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31.10: Un ricordo di Federico Fellini a sessant'anni da Boccaccio '70
«È l’intervista meno genuina di tutta la serie, non una frase di essa è stata scritta senza pensarci e ripensarci. Il Codice napoleonico e la Costituzione americana costarono certo meno fatica di questo documento prezioso». Oriana Fallaci presenta così la conversazione avuta con Federico Fellini, uno degli «antipatici» intervistati per «L’Europeo», personaggi la cui «celebrità è così vasta, così rumorosa, così esasperante che ci ossessiona, ci tormenta, ci soffoca al punto da farci esclamare: “Dio che rompiscatole!”». Quella dissacrante intervista era uscita nel 1963: Fellini aveva già vinto due premi Oscar e ne avrebbe ricevuti altri tre nel corso della sua carriera. 

L’anno prima, nel 1962, il regista aveva girato Le tentazioni del dottor Antonio, episodio di Boccaccio '70, un film collettivo in grado di restituire una vivida immagine del decennio italiano del Boom economico, con le sue innovazioni e le sue contraddizioni. Renzo e Luciana di Mario Monicelli, Il lavoro di Luchino Visconti e La riffa di Vittorio De Sica completavano questo affresco corale e satirico, inserito nel filone allora tanto in voga delle pellicole a puntate. Fellini aveva messo in scena Antonio (Peppino De Filippo), un moralista indefesso che si impegnava a combattere contro l’immoralità dilagante. La sua inflessibilità sarebbe stata però messa alla prova da un cartellone pubblicitario con una donna (Anita Ekberg) che lo invitava a bere più latte. Il novello censore avrebbe sviluppato una nuova ossessione per la provocante attrice, al punto da finire ricoverato all’ospedale tra deliri onirici. 

Di Fellini, «maestro di un cinema visionario», abbiamo appena celebrato il primo centenario (1920-2020). Inserendoci nel solco di un’altra ricorrenza – Boccaccio '70 è uscito infatti sessant’anni fa – approfittiamo per riscoprire queste commedie italiane di analisi sociale.

Mattia Rizzi


I atto, Mario Monicelli: Renzo e Luciana 

Nel 1962 si racconta l’amore con poetica ironia e Monicelli lo fa, in Renzo e Luciana, ironizzando e parodizzando il racconto dei Promessi Sposi attraverso le scelte narrative della sceneggiatura di Italo Calvino. Nell’Italia degli anni Sessanta, una città industriale, produttiva ed instancabile, fa da sfondo alle vicende dei due protagonisti, una coppia modesta ed operaia, innamorata ma costretta a dover fare del proprio amore un segreto irraccontabile.

L’amore con Renzo impedisce a Luciana di potersi spogliare di preoccupazioni e di pensieri e al contrario la costringe a dover fare i conti con un ambiente ostile e severo, dove il proprio sentimento viene soffocato dallo stress e le preoccupazioni pesano sulla sua quotidianità. Il lavoro di Luciana diviene opprimente e faticoso, ostacolato da un amore genuino ma ostile alle regole delle mura professionali. La situazione in casa, tuttavia, non sembra apparire affatto delle migliori: Luciana fatica tremendamente ad adattarsi ad uno stile di vita che non le appartiene, costringendola a dover condividere lo spazio domestico con la propria famiglia. L’appartamento, angusto, triste ed oscurato, rimane tuttavia l’unica soluzione pratica, nonostante questo sia condiviso con la famiglia della moglie.


Il disagio di Luciana si trasforma in malessere fisico, inducendo i familiari a pensare che si possa trattare di un'improvvisa gravidanza, situazione che comporterebbe una serie concatenata di reazioni e imposizioni. Scongiurato questo pericolo, Renzo e Luciana celebrano l’apparente vittoria, uscendo però allo scoperto e compromettendo la situazione già in bilico.

Una pellicola tanto breve quanto appassionante racconta l’Italia rurale, operaia ed illusa degli anni Sessanta, ritagliando in modo chiaro e netto una fotografia della società, degli usi e dei costumi di un’idea che oggi non ci appartiene più. L'episodio di Boccaccio ‘70, nella sua semplice genialità, racconta l’amore con impattante forza, riuscendo ad emozionare ed appassionare.

Alessandro Benedetti

II atto, Federico Fellini: Le tentazioni del dottor Antonio

Erotismo vs. pudicizia, scandalo vs. moralità, indecenza vs. decoro. A destra tutti i termini usati per descrivere il mondo cristiano e i suoi seguaci; a sinistra le caratteristiche di tutti coloro che si vantano della propria rettitudine e poi vengono sorpresi in atti che loro stessi condannano. Il dottor Antonio ne è un degno rappresentante. Burbero, morigerato e incredibilmente noioso, il dottore trascorre le sue giornate ad importunare chiunque non si vesta, si esprima e si comporti come vuole lui. In particolare, le donne – considerate esseri peccaminosi e satanici per via delle loro forme e di quello che hanno in mezzo alle gambe – vengono costantemente “messe al loro posto”, possibilmente in cucina o nella camera da letto del marito.

In una spassosissima scena ripresa da un episodio realmente accaduto a Oscar Luigi Scalfaro – in cui l’allora sottosegretario, a pranzo con due colleghi, vide una signora che, insofferente per l’alta temperatura, si era tolta il golfino rimanendo con le spalle nude e, di tutta risposta, la schiaffeggiò –, il dottor Antonio dà sfogo alla sua più degna qualità: far rispettare la morale e preservare il pubblico decoro in una società che, a detta sua, sta dimenticando i veri valori cristiani in favore di una bassezza di spirito che contagia il popolo italiano. In effetti, gli anni Sessanta – in cui si svolge la vicenda – sono quelli del Boom economico, del capitalismo, della televisione e delle contestazioni giovanili. Nelle edicole si vendono le riviste pornografiche (che il dottore puntualmente compra per distruggerle), nei cabaret si esibiscono ragazze dai vestiti succinti (che il dottore prova a nascondere calando il sipario) e nei parchi pubblici vengono esposti discutibili cartelloni pubblicitari: uno fra tutti quello che ritrae una sensualissima Anita Ekberg nell’atto di bere un bicchiere di latte per invogliare le persone a mangiare e bere sano. E dove viene affisso questo gigantesco manifesto? Proprio davanti alla casa del dottor Antonio che ogni mattina è costretto – povero lui – a vedere tale oscenità.


