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Mostra di Venezia: la nostra classifica dei Leoni d'oro dal 2000 al 2020

Ventuno film per ventun'anni di Mostra del Cinema di Venezia. Ecco il nostro viaggio tra i recenti vinicitori della rassegna lagunare, tra titoli di grande successo anche commerciale e opere segnate da un'autorialità più marcata. Leoni d'oro amati o discussi, osannati o respinti, entrati nella memoria collettiva o finiti nell'oblìo.

21) Monsoon Wedding – Matrimonio indiano di Mira Nair (2001)

L'arrivo delle violente piogge monsoniche risveglia gli animi e i sentimenti della famiglia protagonista di quest'affresco generazionale composto da un affiatato cast corale. Il genere è quello della commedia hollywoodiana con dei richiami a Bollywood, gioiosa e con qualche picco drammatico, affollata dalle molteplici individualità dei protagonisti che appartengono a due mondi distinti, il vecchio e il nuovo a confronto. Mira Nair dimostra ancora una volta di voler esplorare gli usi e i costumi della sua terra, in un film allegro e colorato, di piacevole intrattenimento, in cui le vicende narrate non si distinguono comunque per originalità, né i personaggi per un particolare approfondimento: il risultato, in fondo, è convenzionale ed estremamente furbetto.

20) Ti guardo di Lorenzo Vigas (2015)

Interessante ma didascalica opera prima del regista venezuelano Lorenzo Vigas, che ha scritto il soggetto insieme al più noto Guillermo Arriaga, Ti guardo è un dramma di indubbio impatto narrativo, capace di trascinare lo spettatore in un mondo di degrado e povertà con uno stile austero e trattenuto. Tutto ruota attorno al denaro, vero motore di un'umanità abbrutita dalle difficoltà economiche e disposta a tutto pur di sbarcare il lunario nel Venezuela contemporaneo, tramortito da un tracollo finanziario non indifferente. Bravo Alfredo Castro (attore feticcio del regista cileno Pablo Larrain), qui nei panni di un cinico voyeur difficile da interpretare e alle prese con sentimenti e pulsioni tanto scomode quanto respingenti. Dopo una prima parte efficace, il film però si perde ripiegandosi su se stesso.

19) Sacro GRA di Gianfranco Rosi (2013)

Storie di varia umanità che gravitano intorno al Grande Raccordo Anulare di Roma. Da un botanico impegnato in una disinfestazione a un ex principe che vive in un sontuoso palazzo; da un pescatore di anguille a un anziano nobile stanziato nel monolocale della figlia. Gianfranco Rosi tenta di restituire la sacralità di un non luogo quale il Raccordo Anulare romano attraverso un mosaico di vite improbabili e nascoste, che alimentano lo sfondo del silenzio e della penombra; l'approccio stilistico, che prova a (ri)dare vitalità al genere con una cura più cinematografica e meno spontanea, è apprezzabile, ma emerge come ostacolo alle ambizioni di base. Nessuna spontanea ripresa del reale, solo una messa in scena eccessivamente calcolata, con Rosi che risulta osservatore furbetto nel ricercare episodi e affermazioni sensazionalistiche o riprovevoli. Un documentario a tratti profondo, ma troppo studiato a tavolino.

18) Lussuria – Seduzione e tradimento di Ang Lee (2007)

A due anni dalla tormentata omosessualità raccontata nel bellissimo I segreti di Brokeback Mountain (2005), premiato con il Leone d'oro, il regista taiwanese torna con un nuovo film “scandalo”, dal contenuto però più convenzionale. Al posto del Wyoming anni Sessanta, c'è l'Oriente, a ribadire la versatilità dell'autore nel muoversi su entrambe le sponde dell'oceano, e una controversa pagina della Storia cinese. In un affresco di ampio respiro, sfarzoso e accuratissimo nei dettagli (la fonte è l'omonimo romanzo di Eileen Chang), Lee instilla un racconto di iniziazione sessuale ad alto tasso di erotismo, dove gli amplessi non sono solo funzionali alla storia ma il punto focale di un ritratto delle passioni umane. Il perfezionismo formale deraglia però spesso nel manierismo, rischiando talvolta di gelare persino il fuoco del desiderio che pure sta alla base del film. Il risultato è un mélo abbastanza ordinario, dalla durata decisamente eccessiva. Osella per il miglior contributo tecnico alla fotografia di Rodrigo Prieto.

