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Da Amleto a Roma, 10 indimenticabili Leoni d'oro alla Mostra del Cinema di Venezia

Senza alcun dubbio, la storia della Settima arte passa anche dai film premiati alla Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, la manifestazione di cinema più antica al mondo, dopo gli Oscar. Un festival unico e irripetibile, che ha sempre conservato nel corso degli anni un fascino senza eguali, la cui eccellenza si rispecchia nell'altissimo livello di gran parte dei film a cui è stato attribuito il massimo riconoscimento, ovvero il Leone d'oro.

Ecco un viaggio attraverso dieci indimenticabili Leoni d'oro della storia della Mostra del Cinema di Venezia:

Amleto (Laurence Olivier, 1948)



L'adattamento per lo schermo che Laurence Olivier confeziona della più lunga (e forse più famosa) tragedia di Shakespeare è una specie di standard per classicità e qualità delle interpretazioni, che colpisce soprattutto per la maturità cinematografica con cui il regista affronta il testo, ad esempio rendendo parte dei monologhi con la voce fuori campo, così da rimarcare la distanza dal palcoscenico nel momento stesso in cui la centralità della parola viene riaffermata proprio slegandola dall'azione. Le atmosfere decadenti e morbose, peraltro ottenute girando davvero ad Elsinore, contribuiscono a una tensione strisciante e continua, nella quale le (poche) esplosioni di rabbia e violenza sembrano davvero il disperato tentativo di dare una forma ai tormenti dell'anima. Alla stessa stregua, sono tutte funzionali le invenzioni di regia: controluce, inquadrature fuori fuoco, mascherine e sovraimpressioni. Memorabile, per asciuttezza e virtuosismo, la scena finale nella quale, con raccordi invisibili, la morte del principe, che solo nel decesso siede sul trono, si lega al corteo funebre che ne trasporta il corpo sulla torre del castello. Quattro Oscar (film, attore protagonista, scenografia e costumi). Leone d'oro, Premio internazionale per la migliore fotografia (Desmond Dickinson) e Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile (Jean Simmons) alla Mostra del Cinema di Venezia. Indimenticabile.


Rashōmon (Akira Kurosawa, 1950)



«Bugie, non hanno detto che bugie, tutti quanti». Akira Kurosawa adatta (con la collaborazione di Shinobu Hashimoto) due racconti dello scrittore Ryunosuke Akutagawa, Rashōmon e Nel bosco, realizzando un'opera che contribuirà a rivelare il suo genio e a lanciarlo nel panorama cinematografico internazionale. Magistralmente definito da una struttura a flashback (i testimoni evocano i tre indagati, che a loro volta esprimono il proprio punto di vista sulla vicenda), il film stigmatizza l'impossibilità di giungere a una verità definitiva, operando su due livelli: l'inadeguatezza morale di un'umanità condannata al caos e il paradosso della prospettiva filmica, con una messinscena che instilla il dubbio dell'inganno su un delitto tanto feroce quanto gratuito, operando minime variazioni nei movimenti della macchina da presa (ed evitando, ambiguamente e intelligentemente, riprese in soggettiva). Il risultato è uno splendido apologo sui limiti e le contraddizioni della coscienza, attraversato da linee geometriche essenziali che caratterizzano le immagini (tentando di mettere ordine nei convulsi drammi esistenziali) e da una sotterranea simbologia sessuale (il pugnale che cade a terra conficcandosi nel terreno, scoperta metafora di un desiderio destinato a esplodere prepotente). Un capolavoro assoluto capace di toccare vertici di pessimismo universale, con un finale catartico che, come spesso accade in Kurosawa, riesce miracolosamente a restituire fiducia in un mondo ormai contaminato dall'ipocrisia e dall'opportunismo. Oscar come miglior film straniero.


Ordet (Carl Theodor Dreyer, 1955)



Il capolavoro assoluto di Carl Theodor Dreyer, tratto da un'opera teatrale del pastore protestante Kaj Munk, è uno dei risultati artistici più alti di tutto il '900, autentica vetta cinematografica ineguagliata e ineguagliabile. Nessun altro film nella storia del cinema è mai riuscito a mettere in scena il tema delle fede con la stessa radicale intensità. Per Dreyer la fede è una componente imprescindibile della condizione umana e, come tale, non può essere ridotta a sterile computo di norme e precetti o a disputa teologica: la Parola di fede è vita, è carne ed è corpo. Ogni personaggio della pellicola vive la fede religiosa in modo diverso, ed è significativo che ispiratori della risurrezione finale, una delle sequenze più belle e importanti del cinema di tutti i tempi, siano un folle e una bambina. Memorabile anche sul piano formale, ispirato a un quintessenziale utilizzo dello spazio in cui la macchina da presa si muove con magistrale compostezza. Austero, solenne, indimenticabile.


