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Tutti i colori del musical anni '50
Allegria, spensieratezza, puro godimento della vita. Queste le direttrici fondamentali su cui poggia il musical anni '50, un preziosissimo scrigno che custodisce al suo interno quella joie de vivre di cui il grande pubblico, ancora emotivamente segnato dal trauma della Seconda guerra mondiale, aveva bisogno. Lo sguardo cupo e obliquo degli anni '40 si tinge sempre più di ottimismo, le pesanti volute di fumo degli angusti interni noirish si diradano in favore di un visione del mondo in cui è sempre bel tempo.

I'm singin' in the rain
Just singin' in the rain
What a glorious feeling
I'm happy again.
I'm laughing at clouds.
So dark up above,
The sun's in my heart
And I'm ready for love

Un decennio, gli anni '50, che a Hollywood vede primeggiare le passioni forti, declinate in forma di melodramma o di western dal sapore classico. Impossibile non pensare ai mélo targati Universal, in particolare a quelli di Douglas Sirk, ritenuti semplici prodotti di consumo per casalighe al momento dell'uscita per poi essere giustamente rivalutati a partire dagli anni '70, o alle leggendarie epopee che rielaborano il Mito della frontiera firmate John Ford, Anthony Mann, Delmer Daves, Budd Boetticher e Howard Hawks, tanto per fare qualche esempio. Ma siamo anche negli anni del divismo pop per eccellenza, con le icone James Dean e Marilyn Monroe destinate a segnare in maniera indelebile la storia del costume (e non solo), dei pachidermici peplum storico-biblici, dei capolavori di Elia Kazan e Nicholas Ray, e della nascita del CinemaScope, il formato panoramico nato per contrastare lo strapotere acquisito in quegli anni dalla televisione.

In un momento storico in cui il cinema americano racchiude al suo interno l'apogeo della Golden Age hollywoodiana, in termini di sforzo produttivo e fermento artistico trasversale ai generi, prima della disgregazione dei codici classici operata dalla New Hollywood alla fine degli anni '60, il musical raggiunge la sua vetta espressiva. Vincente Minnelli, Stanley Donen e Gene Kelly, autentici padri putativi del genere, danno vita per primi a una forma di intrattenimento emozionante e spettacolare, fatta di colori sgargianti e indimenticabili coreografie. Ripercorriamo, allora, le tappe fondamentali del musical anni '50, attraverso una panoramica ad ampio raggio che, oltre alle pietre miliari a stelle e strisce, comprende anche due straordinari titoli di produzione europea. Dieci opere immortali da vedere e rivedere, riportate in rigoroso ordine cronologico.

Un americano a Parigi (Vincente Minnelli, 1951)



Opera di dolcissimo romanticismo e eccezionale ispirazione visiva firmata da uno smagliante Vincente Minnelli, qui all'apice del proprio virtuosismo registico. Una scintillante giostra che il regista manipola a suo legittimo piacimento, un porta-gioie con meravigliose sequenze oniriche e un numero musicale conclusivo di quasi venti imponenti minuti, girato con grazia e indicibile raffinatezza. Senza trascurare, inoltre, tutto il talento che gli sta attorno, a partire dai primordi: il film si ispira all'omonimo poema sinfonico (1928) di George Gershwin, le cui musiche (con parole del fratello Ira e aggiunte non accreditate di Saul Chaplin) reggono il vigoroso impianto stereofonico della meravigliosa operazione. Un luminoso modello di carezzevole sentimentalismo e irrefrenabile gioia di vivere. Straordinaria l'ambientazione parigina magistralmente ricostruita negli studi MGM. Gene Kelly è un protagonista di enorme bravura, ma tutto il resto del cast risponde ai suoi stimoli danzerini con fragrante eco, con l'esordiente Leslie Caron (futura Gigi nell'omonimo film del '58 diretto sempre da Minnelli) in testa. Vincitore di sei premi Oscar: film, sceneggiatura (Alan Jay Lerner), fotografia (Alfred Gilks e John Alton), costumi (Irene Sharaff), scene (Cedric Gibbons, E. Preston Ames, Edwin B. Willis e F. Keogh Wilson) e musiche (Saul Chaplin e Johnny Green). Presentato al Festival di Cannes.