17) La forma dell'acqua – The Shape of Water di Guillermo del Toro (2017)

Dimostrando la consueta passione e competenza nei confronti della storia del cinema, Guillermo del Toro alterna omaggi al musical e all’horror, costruendo una sorta di ipotetico seguito de Il mostro della laguna nera (1954), cult di Jack Arnold. Il periodo di ambientazione è quello della Guerra Fredda, i tempi sono quelli dello scontro per il predominio spaziale tra Unione Sovietica e Stati Uniti, ma il contesto storico-politico (seppur citato costantemente) lascia soprattutto spazio a una tenera storia d’amore tra una ragazza muta con un lavoro umile e un “mostro” che si dimostra più umano di (quasi) tutti gli uomini presenti all’interno della narrazione. Un antidoto al cinismo del mondo contemporaneo, fin troppo prevedibile nella sua struttura drammaturgica piuttosto convenzionale. In ogni caso, emozionante, raffinato e coinvolgente. Quattro premi Oscar: miglior film, miglior regia, miglior scenografia e miglior colonna sonora.

16) Somewhere di Sofia Coppola (2010)

L'esistenza apatica dell'attore hollywoodiano Johnny Marco (Stephen Dorff) è scossa dall'arrivo della figlioletta undicenne Cleo (Elle Fanning), la cui vicinanza lo porterà a compiere il sofferto bilancio di una vita segnata dalla solitudine, nonostante fama, denaro e belle donne. Al quarto lungometraggio, Sofia Coppola prosegue la sua poetica aerea e sofisticata indagando l'insicurezza, la fragilità e, in definitiva, la profonda malinconia di un uomo ferito nei sentimenti dalla propria incapacità di rapportarsi alla realtà dei piccoli gesti quotidiani e alle emozioni autentiche. Non una condanna del divismo con tutti gli eccessi che comporta o uno scontato percorso di autoanalisi, bensì un ritratto umanissimo così rarefatto da sembrare, a un primo grado di lettura, inconsistente. Ma la Coppola, con il consueto gusto per il dettaglio, carica gli ambienti (lo Chateau Marmont, l'Hotel Principe Di Savoia, il palazzetto del ghiaccio) e il paesaggio (una California ora frenetica, ora desolata) di una forte valenza metaforica, funzionale a descrivere lo stato d'animo del protagonista, per analogia o per contrasto. Il rapporto padre-figlia scivola senza inutili sentimentalismi. Profondamente superficiale? No. Superficialmente profondo? Forse. Leone d'oro non senza polemiche, assegnato dalla giuria presieduta da Quentin Tarantino.

14) Magdalene di Peter Mullan (2002)


Ispirandosi al documentario Sex in a Cold Climate di Steve Humphries e alle figure femminili che in esso si raccontano, Peter Mullan sceglie di scoperchiare uno scomodo vaso di Pandora portando alla luce una delle pagine più buie e misconosciute della recente storia irlandese. Quella delle Case Magdalene è una vicenda poco nota che si stima coinvolse più di 30.000 donne e ragazze, tra “peccatrici”, portatrici di handicap e semplici adolescenti considerate troppo vivaci dalle famiglie, rinchiuse e costrette a massacranti turni in lavanderia senza retribuzione, sotto l'egida fanatica delle suore che non permettevano loro di uscire, parlare e intrattenere relazioni sociali. Mullan non ci va certo leggero e sceglie di raccontare le squallide vite delle ragazze nel modo più crudo e realistico possibile, non lesinando su sequenze di violenze, percosse e torture psicologiche e rappresentando le suore, capitanate dalla sadica madre superiora, come un branco di represse psicotiche. Una riflessione viscerale e sentita sulla solitudine femminile e sull'isolamento causato dall'ottusità culturale e una coraggiosa denuncia di una realtà che, incredibilmente, è sopravvissuta fino al 1996.

14) Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza di Roy Andersson (2014)



Le beffe della vita e le contraddizioni di una società in pieno collasso. Roy Andersson scrive e dirige una ballata dolceamara in bilico tra surrealismo ed esistenzialismo, chiaramente ispirata ai temi e alle forme del teatro scandinavo (impossibile non pensare a Johan August Strindberg) e dell'assurdo (evidenti gli influssi di Samuel Beckett ed Eugène Ionesco). Visivamente e concettualmente ipnotiche le inquadrature fisse e asettiche, che fotografano i personaggi, ridotti a manichini in balìa degli eventi, in un contesto minimalista e destrutturato. Le ripetizioni verbali e tematiche, i ricicli storici, la ridicolizzazione del Potere mostrato nella sua forma più becera: tutto concorre a veicolare l'impossibilità di dare un senso all'esistenza (come suggerisce il sarcastico titolo, ispirato a Pieter Bruegel) e a metaforizzare le miserie umane tramite l'utilizzo di un umorismo spiazzante e corrosivo. Un viaggio comico e disperato, divertente e straniante. Un'esperienza cinematografica di indubbio magnetismo.

