Gli anni '90 sono stati un periodo molto florido per le commedie romantiche, in un decennio che ha aperto con un titolo celeberrimo come Pretty Woman, che ha impresso nella memoria collettiva Richard Gere e Julia Roberts come coppia di innamorati sul grande schermo. Il film di Garry Marshall festeggia il 30° anniversario dall'uscita nelle sale americane, ecco l'occasione giusta per le 25 commedie romantiche più significative dal 1990 al 2000.
Pretty Woman (Garry Marshall, 1990)
La riproposizione in stile postmoderno di una fiaba a lieto fine colpisce nel segno e alcune sequenze risultano quasi irresistibili (Vivian che chiede aiuto al direttore d'albergo Barney Thompson, interpretato da Hector Elizondo, per imparare il galateo a tavola). Richard Gere, novello principe azzurro accessoriato di cravatta e limousine, è decisamente affascinante.
Ghost – Fantasma (Jerry Zucker, 1990)
Commedia romantica a tinte fosche diretta da Jerry Zucker, al suo esordio in solitaria dietro la macchina da presa senza il fratello David. Pellicola che ha definitivamente consacrato Demi Moore, e che ha consentito anche a Whoopi Goldberg di aggiudicarsi una meritato Oscar come miglior attrice non protagonista (il film lo stesso anno si è aggiudicato anche la statuetta per la miglior sceneggiatura).
Green Card – Matrimonio di convenienza (Peter Weir, 1990)
Nonostante le buone interpretazioni di Andie MacDowell e Gérard Depardieu (che per questo ruolo ha anche ottenuto un Golden Globe), Green Card – Matrimonio di convenienza resta una commedia a tratti piacevole ma incapace di distaccarsi dall'infinita (e spesso indistinta) produzione del genere, vittima di un testo eccessivamente stucchevole. Weir, che registicamente latita, è autore anche del soggetto e della sceneggiatura originale, nominata agli Oscar.
Jungle Fever (Spike Lee, 1991)
Spike Lee sceglie la tematica sentimentale come ulteriore campo in cui indagare le tensioni razziali che attraversano la società americana. Preconcetti, stereotipi, religiosità fondamentalista (la moralistica maschera del “buon reverendo” Purify, interpretato da Ossie Davis, che dedica al figlio tossico e a quello in crisi matrimoniale lo stesso tranciante giudizio), gelosie, ghettizzazione, difficoltà di andare oltre l'esempio dei padri: la sceneggiatura, firmata dallo stesso regista, procede con brio e linearità narrativa attraverso dialoghi efficaci, ma il tutto risulta condito da troppa retorica per convincere fino in fondo.
Maledetto il giorno che t’ho incontrato (Carlo Verdone, 1992)
Una commedia romantica che racconta l'incontro tra due nevrotici con tocco leggero e sofisticato, dal ritmo sincopato e trascinante che guarda a Woody Allen. Carlo Verdone firma uno dei suoi film più riusciti, stemperando l'amarezza di fondo e declinando con affetto e brillante inventiva la storia di due disadattati che cercano di coesistere malgrado il loro carico di fobie e conflittualità latenti. Si incontrano, si vogliono bene, si lasciano, si ritrovano. Come accade nella vita.
Insonnia d’amore (Nora Ephron, 1993)
Una commedia sentimentale quasi morbosa e surreale, senza ritmo e con musiche e fotografia poco curate, dove la romantica storia d'amore non riesce a superare l'ostacolo della noia. Meg Ryan è la copia sbiadita di quella ammirata in Harry ti presento Sally (1989), e anche lo stesso Tom Hanks è lontanissimo dai suoi picchi.
Quattro matrimoni e un funerale (Mike Newell, 1994)
La delicata regia di Mike Newell al servizio di una commedia che ha ottenuto un clamoroso (quanto inaspettato) successo in patria e, successivamente, anche a livello internazionale. Frizzante, divertente e melensa al punto giusto, caratterizzata da uno humor fresco e incalzante che fa della convincente prova di Hugh Grant il proprio cavallo di battaglia.