I racconti di Hoffmann (Michael Powell & Emeric Pressburger, 1951)



Una sfavillante summa della visione cinematografica di Michael Powell ed Emeric Pressburger che, trasponendo non senza qualche libertà l'omonima opera fantastica in cinque atti (1880) di Jacques Offenbach su libretto di Jules Barbier, hanno dato vita a un ineguagliabile spettacolo totalmente aderente alla partitura originale. Interamente cantata, la pellicola è una esaltazione della rappresentazione filmica come artificio nonché il più significativo esempio di "cinema totale" dei due autori, sintesi suprema di tutte le arti e le tecniche espressive che concorrono alla creazione di un mondo immaginifico al di là di qualsiasi realtà percepita. Un trittico musicale, incorniciato da un prologo e un epilogo, che racchiude pittura (il folgorante uso del colore), teatro (le sfarzose scenografie ricostruite negli Shepperton Studios) e melodramma. Delusioni d'amore, tentazioni del male, purezza del bene, sacrifici in nome dell'Arte, romanticismo, fantasia, inganni e false apparenze attraversano tre racconti giocati su variazioni cromatiche differenti (la Parigi di Olympia's Tale in giallo, la Venezia di Giulietta's Tale in rosso cupo e l'isola greca di Antonia's Tale in azzurro) che mettono in scena tutte le ossessioni di Powell e Pressburger e i temi a loro cari, in una barocca ricostruzione antinaturalistica giocata sul virtuosismo della regia e delle interpretazioni. Straordinaria la Shearer, già memorabile in Scarpette rosse (1948), ma a rubare la scena in più di una occasione è Robert Helpmann, diabolica e minacciosa figura che interpreta, oltre a Lindorf, l'ottico manipolatore Coppelius, il mefistofelico padrone Dappertutto e il malvagio dottor Miracolo. Un riferimento assoluto per intere generazioni di registi. Clamorosa fotografia in Technicolor di Christopher Challis. Le scenografie e i costumi di Hein Heckrot furono nominati all'Oscar. Musicato dalla Royal Philharmonic Orchestra diretta da Sir Thomas Beecham. Premio speciale all'opera al Festival di Cannes e Orso d'argento come miglior musical al Festival di Berlino.

Cantando sotto la pioggia (Stanley Donen, Gene Kelly, 1952)


Inarrestabile e brillantissimo flusso visivo-musicale, è uno degli esempi di cinema americano più virtuoso, smagliante ed eclettico mai apparsi sullo schermo. Grazie a un'intuizione geniale – raccontare gli anni Venti condensati nella trasformazione furoreggiante di Hollywood nel passaggio dal cinema muto al sonoro – Gene Kelly e Stanley Donen orchestrano un film memorabile, divertente e immortale. Tutti gli ingredienti concorrono alla magistrale riuscita della pellicola: si va dalla solida sceneggiatura di Adolph Green e Betty Comden, inizialmente pensata come bacino contenitivo per le canzoni del produttore Arthur Freed e di Nacio Herb Brown (già cantate in altri film musicali della MGM) al fortissimo impianto filosofico e morale dell'opera, in grado di coniugare ritmo e buoni sentimenti, per un mix di micidiale accelerazione cinetica. E, oltre alla sfavillante bellezza figurativa, a sorprendere sono i risvolti e le sottotracce cinéphile della storia, un'autentica dichiarazione d'amore per la Settima arte. La parentesi del film-nel-film dedicata a Broadway, in cui Gene Kelly, turbolento protagonista oltre che reale spirito animatore del lungometraggio, balla con un'ispirata Cyd Charisse (prima mangiauomini, poi creatura di bianco drappata) è da manuale di storia del cinema. Da applausi a scena aperta anche le interpretazioni di Debbie Reynolds, Donald O'Connor (straordinario nel numero musicale Make ‘em laugh) e Jean Hagen. Sontuoso Technicolor di Harold Rosson. Capolavoro assoluto.