13) The Woman Who Left di Lav Diaz (2016)



Il regista filippino Lav Diaz prosegue il suo personalissimo e radicale percorso autoriale con una struggente parabola su una donna in lotta con i propri fantasmi, fortemente contestualizzata e calata nella sofferta realtà del suo paese. Sono passati più di dieci anni dalla fine della dittatura di Marcos (siamo nel 1997, anno della morte di Lady Diana e Madre Teresa di Calcutta), ma le Filippine sono un territorio ancora instabile, piagato da miseria e ingiustizia sociale, in cui coesistono luci e ombre rappresentate in maniera poetica e feroce dalla macchina da presa del regista, come sempre vigile e impassibile ma anche tesa verso sconfinati slanci di umanità e adesione emotiva. Un Lav Diaz insolito e prezioso la cui narrazione, quasi serrata e fluida per i suoi standard ben più contemplativi, lo porta alle soglie del noir, facendo venir meno una dose di lirismo rispetto al passato ma soffermandosi meglio su aspetti anche contenutistici oltre che formali. Il ridimensionamento dell’abituale elemento magico-religioso spinge il film in una dimensione molto concreta e meno estatica del solito, dove il sacro è presente, ad esempio, sotto forma di confessione destabilizzante e prosaica tra un prete e un criminale. Da vedere.

12) Pietà di Kim Ki-duk (2012)



Gang-do è un trentenne di Seul estremamente silenzioso e violento. Alle dipendenze di uno strozzino, sbriga il lavoro sporco della riscossione dei debiti. Un compito che spesso si trasforma in pestaggi e intimidazioni fisiche, quando gli insolventi non riescono a restituire il denaro. Lentamente, ma inesorabilmente, nella vita di Gang-do si affaccia Mi-seon, donna di mezza età altrettanto misteriosa, che afferma di essere sua madre... Un'opera estrema e violentissima che mette sul piatto una cattiveria e una disperazione simboliche e significative, necessarie – come afferma lo stesso Kim – per «resistere alla crudeltà del capitalismo che uccide gli esseri umani». Lo sguardo nei confronti della Corea, patria del regista, si fa aspro, la società sfrutta se stessa ed è dominata da un determinismo che degrada e umilia. Al netto di un certo auto-compiacimento della messinscena, il messaggio arriva forte e chiaro, veicolato sia da un'ambientazione lugubre che rimanda sempre allo strazio fisico (le saracinesche metalliche, le tagliole, gli spazi angusti), sia da una simbologia cristiana coraggiosamente intrisa di sessualità.

11) Lebanon di Samuel Maoz (2009)

 
Prima guerra del Libano, 1982. Un gruppo di soldati vede il mondo esterno tramite il mirino del carrarmato in cui sono rinchiusi. Primo lungometraggio di finzione di Samuel Maoz, Lebanon è un'opera stupefacente e originale, quasi interamente ambientato all'interno del carrarmato, in cui la soggettiva del mirino diventa una grande metafora voyeuristica dello sguardo dello spettatore, costretto a osservare in prima persona gli orrori della guerra che gli si parano davanti. Le drammatiche azioni belliche si trasformano così in eventi virtuali per i soldati israeliani dell'equipaggio: alienati e depersonalizzati, attraversano un mondo devastato dagli spari e dal dolore senza rendersi conto di ciò che stanno realmente facendo. Un racconto brutale, che non rinuncia però a lampi di pura poesia, come i campi di girasoli che aprono e chiudono il film.

10) Il segreto di Vera Drake di Mike Leigh (2004)



Uno dei film di Leigh più alti, sotto il profilo morale ma anche per ciò che concerne il rigore raggelato della messa in scena. L'Inghilterra degli anni '50 è un grumo di conformismo e false apparenze, di rapporti sociali mediati inautentici e tendenza costante ad occultare qualsiasi tipo di polvere sotto il tappeto. L'attacco a un'intera classe sociale, con le sue posture consuete e le sue abitudini consolidate, è condotto con mano ferma e mai deliberatamente aggressiva. Leigh non assolve e non condanna, non solleva da ogni colpa la casalinga protagonista, la quale cela un segreto inconfessabile che la costringe a una facciata d'ipocrisia. Finale in crescendo, ma senza sbavature pietistiche nonostante l'insorgere della commozione. Recitazione di altissimo livello di tutto il cast, ma la protagonista Imelda Staunton, premiata con la Coppa Volpi, è da applausi.