La dea dell’amore (Woody Allen 1995)
Smorzando l'abituale pessimismo cosmico e manifestando un sano bisogno di legami affettivi (uno su tutti la paternità), Woody Allen si confronta ancora con se stesso improvvisandosi impacciato Pigmalione contemporaneo alle prese con scherzi del Fato, presagi di sventura e un sotterraneo peccato di Hýbris, che si sente in colpa per aver idealizzato la madre biologica di suo figlio dopo un momento di stallo nel rapporto con la moglie («Di tutte le umane debolezze l'ossessione è la più rischiosa. E la più stupida»).
Un amore tutto suo (Jon Turteltaub, 1995)
Una commedia piena di equivoci che riesce a non inciampare nelle pericolose trappole tese dagli stereotipi, che comunque sono sempre in agguato e di tanto in tanto non mancano di fare qualche sgambetto. Finale a parte, per certi versi inevitabile ma non per questo da assolvere, il film riesce qua e là ad appassionare soprattutto grazie al tono incalzante del racconto e a uno sviluppo della trama imprevedibile quanto basta per suscitare una dose minima di interesse.
Sabrina (Sydney Pollack, 1995)
Pollack dimostra un gran coraggio nel riadattare l'omonimo classico di Wilder del 1954, ma purtroppo i risultati non lo premiano. In questa riproposizione della medesima vicenda (che ricorda quella di Cenerentola), il regista sceglie un cast “sicuro” (Ford sembrerebbe un emulo perfetto e aggiornato di Bogart e la Ormond ha l'abilità di non imitare la Hepburn muovendosi con maggiore indipendenza), ma l'alchimia tra i protagonisti è debole e la commedia non vola mai troppo alto.
Il presidente – Una storia d’amore (Rob Reiner, 1995)
La pellicola di Rob Reiner è una commedia piacevole e leggera, ma non certo memorabile. La coppia Douglas-Bening è ben assortita, punte di diamante di un cast notevole (arricchito da nomi come Michael J.Fox e Martin Sheen), non sufficiente però rendere il film totalmente apprezzabile.
Swingers (Doug Liman, 1996)
Da un soggetto semplice e per nulla originale scritto da Jon Favreau, nel frangente anche protagonista oltre che sceneggiatore, il regista Doug Liman trae una frizzante commedia scandita dal ritmo dei dialoghi serrati e dalle vicende sentimentali di un gruppo di ragazzi in bilico tra spensieratezza giovanile e maturità dell'età adulta, condizioni rispettivamente rappresentate da Mike e Trent (un semi esordiente Vince Vaughn).
Tutti dicono I love you (Woody Allen, 1996)
Le coreografie minimali che accompagnano i brani di Dick Hyman scandiscono una vicenda esile, romantica, priva di velleità autoriali, e smorzano le abituali nevrosi alleniane per ricreare un'atmosfera fiabesca sospesa tra sogno e realtà. Il valzer dei sentimenti procede leggiadro, impalpabile, delizioso. Il siparietto musicale con gli spiriti dei defunti, l'omaggio ai fratelli Marx e il ballo romantico in riva alla Senna tra Woody Allen e Goldie Hawn sono autentiche chicche.
Un giorno... per caso (Michael Hoffman, 1996)
Lungi dall'essere una commedia (s)travolgente, Un giorno... per caso rientra di diritto nel calderone delle mediocri pellicole romantiche anni '90, che spesso avevano l'ambizione di rifarsi a nobili modelli di epoca classica. Leggera, prevedibile, ma tutto sommato godibile: merito soprattutto dei due interpreti, Michelle Pfeiffer e George Clooney, capaci di regalare brio a uno script altrimenti banale e zeppo di déjà-vu.