Spettacolo di varietà (Vincente Minnelli, 1953)



Straordinario apologo sulla forza d'animo ispirato a un musical di Broadway del 1931 (che vedeva già Astaire protagonista) e firmato da un Minnelli al massimo delle sue capacità. Il regista dirige un'opera-trapezio bellissima e libera, farcita di numeri musicali memorabili e con canzoni di Arthur Schwartz e Howard Dietz (come That's Entertainment! o la bellissima Dancing in the Dark, che accompagna un indimenticabile duetto al chiaro di luna tra Fred Astaire e Cyd Charisse). Oltre a essere una gioia per gli occhi e una delle punte di diamante dei musical prodotti da MGM, la pellicola è un incredibile documento di dignità e glamour, cui Minnelli dedica l'anima e il corpo di un Fred Astaire probabilmente ai massimi storici e biografici. La sua vicenda di star in lieve declino e reduce da una serie di insuccessi (come The Belle of New York, 1952, di Charles Walters) si accosta diligentemente alla parabola di Tony Hunter, che ne diventa dolcissimo riflesso in maniera quasi mitica. Ottime critiche all'uscita ma flebile successo di pubblico (sigh!) per un'opera magnifica.

Brigadoon (Vincente Minnelli, 1954)



Fiabesca sciarada musicale affidata al talento mai troppo riconosciuto di Van Johnson, alla grazia di Cyd Charisse e al carisma dell'ineguagliabile Gene Kelly, ballerini e interpreti impeccabili di un film lievemente compromesso dal formalismo cui Vincente Minnelli, in questo caso, pare particolarmente debitore. Girato in CinemaScope, valorizzato dalla bella fotografia (Joseph Ruttenberg), dalle scenografie (Cedric Gibbons, Preston Ames, Edwin B. Willis e F. Keogh Wilson) e dai costumi (Irene Sharaff), Brigadoon è una pellicola coinvolgente, forte di un ottimo tocco visivo, che occupa un posto di rilievo nell'immaginario del genere di appartenenza per la suggestiva ambientazione scozzese, davvero squisita. Ispirato al musical del di Alan J. Lerne e Frederick Loewe portato sulle scene nel 1947.

Carmen Jones (Otto Preminger, 1954)



Adattamento dell'opera di Georges Bizet (ispirata alla novella di Mérimée) a cui sono state apportate diverse varianti, su tutte le musiche firmate da Oscar Hammersmith II e Billy Rose, e l'ambientazione nella realtà afroamericana. Nello stesso anno in cui ha diretto il suo primo western (La magnifica preda), Otto Preminger esordisce in un altro genere tipico del cinema classico americano, il musical. Il regista, totalmente a suo agio, costruisce una messinscena di rara raffinatezza, impartisce alla perfezione i tempi di montaggio e utilizza al meglio il suo cast, composto unicamente da attori di colore. Il risultato è notevole, moderno, curatissimo: fin dalle prime battute, si capisce che la regia sarà dinamica e mai adagiata su dinamiche drammaturgiche prettamente teatrali. Tutti gli attori sono stati doppiati da cantanti professionisti. Il film, inoltre, segna l'esordio assoluto di Saul Bass, il mago dei titoli di testa che collaborerà abitualmente con lo stesso Preminger e con Alfred Hitchcock.