9) Nomadland di Chloé Zhao (2020)

Arrivata alla sua terza opera, Zhao prende spunto dal romanzo omonimo di Jessica Bruder per raccontare l’esistenza di una donna rimasta sola, che potrebbe trovare proprio nel contatto con altri “nomadi” come lei una nuova ragione di vita. Ci sono echi che possono far venire in mente Christopher McCandless (figura raccontata in Into the Wild), ma ancor di più la beat generation di Jack Kerouac in questo film “on the road” in cui ciò che più conta è proprio la strada. Di avere un notevole talento nel gestire immagini e suoni, Zhao l’aveva già dimostrato, ma in questo caso raggiunge davvero una piena maturità con un’opera profonda e raffinata, tanto nella narrazione quanto nello stile audiovisivo. Sfruttando le belle note di Ludovico Einaudi (anche fin troppo invasivo nel corso della pellicola), la regista dà vita a un’opera sinuosa e suggestiva, un’elegia lirica dedicata agli outsider d’America. Tra i tantissimi premi vinti, oltre al Leone d'oro alla Mostra del Cinema di Venezia 2020, il premio del pubblico al Festival di Toronto e tre premi Oscar: miglior film, miglior regista e miglior attrice protagonista.

8) Joker di Todd Phillips (2019)



Gettati i panni da commediografo (un po' come farà il protagonista del suo film), Todd Phillips si cimenta con il cinecomic, raccontando la genesi del celebre villain della DC Comics attraverso una prospettiva autonoma che non si collega a nessun altro film di supereroi precedentemente realizzato. Lontano anni luce dalle innumerevoli trasposizioni sul grande schermo di fumetti, albi e graphic novel di ogni tipo, questo Joker non è altro che un viaggio negli abissi della psiche umana, un action per il grande pubblico che dietro la maschera (è proprio il caso di dirlo) nasconde una operazione di taglio autoriale che riesce nel non facile compito di aderire ai codici di genere trasfigurandoli attraverso una prospettiva per molti versi inedita. Attingendo a piene mani al cinema di rottura americano degli anni ’70 e, in particolare, al sentimento di disillusione alla base del cinema della New Hollywood, il film destabilizza, con inesorabile progressione drammatica, mantenendo sempre perfettamente il focus sul suo debordante protagonista, reietto senza via d’uscita, escluso da ogni forma di relazione sociale in un mondo di lupi famelici. La si può definire una parabola sul degrado morale della società contemporanea, ferita nel profondo dalle atroci derive di dinamiche capitalistiche fuori controllo (significativo, in questo senso, l’occhio poco accomodante con cui è presentata la figura del magnate Thomas Wayne, padre di Bruce), ma anche un neo-noir che segue il percorso esistenziale del protagonista attraverso tappe cruciali costruite secondo un climax narrativo di rara efficacia. Gotham City perde sia l’aura gotica di Tim Burton, sia la geometrica impostazione proposta da Christopher Nolan, per diventare una metropoli multirazziale sporca e cattiva, i cui abitanti sono consapevoli di vivere in un’epoca in cui a dominare sono la cieca violenza, l’intolleranza, il rifiuto di sostegno al diverso, il pregiudizio, l’alienazione e l’incomunicabilità. Oscar e Golden Globe a Joaquin Phoenix, assolutamente memorabile.

7) Il cerchio di Jafar Panahi (2000)


Dopo aver filtrato la realtà del suo Paese attraverso lo sguardo dei bambini nei suoi primi due film Il palloncino rosso (1995) e Lo specchio (1997), Jafar Panahi rivolge l'attenzione sul mondo femminile, raccontando con forza e grande sensibilità la triste condizione della donna sotto il regime teocratico iraniano. Scivolando da un episodio all'altro (e cambiando stile e mezzi di ripresa), il regista restituisce un ritratto di sorprendente autenticità, che intenerisce, indigna e commuove. Cinema intimista e politico in grado di elevare il minimalismo estetico a specchio del reale e la denuncia sociale ad arte pura, è il film-svolta della carriera di Panahi: da una parte arriva la definitiva consacrazione critica con il Leone d'oro (più altri riconoscimenti collaterali) alla Mostra del Cinema di Venezia, dall'altra inizia la guerra con il governo di Teheran, che proibisce il film in patria. A parte Fereshteh Sadre Orafaiy e Fatemeh Naghavi, le attrici sono non professioniste. Tutte incredibilmente straordinarie. Imperdibile.

