apocalisse imminente e ineludibile, unico destino possibile per un’umanità sempre più arida e corrotta. Ritornano così temi cari al regista come la feroce critica a una borghesia meschina, arrogante, irrimediabilmente insoddisfatta e perennemente inadeguata o la diffidenza verso la scienza e più in generale verso chi, attraverso il raziocinio, è stoltamente convinto di poter gestire il caos che regola l’esistenza. Lo stile si fa quindi foriero di inquietudini e angosce, regalando momenti di abbacinante splendore (l’incipit sulle note di Wagner dall’ouverture di Tristano e Isotta), suggestivi e spiazzanti, sempre funzionali nella costruzione di una vera e propria sinfonia visiva.
4) La casa di Jack (2018)
Il testamento di Lars von Trier. Un viaggio all’interno della (sua) mente. Un viaggio all’interno del (suo!) cinema. Un viaggio all’interno del (suo?) inferno. La sua opera più intima e personale, quella in cui von Trier si mette definitivamente a nudo di fronte alla macchina da presa, rendendo lo stesso Jack (straordinario Matt Dillon) un suo esplicito alter ego. In un momento in cui il protagonista si confessa tramite le immagini del cinema, sono i precedenti film del regista (ma c’è anche la serie The Kingdom) a riempire lo schermo, ma è questo intero lungometraggio un contenitore delle sue ossessioni e delle sue perversioni, della sua macabra ironia (si tocca anche il nazismo, argomento che l’ha portato a essere espulso dal Festival di Cannes 2011) e ricco di tanti accostamenti azzardati nella messinscena. Un inferno sulla terra, quello realizzato da Jack che vuole a tutti i costi costruire la sua abitazione, ma il percorso del protagonista – diviso in diversi capitoli – ha un epilogo dantesco in cui i Campi Elisi sono attraversati da falciatori del grano, perfetta sintesi di ciò che il cinema di von Trier è sempre stato: un cinema che parla della morte (personificata come falciatrice), che cerca il passato della sua arte di riferimento (ancora Dreyer) e delle altre (la pittura di Millet), ma sempre rivolto al futuro, a cercare una nuova luce con cui si possa sperimentare e andare avanti. Anche a costo di rimanerne abbagliati o di crollare tra le fiamme.
3) Dancer in the Dark (2000)
Tra le opere più discusse, discutibili e controverse di Lars von Trier. Da un lato può essere letto come un film politico e di denuncia (contro la pena di morte, la xenofobia e, più in generale, il sistema americano, che von Trier tornerà ad “accusare” nei successivi Dogville, del 2003, e Manderlay, del 2005), dall’altro come un prodotto innovativo e rivoluzionario nei confronti del musical hollywoodiano: come più volte evidenziato dalla protagonista, se nei classici film del genere il lieto fine è sempre dietro l’angolo, e c’è raramente spazio per delle tragedie vere e proprie, von Trier infarcisce questo (anti)musical di situazioni atroci e crudeli, che si susseguono l’una dopo l’altra. Il film vinse due riconoscimenti importantissimi al 53° Festival di Cannes: la Palma d’oro per il miglior film e il premio per la migliore interpretazione femminile a Björk, cantante islandese alla sua prima prova da protagonista per il grande schermo, autrice di una performance strepitosa, dal punto di vista vocale e non solo. Straordinario.
2) Dogville (2003)
Primo capitolo di una ipotetica trilogia dedicata agli Stati Uniti, è un film concepito come una critica sia alla società a stelle e strisce sia al suo cinema. Per questo von Trier sceglie un taglio stilistico volutamente antispettacolare, gira all’interno di un teatro, utilizza scenografie minimali e adotta una messa in scena astratta e brechtiana con gli attori che bussano a porte o usano oggetti non presenti sul palcoscenico. Una rappresentazione metaforica di un’America che accoglie elementi esterni, ma mai in nome della contaminazione e dell’integrazione, bensì di un’assimilazione unidirezionale. Straordinario l’uso della voce narrante e sublime l’intera impostazione drammaturgica. Grande successo internazionale, anche grazie al cast stellare capitanato da un’ottima Nicole Kidman. In assoluto, tra i film più importanti degli anni Duemila.
1) Le onde del destino (1996)
Da molti considerato il film della svolta mistica e spirituale di von Trier, Le onde del destino è, in realtà, un’opera che conferma, e per certi versi radicalizza, lo sguardo profondamente pessimista dell’autore sulla natura umana e sulla religione. La protagonista Bess è, come viene definita dal suo medico curante, “malata” di bontà: una bontà pura, disinteressata e naturale, quindi destinata a essere sconfitta e disonorata da una società ipocrita, meschina e retrograda, incapace di accettare e comprendere sentimenti di genuino e spontaneo altruismo. E a mostrare particolare grettezza e aridità sono quelle istituzioni rappresentanti in terra di un Dio vendicativo ed egoista che pretende totale devozione e disposizione al sacrificio. Quello di Bess è il martirio di una santa laica, disposta a umiliarsi pur di salvare l’uomo che ama, una bizzarra eroina che ha vissuto gran parte della sua vita nel timore di Dio e degli uomini in una forma di autoesilio preventivo da quel mondo crudele e spietato che sarà poi chiamata ad affrontare in nome dell’amore. Un melodramma potente, profondo e spiazzante, sempre in grado di evitare cadute nel patetismo anche grazie alla stupefacente interpretazione di Emily Watson, intensa e realistica nel dar vita a un personaggio struggente e difficilmente dimenticabile. Notevole uso della colonna sonora che, con alcuni popolari pezzi pop, accompagna l’introduzione di ogni capitolo in cui il film è diviso. Indimenticabile.