«La commedia all'italiana è questo: trattare con termini comici, divertenti, ironici, umoristici degli argomenti che sono invece drammatici. È questo che distingue la commedia all'italiana da tutte le altre commedie.» (Mario Monicelli)
Commedia all'italiana: il macrogenere che si impone tra la fine degli anni Cinquanta e l'inizio dei Sessanta come simbolo di un Paese in pieno fermento grazie al boom economico, con il rifiuto dell'indigenza che aveva fatto da sfondo al Neorealismo e, soprattutto, la scelta di mettere al centro della narrazione antieroi specializzati nell'arte dell'arrangiarsi. Caustica, cinica, irriverente e amara, la commedia all'italiana appare come lo specchio deformante (ma non troppo) della società del periodo, concetto veicolato da figure che incarnano vizi (molti) e virtù (poche) dell'italiano medio. Grazie a loro il cinema italiano del periodo ha potuto parlare del mutamento radicale della mentalità e dei costumi nazionali, rendendo immortali opere e momenti. Di seguito, 10 personaggi indimenticabili della commedia all'italiana.
Dante Cruciani ne I soliti ignoti (1958)
Non si tratta di una semplice parodia italiana dei caper movie (sottogenere del thriller in cui una banda compie un grosso colpo criminale), ma di un film epocale: grazie a I soliti ignoti si sviluppa prepotentemente in Italia un nuovo genere cinematografico che, da lì a pochi anni, renderà alcuni nostri cineasti famosi in tutto il mondo. Cast stellare in cui spicca Totò alias Dante Cruciani, esperto scassinatore riciclatosi consulente che istruisce i nostri su come articolare un colpo al Monte di Pietà. Un ruolo ancor più significativo perché simbolo di un passaggio tra generazioni di attori a confronto.
Oreste Jacovacci ne La grande guerra (1959)
Mario Monicelli ambienta la già collaudata commedia nazionale durante un evento/periodo storico passato: un'idea destinata a diventare un marchio di fabbrica del cinema italiano negli anni a venire. Scontro titanico tra gli straordinari interpreti Vittorio Gassman e Alberto Sordi, in cui il secondo, nei panni del pigro e indolente Oreste Jacovacci, arriva a dominare la scena con una prova memorabilmente in sottrazione coronata dall'indimenticabile sequenza finale: «Io non so niente, non so niente, io stavo alla sanità, non so niente, a noi soldati non ci dicono mai niente! Io non so niente, se lo sapessi ve lo direi, io sono un vigliacco!»
Ferdinando Cefalù in Divorzio all'italiana (1961)
Svolta improvvisa nella carriera di Pietro Germi, che passa dal dramma alla commedia firmando uno titoli di riferimento dell'intero genere. Strepitoso e graffiante atto d'accusa contro una società italiana ipocrita e arcaica, ancorata a modelli culturali e sociali ormai vetusti e anacronistici, con il barone Ferdinando Cefalù detto Fefè (interpretato da uno strepitoso Marcello Mastroianni), che decide di invocare il delitto d'onore per liberarsi della moglie e avere campo libero con la giovane amante, a incarnare il microcosmo di Argamonte, emblema grottesco di una nazione conformista e cinica in cui il tornaconto personale e l'idea di rispettabilità vanno salvaguardate a ogni costo.
Bruno Cortona ne Il sorpasso (1962)
Forse la commedia all'italiana più celebre e iconica di sempre, come iconico è il suo protagonista Bruno Cortona, simbolo di una società ormai preda di un benessere inarrestabile e sferzante che non permette alcun rallentamento. Attempato sciupafemmine votato al presente e intento a vivere senza rimpianti una bella esistenza fatta di contraddizioni e problemi, esempio negativo, arricchito, senza valori ma dotato di faccia tosta e sempre abilissimo nell'arte di sapersi arrangiare, Cortona è incarnato con maestria da Vittorio Gassman, mai così spassoso nel dar vita a un fastidioso e superficiale gigione, in un ruolo tra i più significativi della sua straordinaria carriera.