6) The Wrestler di Darren Aronofsky (2008)



«Molte persone mi hanno detto che non avrei più potuto combattere, ma non so fare altro». Diretto da Darren Aronofsky e scritto da Robert D. Siegel, The Wrestler regala la grottesca e memorabile maschera di un perdente da manuale che, incapace di affrontare la realtà, preferisce rifugiarsi in un mondo fittizio, accettando scientemente le tragiche conseguenze delle sue scelte. La scarsa convinzione dell'utopico riscatto impedisce ogni reale cambiamento: immolatosi alla legge dello spettacolo, Randy chiuderà coerentemente il sipario sul palcoscenico, quel ring a cui ha dato tutto. Caratterizzato da una messa in scena viscerale e nervosa, il film procede con una traiettoria coerente e lineare fino allo straordinario finale, in cui l'annientato protagonista viene acclamato dalla folla sulle note di Sweet Child O' Mine dei Guns N' Roses. Indimenticabile interpretazione di Mickey Rourke, che torna sul set con un ruolo ambiguamente autobiografico. Musiche di Clint Mansell, fotografia di Maryse Alberti. Cinema emozionante e intimamente spettacolare, da vedere e rivedere.

5) Still Life di Jia Zhang-ke (2006)



Jia Zhang-ke, ancora una volta, si immerge a capofitto nel tessuto della Cina d'inizio nuovo millennio, ma in questo caso i toni sono smaccatamente elegiaci e la disperazione del paesaggio e dell'ambientazione, in cui le case spariscono sotto il peso dell'urbanizzazione selvaggia (la costruzione della diga delle Tre Gole, nella fattispecie), va di pari passo con l'indefinitezza emotiva ed esistenziale dei personaggi che quegli spazi selvaggi e prorompenti li abitano e li riempiono, loro malgrado. Un grande film, quieto e pacificato, che poggia però su contrasti profondi: la limpidezza poetica dello stile dell'autore cinese, che fa leva su immagini fortissime e pochissimi dialoghi, si sposa alla perfezione con una pellicola in cui la stasi è una condizione non solo dell'anima ma anche dei luoghi fisici e dei grandi poteri, che non si vedono e che continuano a dettare le sorti di tutti nell'invisibilità, protraendo all'infinito il proprio operato da sanguisughe («Abbattendo i palazzi si guadagna bene»). Primo film del regista a godere del nulla osta del governo cinese, dopo che molti dei suoi lavori avevano subito la netta opposizione delle massime autorità del Paese.

4) Il ritorno di Andrey Zvyagintsev (2003)



Film d'esordio per il cineasta russo Andrey Zvyagintsev: opera ambiziosa intrisa di simbolismo, in cui l'azione e i dialoghi sono ridotti ai minimi termini e a parlare sono prevalentemente le immagini. Un viaggio metaforico nei meandri dell'animo umano, nella solitudine e nella profonda inquietudine di due ragazzi abbandonati a loro stessi e di un genitore inadatto al ruolo, scostante e scontroso, egoista e prepotente. Tre personaggi difficili, contraddittori e irrequieti ma accomunati da un bisogno d'amore, che manifestano dando sfogo alla propria aggressività repressa e alle proprie frustrazioni. Emerge così il ritratto di un'umanità ferita e feroce, spaventata e confusa, destinata a vagare smarrita tra gli spazi spogli di un universo lugubre (i cui tratti decadenti sono sottolineati dall'aridità dell'ambiente e dall'uso di una fotografia dai toni foschi e plumbei) che amplificano il senso di vuoto e disagio interiore dei protagonisti, osservati con indifferenza da una natura fredda e spietata. Suggestivo e ostico, metafisico e struggente, un film di grande impatto espressivo ed emozionale che lascia il segno. Poco prima del debutto della pellicola nelle sale, l'attore sedicenne Vladimir Garin è morto accidentalmente affogando proprio in un lago che era stato utilizzato per le riprese del film, nei pressi del villaggio di Sosnovo.