Qualcosa è cambiato (James L. Brooks, 1997)
Scritto in maniera lucida e intelligente, non solo serve su un piatto d'argento l'occasione per due performance attoriali da antologia (Jack Nicholson, in particolare, rende suo Melvin Udall riversando in esso molto di sé), ma ha un gusto e un equilibrio talmente delicati nei toni da renderlo il prodotto commercialmente (e furbescamente) perfetto. Numerose le scene memorabili, dal monologo sulle “ciambelle alla marinara” allo sfogo con la vicina di origini latine, dai siparietti col cagnolino Verdel fino alle istruzioni su come descrivere le donne.
Il matrimonio del mio migliore amico (P.J. Hogan, 1997)
Si viaggia a ridosso di un conflitto assai fecondo e stimolante, quello tra la futura moglie e la migliore amica innamorata in segreto, ma la scrittura è abilissima nell'evitare qualsiasi caratterizzazione stereotipica e nel mettere a fuoco un gioco delle parti nel quale, anche alla protagonista interpretata da Julia Roberts, non vengono risparmiate stoccate. Il film di Hogan è brillante, zeppo di gag e battute d'impatto e in grado di bucare l'immaginario collettivo.
C’è post@ per te (Nora Ephron, 1998)
La coppia Ryan-Hanks si riunisce cinque anni dopo Insonnia d'amore (1993) con risultati (nuovamente) infimi. Inizialmente dotato di buon ritmo, il film si perde nella vacuità delle sue situazioni, tra famiglie disastrate e malintesi sentimentali, mai realmente coinvolgenti e disegnati su misura per incontrare il gusto di tutti.
Racconto d’autunno (Eric Rohmer, 1998)
Un Rohmer conciliante (ma per nulla buonista) conclude nel migliore dei modi il ciclo dei Racconti delle quattro stagioni. Compendio vitale e spensierato di un'intera carriera, impeccabile nella sua geometrica costruzione narrativa, Racconto d'autunno racchiude tutte le innumerevoli sfaccettature del prisma cinematografico scolpito dal suo autore nel corso degli anni. Dialoghi semplici ma ricchi di significato, spontaneità dei gesti, regia invisibile, solitudine, caso, amicizia, amore, consapevolezza della maturità: tutto magicamente avvolto dalla leggerezza del vivere di uno sguardo rassicurante.
Notting Hill (Roger Michell, 1999)
Il copione di Curtis è abilissimo nel declinare il cuore dell'operazione nella maniera più vivace e coinvolgente possibile, lavorando sul romanticismo insito nella vicenda e sulla chimica tra i due protagonisti, uno sbadato Hugh Grant e una luminosa Julia Roberts al massimo del loro fascino e all'apice delle rispettive carriere, ma anche su una sequela elementare ma ben congegnata di gag e dialoghi brillanti, situazioni paradossali e umorismo in salsa british.
Un marito ideale (Oliver Parker, 1999)
La regia elegante e pacata di Oliver Parker si sposa bene con l'ambientazione vittoriana della pièce omonima di Oscar Wilde da cui il film è tratto, mettendo bene in luce i dialoghi brillanti e taglienti, oltre alla critica feroce alla società britannica (elemento tipico dell'opera del drammaturgo inglese). La trasposizione ha un ritmo costante e ben cadenzato, riuscendo a mantenere alta l'attenzione, per merito anche di un cast indovinato, con un Rupert Everett e una Julianne Moore in forma perfetta.
10 cose che odio di te (Gil Junger, 1999)
Riadattamento statunitense in chiave adolescenziale de La bisbetica domata di William Shakespeare, la commedia romantica di Gil Junger risulta abbastanza convincente, con un ritmo ben sostenuto e qualche scambio di sceneggiatura accattivante. I giovanissimi Heath Ledger e Joseph Gordon-Levitt sono il valore aggiunto di un lungometraggio che, senza i suoi protagonisti, risulterebbe banalotto, ma che grazie all'abilità degli interpreti riesce a non annoiare, con alcune sequenze addirittura apprezzabili.