Marino Balestrini e Umberto Ciceri in Straziami, ma di baci saziami (1968)
Gli stilemi tipici dell'immaginario popolare da fotoromanzo (il colpo di fulmine, il sentimento travagliato, la fuga dell'amata e l'inseguimento contrastato da un fato avverso) codificati da Dino Risi in questa commedia che deve il titolo a Creola, tango anni Venti composto da Luigi Miaglia, e l'esilarante risultato finale alle interpretazioni dei due protagonisti: Nino Manfredi/Marino Balestrini e Ugo Tognazzi/Umberto Ciceri, il primo barbiere alla pittoresca ricerca del perduto amore, il secondo sarto sordomuto modellato su Harpo Marx. Da antologia.
Giulio Basletti in Romanzo popolare (1974)
Raramente commedia e dramma popolare hanno trovato un così perfetto equilibrio nella filmografia di Mario Monicelli. A dare una marcia in più la prova di Ugo Tognazzi nel ruolo di Giulio Basletti, lavoratore milanese cinquantenne devoto alla causa operaia («Lo sai che quando un operaio vede il fumo della fabbrica è come un bambino davanti a un panettone?»), follemente innamorato della giovane consorte, apparentemente moderno e progressista ma in realtà ancorato a una visione dell'universo femminile che lo condannerà a una malinconica solitudine.
Raffaello Mascetti in Amici miei (1975)
Uno degli ultimi rantoli della commedia all'italiana, Amici miei è un corale, goliardico e cameratesco manifesto sull'amicizia, sentimento che nasce sin dai titoli di testa in cui il regista Monicelli cita e omaggia l'amico Pietro Germi, prematuramente scomparso e a cui apparteneva inizialmente il progetto che doveva essere ambientato a Bologna. E ancora una volta è Ugo Tognazzi a rivelarsi il cuore pulsante di un film che nasconde un'umanità spaventata e fragile, sconvolta dagli anni di piombo e avvilita dai propri fallimenti personali: Raffaello Mascetti, conte caduto in disgrazia, bisognoso, orgoglioso, generoso. Entrate nell'immaginario collettivo le sue supercazzole («Antani, blinda la supercazzola prematurata con doppio scappellamento a destra?»)
Giacinto Mazzatella in Brutti, sporchi e cattivi (1976)
Amarissima e grottesca commedia all'italiana diretta da Ettore Scola, che tinge la macchina da presa di rigido realismo e verismo, non rinunciando a una contaminazione caricaturale e deformante. Nulla viene risparmiato: mutilazioni, sesso, turpiloquio, violenze. Al centro del degrado, e principale propulsore di esso, Nino Manfredi alias Giacinto Mazzatella, emigrato pugliese stanziato in una sudicia baraccopoli con la moglie e i numerosi figli, gretto antieroe chiuso nel suo cinico egoismo che regala una sequenza da antologia: lo scampato avvelenamento dovuto a un piatto di maccheroni conditi con veleno per topi.
Giovan Maria Catalan Belmonte ne I nuovi mostri (1977)
Dopo I mostri (1963), un nuovo collage su vizi e miserie nazionali in cui, in virtù della maggiore durata dei singoli episodi, emergono caratterizzazioni più approfondite e ficcanti. Tra queste, a colpire e stupire, il Giovan Maria Catalan Belmonte di Alberto Sordi, “cavalier preposto al Soglio Pontificio”, nobile debosciato e vizioso alle prese con un pedone investito che viene respinto da ogni ospedale. Semplicemente esilaranti i vari monologhi: «Feci il navigatore solitario. Giorno e notte, fra cielo e mare, mare e cielo. In questa natura, padrone del mondo. Lei non sa cosa vuol dire il navigatore solitario. Solo, nell'immensità del mare, in assoluta meditazione, a contatto della natura più pura, è allora che capisci... quanto sei stronzo, a compiere queste imprese, che non servono a un cazzo.»
Antonio Barozzi in Sono fotogenico (1980)
Canto del cigno per la commedia all'italiana, con Dino Risi che regala un ritratto al vetriolo della fabbrica dei sogni cinematografica, quasi a chiudere un percorso autoriale virato al genere. Ingenuo, sognatore, quasi una sorta di novello Candide, l'Antonio Barozzi di un Renato Pozzetto perfettamente in parte è calzante nel far emergere per contrasto le meschinità del business di celluloide, esaltando l'amarezza e la bruciante delusione per un contesto che di idilliaco non ha più nulla.