3) I segreti di Brokeback Mountain di Ang Lee (2005)


Wyoming, 1963. I due giovani cowboy Ennis Del Mar e Jack Twist scoprono l'amore tra le nevi di Brokeback Mountain, ma soffocano i loro sentimenti per timore dei pregiudizi. Entrambi si sposano ma, ritrovatisi anni dopo, avviano una tormentata relazione clandestina. Dopo il successo commerciale di La tigre e il dragone (2000) e la parentesi blockbuster di Hulk (2003), il cinema cangiante e raffinato di Ang Lee cerca di rinnovarsi nuovamente con l'adattamento del racconto di Annie Proulx, Gente del Wyoming (1997). Il vero punto di forza, curiosamente, non è il pur innegabile coraggio con cui l'omosessualità è associata a un classico simbolo virile come la figura del cowboy, quanto la capacità di raccontare senza stereotipi né retorica una storia d'amore che è prima di tutto universale. Passione, tenerezza, dolore, lutto: nello struggente dramma che è sicuramente tra le grandi opere del regista taiwanese, ogni singolo frame è un'emozione pura, incarnata alla perfezione dai due bravissimi Heath Ledger e Jake Gyllenhaal. Puntuale nel descrivere l'atmosfera bigotta dell'epoca, senza forzare mai la mano e facendo tesoro della grande tradizione mélo degli anni '50 e '60. Un'opera di dolente intensità, che affrontando controcorrente il sottotesto di uno dei generi fondativi dell'epica yankee, il western, diventa uno dei film americani più importanti del nuovo millennio. Tre Oscar (regia, sceneggiatura non originale di Larry McMurtry e Diana Ossana, colonna sonora di Gustavo Santaolalla). L'avrebbe meritato anche l'eccezionale fotografia di Rodrigo Prieto. Meraviglioso.

2) Roma di Alfonso Cuarón (2018)



Attraverso la parabola di Cleo (splendidamente interpretata da Yalitza Aparicio), il regista messicano costruisce una metafora cinica e severa della sua terra natia, intrecciando costantemente il dramma familiare con quello di un'intera nazione attraverso inquadrature di rara bellezza cinematografica, basate sulla profondità di campo e sull'utilizzo di piani-sequenza in grado di avvolgere totalmente lo sguardo dello spettatore per immergerlo in una realtà invadente che dalla lontananza riesce comunque sempre a farsi presente. Il Messico di Cuarón sembra destinato a un degrado di violenza e abusi dai quali sarà impossibile fuggire (come simboleggia la costante presenza di un volo di linea tanto desiderato quanto utopico da prendere) e dal quale persino le generazioni future non sembrano poter trovare giovamento (il simbolo di un Paese nato morto è piuttosto esplicito nella sequenza del parto). Roma si presenta quindi come un grido di emergenza tanto straziato quanto sordo, un'opera fortemente voluta (oltre che regista, Cuarón veste anche i panni di sceneggiatore, montatore, produttore e direttore della fotografia) con la quale l'autore vuole provare a fare ordine all'interno della sua variegata carriera per riscoprirsi e reinventarsi in panni ancora migliori. Tre Oscar: miglior regia, miglior fotografia e miglior film straniero. Imperdibile.

1) Faust di Alexandr Sokurov (2011)



Ultima parte della tetralogia di Sokurov dedicata alla natura del potere. Dopo Hitler (Moloch del 1999), Lenin (Taurus del 2000) e Hirohito (Il sole del 2005), il regista russo sceglie un personaggio letterario per proseguire la sua indagine sull'animo umano alle prese con gli ostacoli che la realtà (quotidiana e storica) impone all'esercizio dell'autorità e ai desideri personali. In questo caso, Faust incarna la volontà di controllo dell'intelletto attraverso una smania di conoscenza che appare implacabile, come dimostra il vagare senza sosta del protagonista (seguito da una mobilissima macchina da presa), ma che deve fare i conti con i limiti della natura umana (di cui vengono accentuati i tratti più brutali e animaleschi) e con un'infelicità che appare conseguenza ineludibile di ciascun processo di apprendimento, in quanto presa di coscienza della finitezza dell'essere umano, in barba alle sue più smisurate ambizioni. Un'opera complessa e spiazzante, di altissimo profilo intellettuale. Un'esperienza di visione claustrofobica e logorante, scandita da fascinazione e disgusto per un creato di cui non si riescono a cogliere tutte le molteplici sfaccettature. Cinema intellettuale al massimo livello. Strepitosa fotografia di Bruno Delbonnel.

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