Se scappi, ti sposo (Garry Marshall, 1999)
Squadra vincente non si cambia: è questo il pensiero di Garry Marshall, autore dello stesso Pretty Woman (1990) che fece di Julia Roberts e Richard Gere una delle coppie più amate del cinema leggero contemporaneo. Il risultato è però l'ennesima commedia romantica sulla contrapposizione (e il ribaltamento) dei sessi, secondo una tendenza abusata degli anni '90 che pare voler attualizzare la sophisticated comedy dell'epoca d'oro.
Chocolat (Lasse Hallström, 2000)
Anche se non originale, però, la storia di Vianne, “diabolica” ispiratrice di ossessioni al cacao, resta godibile, grazie anche ai simpatici personaggi di contorno: dal conte bacchettone che annega nel cioccolato, interpretato da Alfred Molina, alla nonna ribelle (una sempre gradevole Judy Dench) che ha rotto i rapporti con la figlia conservatrice, la lamentosa e segaligna Carrie-Ann Moss.
Pane e tulipani (Silvio Soldini, 2000)
Delicata commedia diretta da Silvio Soldini, anche sceneggiatore con Doriana Leondeff. Toni leggeri e sommessi, uniti a uno stile sobrio e lineare, per tratteggiare temi importanti quali la solitudine e l'emarginazione della donna all'interno del nucleo familiare: il regista sceglie di basare lo sviluppo narrativo sulle vicissitudini della sua protagonista, assumendone totalmente il punto di vista e seguendone la crescita esistenziale ed emozionale, con uno spessore inaspettato e insolito per il cinema italiano contemporaneo.
What Women Want – Quello che le donne vogliono (Nancy Meyers, 2000)
Un film che gioca sulle incomprensioni tra uomini e donne, cercando di far capire a un uomo quanto complesso possa essere l'universo femminile. Il taglio scelto da Nancy Mayers è sfacciatamente femminista: la donna manager viene giustificata nel suo fare aggressivo attraverso la nascosta fragilità di chi ha perso l'amore per sacrificarlo in nome del lavoro, mentre l'uomo spregiudicato non può far altro che cambiare il suo punto di vista, dovendo riconoscere la genialità e la sensibilità dell'altra metà del cielo.
Pretty Woman (Garry Marshall, 1990)
La riproposizione in stile postmoderno di una fiaba a lieto fine colpisce nel segno e alcune sequenze risultano quasi irresistibili (Vivian che chiede aiuto al direttore d'albergo Barney Thompson, interpretato da Hector Elizondo, per imparare il galateo a tavola). Richard Gere, novello principe azzurro accessoriato di cravatta e limousine, è decisamente affascinante.
Ghost – Fantasma (Jerry Zucker, 1990)
Commedia romantica a tinte fosche diretta da Jerry Zucker, al suo esordio in solitaria dietro la macchina da presa senza il fratello David. Pellicola che ha definitivamente consacrato Demi Moore, e che ha consentito anche a Whoopi Goldberg di aggiudicarsi una meritato Oscar come miglior attrice non protagonista (il film lo stesso anno si è aggiudicato anche la statuetta per la miglior sceneggiatura).
Green Card – Matrimonio di convenienza (Peter Weir, 1990)
Nonostante le buone interpretazioni di Andie MacDowell e Gérard Depardieu (che per questo ruolo ha anche ottenuto un Golden Globe), Green Card – Matrimonio di convenienza resta una commedia a tratti piacevole ma incapace di distaccarsi dall'infinita (e spesso indistinta) produzione del genere, vittima di un testo eccessivamente stucchevole. Weir, che registicamente latita, è autore anche del soggetto e della sceneggiatura originale, nominata agli Oscar.