L'anno scorso a Marienbad (Alain Resnais, 1961)



Dopo aver esordito nel cinema di finzione con il capolavoro Hiroshima mon amour (1959), Alain Resnais prosegue nella sua personale rivoluzione del linguaggio della settima arte, portando le sue sperimentazioni a un livello ancor più alto e complesso. L'albergo di Marienbad, non a caso un hotel-labirinto, è l'unico punto di appoggio concreto di un percorso narrativo che si muove tra diversi passaggi temporali e, perfino, spaziali. Con un taglio di forte impronta modernista, Resnais mescola fantasia, sogno e realtà, in un racconto metafisico dai toni ambigui, che vede protagonisti tre personaggi contrassegnati da una lettera, simbolo della loro confusione identitaria: lei è A (Delphine Seyrig), il marito è M (Sacha Pitoëff), ma la vera incognita è X (Giorgio Albertazzi), io narrante e ospite indesiderato che si mette in mezzo alla coppia sposata. E, allo stesso modo, il tempo di cui parla è un'altra incognita come lui: quell'“anno scorso” è un tempo indefinito, che può rappresentare tutti gli anni passati e, forse, anche quelli a venire. La sceneggiatura e i dialoghi di Alain Robbe-Grillet (massimo teorico del Nouveau Roman), ispirati al romanzo L'invenzione di Morel di Adolfo Bioy Casares, vengono riletti a proprio piacimento dalla cinepresa del regista, che, incessante, cerca di svelare il mistero che si annida in quel luogo, in quelle statue, in quei corridoi e in quel giardino. Splendida fotografia di Sacha Vierny. Un Leone d'oro che ha segnato la storia.


La battaglia di Algeri (Gillo Pontecorvo, 1966)



Gillo Pontecorvo racconta la guerra d'indipendenza algerina con uno stile sobrio, secco e cronachistico: la messa in scena, dall'evidente taglio documentaristico, privilegia l'uso della camera a mano e punta su una fotografia sgranata che rimanda ai reportage televisivi, valorizzata da teleobiettivi a focali lunghe (mantenendo dunque una certa distanza da ciò che viene ripreso) e da commenti fuori campo (alternando i dispacci del Front de Libération Nationale e delle disposizioni della prefettura algerina) uniti a sovrimpressioni che scandiscono date ed eventi, accompagnando costantemente la narrazione come in un cinegiornale. Il naturalismo della confezione è poi ulteriormente accentuato dalla scelta di utilizzare quasi esclusivamente attori non professionisti (a cominciare dal protagonista, un contadino analfabeta), spesso coinvolti in prima persona negli eventi bellici, e di girare nella casbah e nelle vie di Algeri, senza alcuna ricostruzione in studio. Una pellicola assolutamente memorabile, che illustra con imparzialità le atrocità della guerra senza censurare la cieca violenza che accomuna i due fronti della battaglia. Tre nomination all'Oscar (miglior film straniero, miglior regia, miglior sceneggiatura) ed enorme successo internazionale, ma anche grandi polemiche, soprattutto in Francia dove il film fu vietato fino al 1971. Splendida colonna sonora di Ennio Morricone, firmata in collaborazione con lo stesso Pontecorvo.


Bella di giorno (Luis Buñuel, 1967)

 

Da un romanzo di Joseph Kessel, poco amato e quindi profondamente alterato nella trasposizione filmica, Luis Buñuel ha tratto il lungometraggio che forse più di tutti lo ha fatto conoscere al grande pubblico. La vicenda di Sèverine, una delle tante donne che popolano il cinema del maestro surrealista, nella sua cristallina linearità è un affilato j'accuse contro l'ipocrisia borghese: nel suo personaggio si condensa un substrato onirico che, sin dallo straordinario incipit, delinea il profilo della sua identità sociale e sessuale. I momenti dotati di maggiore carica perturbante sono quelli in cui Sèverine vive i suoi sogni, dando corpo a pulsioni represse, desideri inconsci, parafilie e feticismi; altrove, nella algida sterilità della vita reale, il represso affiora, come sempre in Buñuel, solo attraverso incidenti o lapsus. I due piani si confondono nel finale, quando la protagonista, compiuto il percorso di esplorazione della sua sessualità, si scopre capace di dominare suo marito. Storico Leone d'oro, assegnato dalla giuria presieduta da Alberto Moravia. Indimenticabile Catherine Deneuve protagonista.


