Hey, after all these years
I'm still here, fingers outstretched
With your imprint in my bed
A pit so big I lay on the edge
Will love let me down again?
Euphoria torna con un episodio speciale: un regalo dolceamaro con il quale Sam Levinson conferma la bellezza malinconica e autodistruttiva della sua creatura.
È la Vigilia di Natale: Rue e Ali, il suo sponsor, siedono l’uno di fronte all’altra all’interno di una tavola calda. I vetri appannati che li separano dal mondo esterno – gelido e inospitale – diventano il quadro confessionale all’interno del quale dare libero sfogo ai propri flussi di coscienza.
La prima stagione di Euphoria – sfacciata, dissoluta e allo stesso tempo avveduta nell’indagare le dinamiche adolescenziali più torbide ed eccitanti – aveva conquistato pubblico e critica, spogliando il ritratto della generazione Z di qualsiasi tabù, moralismo e pregiudizio (qui la nostra recensione). Con questo episodio speciale, sorta di ponte sospeso tra ciò cui abbiamo già assistito e ciò cui assisteremo, Sam Levinson dà vita a un micro-universo tanto dipendente dal terreno già tracciato quanto perfettamente a sé stante.
Spettatori invisibili di un dialogo privatissimo – la sensazione è quasi quella di invadere un territorio tanto intimo e doloroso da sentirci di troppo – veniamo trascinati all’interno di un buco nero che concentra in sé un’analisi dura, trasparente e toccante di cause e conseguenze della dipendenza dalle droghe.
Tra i passaggi più coinvolgenti (e drammatici) di un confronto fitto, insopportabile, continuamente diviso tra accettazione e protesta, ci sono senza dubbio le aspre riflessioni di Ali (straordinario Colman Domingo). Come fossimo colpiti dalle barre di un freestyle, l’uomo sputa addosso alla sua interlocutrice e allo spettatore non solo le proprie colpe e i propri traguardi, ma anche la negligenza emotiva dell’individuo medio nei confronti di chi, come lui, come Rue, è vittima di un abuso.
Ascolta ragazzina: io mi bucavo prima che tu fossi concepita.
Ho vissuto un'intera vita del cazzo prima di sedermi di fronte alla tua faccia arrogante,
non provare a dirmi "chi se ne importa". Hai 17 anni: tu non sai un cazzo.
Ti senti una dura? Io sono più duro.
Sei tosta? Io lo sono di più.
Ti sei ripulita e vuoi suicidarti? Benvenuta nel cazzo di club.
Sai perchè? Vuoi saperlo? Te lo dico: perché tu non sai come vivere la vita, non hai gli strumenti,
pensi solo a dire stronzate per convincere tutti che non te ne importa un cazzo,
quando in realtà ti importa così tanto che non sopporti nemmeno di essere viva.
[...]
Questa è la malattia della tossicodipendenza: è una malattia degenerativa, è incurabile, è fatale.
Non è diversa dal cancro.
La parte più difficile della malattia della tossicodipendenza, oltre al fatto di essere malati, è che
nessuno al mondo la vede come una malattia. Ti vedono come un egoista,
ti vedono debole, ti vedono crudele, ti vedono distruttiva, pensano:
"Perchè dovrebbe fregarmene se a lei non importa di se stessa e di nessun altro?
Perché dovrebbe meritare il mio tempo, la mia pazienza, la mia compassione?"
[...]
La verità è che la droga cambia radicalmente chi sei come essere umano.
Ogni morale, ogni principio, tutto quello che hai a cuore.
E quello in cui credi va fuori dalla finestra o giù per lo scarico.
Più contintui a drogarti più cose perderai. E non parlo solo di quello che ami,
ma di quello che apprezzi di te stessa. E ogni compromesso che fai,
ogni confine morale che oltrepassi, andrai sempre più avanti,
finché non riconoscerai più chi cazzo sei.
E la lista dei pensieri su cui rimugini, delle cose imperdonabili
diventerà più lunga e più agghiacciante.
Da un lato un ex tossicodipendente pulito da sette anni, reduce da una dilaniante guerra contro se stesso che lo ha piegato ma allo stesso tempo fortificato; dall’altro, un’adolescente appena ricaduta nel tunnel che non riesce a figurare alcun futuro davanti a sé («Io non ho intenzione di vivere ancora a lungo. Non voglio far parte di tutto questo. Non voglio neanche assistere»).
Un’ora di dialogo incessante tra due individui additati come emarginati sociali in cui vengono scandagliate le pieghe più angoscianti delle loro solitudini. Nonostante a travolgerci sia una scrittura precisa e incalzante, quello portato in scena da Sam Levinson è un kammerspiel tutt’altro che artefatto e manieristico: piuttosto, “servendosi” di Ali come portavoce, il regista sembra parlare a cuore aperto di se stesso e di chi, come i suoi personaggi, porta con sé ferite tanto profonde da essere invisibili ai più.
Trouble Don't Last Always.
You got to believe in the poetry.
I problemi non durano per sempre. Schivando qualsiasi deriva retorica, Levinson riconduce questa semplice frase al suo significato più puro: esiste della bellezza in ciò che ci circonda, anche quando sembra impossibile scorgerla, anche quando la cecità deriva dal dolore che abbiamo volontariamente inflitto a noi stessi e agli altri. Per abbracciarla, o anche semplicemente accarezzarla, serve “solo” il coraggio di prendersi per mano.
Viola Franchini