French Cancan (Jean Renoir, 1954)


Il ritorno in patria di Renoir dopo una lunga esperienza all'estero, è un omaggio appassionato e giocoso al vecchio mondo del music-hall. Se la trama, per stessa ammissione del regista, non è che un futile e quasi infantile pretesto, ogni interesse va ricercato nel raffinato décor, e in una rappresentazione così stilizzata da ricordare, secondo Truffaut, le famose stampe popolari della città di Epinal. Il colore è l'elemento centrale in questo effimero gioco di messa in scena, come lo è l'idea stessa del movimento, che culmina nel meraviglioso finale. Giocando con il cromatismo puro, filmato senza l'utilizzo di filtri o luci colorate, Renoir evoca direttamente la pittura, guardando a maestri come Degas e Toulouse-Lautrec. È stato anche il film che ha riportato Jean Gabin a lavorare con Renoir dopo i capolavori La grande illusione (1937) e L'angelo del male (1938). Nel cast, oltre a Gabin, sfila una folta galleria di personaggi importanti nella scena artistica francese degli anni '50, con un cameo, tra gli altri, di Edith Piaf. La celebre canzone Complainte de la Butte, diventata un inno a Montmartre, fu scritta dallo stesso Renoir per la colonna sonora del film.

È sempre bel tempo (Stanley Donen, Gene Kelly, 1955)



Diretto in tandem da Donen e Kelly dopo la felice esperienza di Cantando sotto la pioggia (1952), il film fu inizialmente immaginato dagli sceneggiatori Bette Comden e Adolph Green come seguito ideale di Un giorno a New York (1949): del trio di protagonisti, però, sarebbe rimasto solo Gene Kelly, che al posto di Sinatra e Munshin chiama accanto a sé Dan Dailey e Michael Kidd. Dopo aver re-introdotto l'elemento primigenio del trio maschile protagonista, viene imbastita una storia post-bellica di taglio socio-culturale che diventa una riflessione corrosiva e non scontata sull'amicizia, le promesse, i sogni mancati e, non da ultimo, sul mondo dell'intrattenimento e dello stress urbano (idealizzati nei personaggi bene sviluppati da Dolores Gray e Cyd Charisse). Una divertente satira in CinemaScope che lambisce molti ambiti e tocca questioni importanti con leggerezza e ironia, che non si fa mancare momenti musicali di buon livello e, soprattutto, riesce nel non facile compito di unire spensieratezza e un velo di crepuscolare malinconia. Tra i prodotti MGM più personali del periodo, premiato dalla critica ma non dal pubblico.

Les Girls (George Cukor, 1957)



Ingiustamente trascurato titolo di Cukor, che punta su una narrazione poco consueta ai canoni di Hollywood (quella dei differenti punti di vista come emblematici nello sviluppo della sceneggiatura) e la sposa alla prossemica della commedia musical e soprattutto romantica. Un film intelligente, che il regista manipola con estrema disinvoltura affidandolo alle cure di un protagonista eccellente come Gene Kelly. Cukor, però, non viene meno alla sua funzione “culturale” di regista d'attrici; ed ecco, accanto alla leggenda, le bravissime Gaynor, Kendall ed Elg. Notevoli le musiche di Cole Porter, qui all'ultima colonna sonora della sua carriera prima del decesso (avvenuto nel 1964). Fu anche l'ultimo musical di Kelly con la MGM. Magnifica fotografia di Robert Surtees. Oscar ai costumi di Orry-Kelly.

Gigi (Vincente Minnelli, 1958)



Simpaticissimo musical ispirato al romanzo di Colette, pubblicato a puntate nel 1942 sulle pagine del settimanale Présent, e alla commedia musicale di Broadway del 1954 di Anita Loos, già interpretata in scena da Audrey Hepburn. La divertita regia di Minnelli, le colorate ambientazioni parigine e la godibile colonna sonora di André Previn, unita alle belle canzoni di Frederick Loewe e Alan Jay Lerner, concorrono a renderlo uno dei musical più ispirati della sua generazione, un gioiellino allegro e un po' lezioso di buoni sentimenti e felicità. Ottima, come sempre i Minnelli, la direzione degli attori, con Leslie Caron, Louis Jourdan e Maurice Chevalier più in forma che mai. Nove Oscar: film, regia, sceneggiatura, fotografia, scene, costumi, montaggio, musiche e canzone. Una meraviglia.

Davide Dubinelli
Maximal Interjector
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