Città dolente (Hou Hsiao-hsien, 1989)



Alla fine del conflitto del 1945 e una volta sbarazzatasi dei giapponesi che l'avevano invasa durante la Seconda guerra mondiale, l'isola di Taiwan è diventata sede di un governo indipendente dalla forte identità nazionale. Un'opera dal respiro singolare, più unico che raro, assai ricca e sfaccettata a livello storico, politico e antropologico, che si regge magnificamente sulla straordinaria composizione dell'immagine che distingue il cinema di Hou Hsiao-hsien. Un complesso omaggio all'epica nazionalistica, a prima vista impenetrabile, che assume in realtà i tratti di un racconto limpido e cristallino, contrassegnato da numerosi livelli di lettura. Eccellente è poi il modo in cui Hou Hsiao-hsien riesce a far dialogare particolare e universale, costruendo una storia a misura di individuo, dove la storia dei personaggi si muove all'interno e nell'ombra della Storia con la S maiuscola. La delicatezza dello sguardo del regista di rado ha raggiunto una compostezza così alta, interiore, e pertinente, arrivando a toccare apici di bellezza che, lentamente e progressivamente, trascendono nella pura meraviglia.


America oggi (Robert Altman, 1993)



Nove storie si intrecciano tra loro in quel di Los Angeles, seguendo il canovaccio di altrettanti racconti dello scrittore Raymond Carver, esponente del minimalismo. Robert Altman torna all'amato ritratto corale, aggiornando la sua idea di cinema agli anni '90 e al loro coacervo di follie e psicofarmaci, di eccessi e personaggi sull'orlo di una crisi di nervi e di un big bang esistenziale. Ventidue attori gravitano attorno a una tappa fondamentale nella storia del cinema americano del decennio: ciò che impressiona, è la capacità del regista e dell'autore letterario di costruire storie magnifiche e dinamitarde a partire da dettagli apparentemente insignificanti. Con cattiveria e con un cinismo mai programmatico nonostante l'insistenza e le tre ore di durata, peraltro magistralmente dosate dal punto di vista narrativo, Altman mostra in maniera impietosa le ceneri dello yuppismo e la sua perversa ontologia, capace di corrodere anche la borghesia più spiantata e le sue false aspirazioni. Un film, a tutti gli effetti, su un morbo antropologico e sulla sua demoralizzante ineluttabilità. Clamoroso successo alla Mostra del Cinema di Venezia: Leone d'oro ex-aequo con Tre colori – Film blu (1993) di Krzysztof Kieślowski, Premio FIPRESCI, Premio Pasinetti e meritatissima Coppa Volpi collettiva all'intero cast.


Faust (Alexandr Sokurov, 2011)



Ultima parte della tetralogia di Sokurov dedicata alla natura del potere. Dopo Hitler (Moloch del 1999), Lenin (Taurus del 2000) e Hirohito (Il sole del 2005), il regista russo sceglie un personaggio letterario per proseguire la sua indagine sull'animo umano alle prese con gli ostacoli che la realtà (quotidiana e storica) impone all'esercizio dell'autorità e ai desideri personali. In questo caso, Faust incarna la volontà di controllo dell'intelletto attraverso una smania di conoscenza che appare implacabile, come dimostra il vagare senza sosta del protagonista (seguito da una mobilissima macchina da presa), ma che deve fare i conti con i limiti della natura umana (di cui vengono accentuati i tratti più brutali e animaleschi) e con un'infelicità che appare conseguenza ineludibile di ciascun processo di apprendimento, in quanto presa di coscienza della finitezza dell'essere umano, in barba alle sue più smisurate ambizioni. Un'opera complessa e spiazzante, di altissimo profilo intellettuale. Un'esperienza di visione claustrofobica e logorante, scandita da fascinazione e disgusto per un creato di cui non si riescono a cogliere tutte le molteplici sfaccettature. Decisamente non per tutti. Strepitosa fotografia di Bruno Delbonnel.


Roma (Alfonso Cuarón, 2018)



Attraverso la parabola di Cleo (splendidamente interpretata da Yalitza Aparicio), il regista messicano costruisce una metafora cinica e severa della sua terra natia, intrecciando costantemente il dramma familiare con quello di un'intera nazione attraverso inquadrature di rara bellezza cinematografica, basate sulla profondità di campo e sull'utilizzo di piani-sequenza in grado di avvolgere totalmente lo sguardo dello spettatore per immergerlo in una realtà invadente che dalla lontananza riesce comunque sempre a farsi presente. Il Messico di Cuarón sembra destinato a un degrado di violenza e abusi dai quali sarà impossibile fuggire (come simboleggia la costante presenza di un volo di linea tanto desiderato quanto utopico da prendere) e dal quale persino le generazioni future non sembrano poter trovare giovamento (il simbolo di un Paese nato morto è piuttosto esplicito nella sequenza del parto). Roma si presenta quindi come un grido di emergenza tanto straziato quanto sordo, un'opera fortemente voluta (oltre che regista, Cuarón veste anche i panni di sceneggiatore, montatore, produttore e direttore della fotografia) con la quale l'autore vuole provare a fare ordine all'interno della sua variegata carriera per riscoprirsi e reinventarsi in panni ancora migliori. Tre Oscar: miglior regia, miglior fotografia e miglior film straniero. Imperdibile.

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