Jungle Fever (Spike Lee, 1991)
Spike Lee sceglie la tematica sentimentale come ulteriore campo in cui indagare le tensioni razziali che attraversano la società americana. Preconcetti, stereotipi, religiosità fondamentalista (la moralistica maschera del “buon reverendo” Purify, interpretato da Ossie Davis, che dedica al figlio tossico e a quello in crisi matrimoniale lo stesso tranciante giudizio), gelosie, ghettizzazione, difficoltà di andare oltre l'esempio dei padri: la sceneggiatura, firmata dallo stesso regista, procede con brio e linearità narrativa attraverso dialoghi efficaci, ma il tutto risulta condito da troppa retorica per convincere fino in fondo.
Maledetto il giorno che t’ho incontrato (Carlo Verdone, 1992)
Una commedia romantica che racconta l'incontro tra due nevrotici con tocco leggero e sofisticato, dal ritmo sincopato e trascinante che guarda a Woody Allen. Carlo Verdone firma uno dei suoi film più riusciti, stemperando l'amarezza di fondo e declinando con affetto e brillante inventiva la storia di due disadattati che cercano di coesistere malgrado il loro carico di fobie e conflittualità latenti. Si incontrano, si vogliono bene, si lasciano, si ritrovano. Come accade nella vita.
Insonnia d’amore (Nora Ephron, 1993)
Una commedia sentimentale quasi morbosa e surreale, senza ritmo e con musiche e fotografia poco curate, dove la romantica storia d'amore non riesce a superare l'ostacolo della noia. Meg Ryan è la copia sbiadita di quella ammirata in Harry ti presento Sally (1989), e anche lo stesso Tom Hanks è lontanissimo dai suoi picchi.
Quattro matrimoni e un funerale (Mike Newell, 1994)
La delicata regia di Mike Newell al servizio di una commedia che ha ottenuto un clamoroso (quanto inaspettato) successo in patria e, successivamente, anche a livello internazionale. Frizzante, divertente e melensa al punto giusto, caratterizzata da uno humor fresco e incalzante che fa della convincente prova di Hugh Grant il proprio cavallo di battaglia.
La dea dell’amore (Woody Allen 1995)
Smorzando l'abituale pessimismo cosmico e manifestando un sano bisogno di legami affettivi (uno su tutti la paternità), Woody Allen si confronta ancora con se stesso improvvisandosi impacciato Pigmalione contemporaneo alle prese con scherzi del Fato, presagi di sventura e un sotterraneo peccato di Hýbris, che si sente in colpa per aver idealizzato la madre biologica di suo figlio dopo un momento di stallo nel rapporto con la moglie («Di tutte le umane debolezze l'ossessione è la più rischiosa. E la più stupida»).
Un amore tutto suo (Jon Turteltaub, 1995)
Una commedia piena di equivoci che riesce a non inciampare nelle pericolose trappole tese dagli stereotipi, che comunque sono sempre in agguato e di tanto in tanto non mancano di fare qualche sgambetto. Finale a parte, per certi versi inevitabile ma non per questo da assolvere, il film riesce qua e là ad appassionare soprattutto grazie al tono incalzante del racconto e a uno sviluppo della trama imprevedibile quanto basta per suscitare una dose minima di interesse.
Sabrina (Sydney Pollack, 1995)
Pollack dimostra un gran coraggio nel riadattare l'omonimo classico di Wilder del 1954, ma purtroppo i risultati non lo premiano. In questa riproposizione della medesima vicenda (che ricorda quella di Cenerentola), il regista sceglie un cast “sicuro” (Ford sembrerebbe un emulo perfetto e aggiornato di Bogart e la Ormond ha l'abilità di non imitare la Hepburn muovendosi con maggiore indipendenza), ma l'alchimia tra i protagonisti è debole e la commedia non vola mai troppo alto.
Il presidente – Una storia d’amore (Rob Reiner, 1995)
La pellicola di Rob Reiner è una commedia piacevole e leggera, ma non certo memorabile. La coppia Douglas-Bening è ben assortita, punte di diamante di un cast notevole (arricchito da nomi come Michael J.Fox e Martin Sheen), non sufficiente però rendere il film totalmente apprezzabile.
Swingers (Doug Liman, 1996)
Da un soggetto semplice e per nulla originale scritto da Jon Favreau, nel frangente anche protagonista oltre che sceneggiatore, il regista Doug Liman trae una frizzante commedia scandita dal ritmo dei dialoghi serrati e dalle vicende sentimentali di un gruppo di ragazzi in bilico tra spensieratezza giovanile e maturità dell'età adulta, condizioni rispettivamente rappresentate da Mike e Trent (un semi esordiente Vince Vaughn).
Tutti dicono I love you (Woody Allen, 1996)
Le coreografie minimali che accompagnano i brani di Dick Hyman scandiscono una vicenda esile, romantica, priva di velleità autoriali, e smorzano le abituali nevrosi alleniane per ricreare un'atmosfera fiabesca sospesa tra sogno e realtà. Il valzer dei sentimenti procede leggiadro, impalpabile, delizioso. Il siparietto musicale con gli spiriti dei defunti, l'omaggio ai fratelli Marx e il ballo romantico in riva alla Senna tra Woody Allen e Goldie Hawn sono autentiche chicche.
Un giorno... per caso (Michael Hoffman, 1996)
Lungi dall'essere una commedia (s)travolgente, Un giorno... per caso rientra di diritto nel calderone delle mediocri pellicole romantiche anni '90, che spesso avevano l'ambizione di rifarsi a nobili modelli di epoca classica. Leggera, prevedibile, ma tutto sommato godibile: merito soprattutto dei due interpreti, Michelle Pfeiffer e George Clooney, capaci di regalare brio a uno script altrimenti banale e zeppo di déjà-vu.
Qualcosa è cambiato (James L. Brooks, 1997)
Scritto in maniera lucida e intelligente, non solo serve su un piatto d'argento l'occasione per due performance attoriali da antologia (Jack Nicholson, in particolare, rende suo Melvin Udall riversando in esso molto di sé), ma ha un gusto e un equilibrio talmente delicati nei toni da renderlo il prodotto commercialmente (e furbescamente) perfetto. Numerose le scene memorabili, dal monologo sulle “ciambelle alla marinara” allo sfogo con la vicina di origini latine, dai siparietti col cagnolino Verdel fino alle istruzioni su come descrivere le donne.
Il matrimonio del mio migliore amico (P.J. Hogan, 1997)
Si viaggia a ridosso di un conflitto assai fecondo e stimolante, quello tra la futura moglie e la migliore amica innamorata in segreto, ma la scrittura è abilissima nell'evitare qualsiasi caratterizzazione stereotipica e nel mettere a fuoco un gioco delle parti nel quale, anche alla protagonista interpretata da Julia Roberts, non vengono risparmiate stoccate. Il film di Hogan è brillante, zeppo di gag e battute d'impatto e in grado di bucare l'immaginario collettivo.
C’è post@ per te (Nora Ephron, 1998)
La coppia Ryan-Hanks si riunisce cinque anni dopo Insonnia d'amore (1993) con risultati (nuovamente) infimi. Inizialmente dotato di buon ritmo, il film si perde nella vacuità delle sue situazioni, tra famiglie disastrate e malintesi sentimentali, mai realmente coinvolgenti e disegnati su misura per incontrare il gusto di tutti.
Racconto d’autunno (Eric Rohmer, 1998)
Un Rohmer conciliante (ma per nulla buonista) conclude nel migliore dei modi il ciclo dei Racconti delle quattro stagioni. Compendio vitale e spensierato di un'intera carriera, impeccabile nella sua geometrica costruzione narrativa, Racconto d'autunno racchiude tutte le innumerevoli sfaccettature del prisma cinematografico scolpito dal suo autore nel corso degli anni. Dialoghi semplici ma ricchi di significato, spontaneità dei gesti, regia invisibile, solitudine, caso, amicizia, amore, consapevolezza della maturità: tutto magicamente avvolto dalla leggerezza del vivere di uno sguardo rassicurante.
Notting Hill (Roger Michell, 1999)
Il copione di Curtis è abilissimo nel declinare il cuore dell'operazione nella maniera più vivace e coinvolgente possibile, lavorando sul romanticismo insito nella vicenda e sulla chimica tra i due protagonisti, uno sbadato Hugh Grant e una luminosa Julia Roberts al massimo del loro fascino e all'apice delle rispettive carriere, ma anche su una sequela elementare ma ben congegnata di gag e dialoghi brillanti, situazioni paradossali e umorismo in salsa british.
Un marito ideale (Oliver Parker, 1999)
La regia elegante e pacata di Oliver Parker si sposa bene con l'ambientazione vittoriana della pièce omonima di Oscar Wilde da cui il film è tratto, mettendo bene in luce i dialoghi brillanti e taglienti, oltre alla critica feroce alla società britannica (elemento tipico dell'opera del drammaturgo inglese). La trasposizione ha un ritmo costante e ben cadenzato, riuscendo a mantenere alta l'attenzione, per merito anche di un cast indovinato, con un Rupert Everett e una Julianne Moore in forma perfetta.
10 cose che odio di te (Gil Junger, 1999)
Riadattamento statunitense in chiave adolescenziale de La bisbetica domata di William Shakespeare, la commedia romantica di Gil Junger risulta abbastanza convincente, con un ritmo ben sostenuto e qualche scambio di sceneggiatura accattivante. I giovanissimi Heath Ledger e Joseph Gordon-Levitt sono il valore aggiunto di un lungometraggio che, senza i suoi protagonisti, risulterebbe banalotto, ma che grazie all'abilità degli interpreti riesce a non annoiare, con alcune sequenze addirittura apprezzabili.
Se scappi, ti sposo (Garry Marshall, 1999)
Squadra vincente non si cambia: è questo il pensiero di Garry Marshall, autore dello stesso Pretty Woman (1990) che fece di Julia Roberts e Richard Gere una delle coppie più amate del cinema leggero contemporaneo. Il risultato è però l'ennesima commedia romantica sulla contrapposizione (e il ribaltamento) dei sessi, secondo una tendenza abusata degli anni '90 che pare voler attualizzare la sophisticated comedy dell'epoca d'oro.
Chocolat (Lasse Hallström, 2000)
Anche se non originale, però, la storia di Vianne, “diabolica” ispiratrice di ossessioni al cacao, resta godibile, grazie anche ai simpatici personaggi di contorno: dal conte bacchettone che annega nel cioccolato, interpretato da Alfred Molina, alla nonna ribelle (una sempre gradevole Judy Dench) che ha rotto i rapporti con la figlia conservatrice, la lamentosa e segaligna Carrie-Ann Moss.
Pane e tulipani (Silvio Soldini, 2000)
Delicata commedia diretta da Silvio Soldini, anche sceneggiatore con Doriana Leondeff. Toni leggeri e sommessi, uniti a uno stile sobrio e lineare, per tratteggiare temi importanti quali la solitudine e l'emarginazione della donna all'interno del nucleo familiare: il regista sceglie di basare lo sviluppo narrativo sulle vicissitudini della sua protagonista, assumendone totalmente il punto di vista e seguendone la crescita esistenziale ed emozionale, con uno spessore inaspettato e insolito per il cinema italiano contemporaneo.
What Women Want – Quello che le donne vogliono (Nancy Meyers, 2000)
Un film che gioca sulle incomprensioni tra uomini e donne, cercando di far capire a un uomo quanto complesso possa essere l'universo femminile. Il taglio scelto da Nancy Mayers è sfacciatamente femminista: la donna manager viene giustificata nel suo fare aggressivo attraverso la nascosta fragilità di chi ha perso l'amore per sacrificarlo in nome del lavoro, mentre l'uomo spregiudicato non può far altro che cambiare il suo punto di vista, dovendo riconoscere la genialità e la sensibilità dell'altra metà del cielo.