A distanza di sessant'anni, la situazione non è molto cambiata. Se ci pensiamo, anche oggi molte delle insegne pubblicitarie che vediamo per le strade raffigurano donne seminude nell’intento di vendere un prodotto che spesso ha poco a che vedere con la posa sensuale o lo sguardo ammiccante. E ancora oggi, centinaia di persone si indignano per la mancanza di pudore per poi dare la colpa a questi cartelloni se fanno un incidente. Il rimprovero – che dal passaparola, si è spostato sui social – non è rivolto a una più comprensibile critica alla sessualizzazione del corpo delle donne, sfruttate per attirare l’occhio dell’eterosessuale medio, bensì alla distrazione che queste immagini possono causare o al disturbo che possono arrecare alla brava gente. Peccato che la malizia stia negli occhi di chi guarda e se l’uomo è abituato a vedere nella donna un oggetto sessuale anche quando è un’immagine 2D che sta pubblicizzando un noto silicone sigillante, sono solo problemi suoi.

Anita Ekberg, nel film, è bravissima a mettere in difficoltà il puritanissimo dottor Antonio quando prende vita ed esce dal cartellone, trasformandosi in un’enorme donna di trenta metri che lo insegue per tutta Roma dandogli dell’antipatico. E ancora più bravo è lo stesso Fellini che critica la morale di facciata, l’ipocrisia e l’ottusità della maggior parte dei borghesi italiani di quel periodo, toccando, da buon cattolico, uno degli elementi più grotteschi di certe campagne moralizzatrici.

Fellini, con La dolce vita, aveva già creato uno spartiacque nella storia delle politiche cinematografiche della Chiesa, dopo il quale nulla fu più lo stesso. Per la prima volta il cinema italiano dava rappresentazione a tematiche come il libero amore, l’omosessualità, l’edonismo e la ricerca del piacere per il piacere. Se, fino a quel momento, la Chiesa aveva bisogno di un regista come Fellini per coltivare l’illusione di poter testimoniare, a fianco dell’indiscusso potere politico, anche una propria presenza culturale, adesso è lo stesso Fellini che fa uso della Chiesa per metterne alla berlina gli aspetti più contraddittori. La novità è nell’aver saputo mettere sullo schermo una sessualità fortemente connessa al senso del peccato con tutti i suoi riferimenti alla trasgressione e al conseguente senso di colpa: una sessualità radicata nella cultura italiana che presupponeva una norma con cui confrontarsi e il rimorso per averla elusa.

Il dottor Antonio – lo stesso che la notte si recava nei quartieri a luci rosse della città con il solo obiettivo di castigare gli uomini che sceglievano le prostitute per sfogare i propri desideri sessuali –, finisce per soccombere tra le forme giunoniche della sua tentatrice. In un delirio di allucinazioni, il protagonista non riesce più a lasciare quel cartellone e, quando arrivano gli addetti alla sicurezza a portarlo via, si attacca con i denti al dipinto. Il turbamento fa il giro e si trasforma in tentazione, perché, in fondo, il dottor Antonio, è solo un cristiano qualunque.

Gloria Sanzogni

III atto, Luchino Visconti: Il lavoro

Tratto dalla novella Sul bordo del letto di Guy de Maupassant, l’episodio girato da Luchino Visconti proietta i protagonisti nell’aristocrazia milanese, alle prese con i loro problemi coniugali ed economici
: il conte Ottavio (Tomas Milian), preda dei giornali scandalistici a causa delle sue scappatelle, deve affrontare la moglie Pupe (Romy Schneider), più intenzionata che in grado di allontanarsi dal marito e cambiare la propria situazione. Sebbene questa novella, così come le altre, non prenda direttamente spunto dal capolavoro di Giovanni Boccaccio, si può dire che ciascuna riesca a modo suo a rispettare le idee di base del Decameron: dare un volto alla realtà e – non meno importante – divertire lo spettatore.

La riuscita di questa combinazione appare sorprendente in virtù della storia cinematografica del regista in questione. Visconti è forse il più neorealista fra i colleghi, famoso per adottare una tecnica quasi documentaristica in alcuni dei suoi film. È inoltre da considerare come normalmente i soggetti di questo cinema siano le classi più umili: non a caso quando uscì in sala Senso (1954) – che trattava gli alti ceti della società italiana ottocentesca – Visconti fu accusato di aver voltato le spalle ad un filone da lui stesso creato.


Nonostante l’aspetto grottesco del racconto rischi di fargli tradire il focus sul reale, il regista trova una soluzione canalizzando il proprio cinema in una perfetta novella decameroniana. La struttura antologica del film infatti ricalca lo stile della raccolta di Boccaccio, riuscendo a dare una visione dell’Italia a più ampio raggio: mentre gli altri registi si occupano delle più tradizionali classi sociali, Visconti analizza un qualcosa di familiare, date le sue origini nobiliari, che gli permette inoltre di ampliare il discorso sulla decadenza dell’alta società che aveva caratterizzato Senso, e che verrà riproposto in seguito.

Lo status dei protagonisti è inoltre ampiamente giustificato dal colpo di coda finale, con Pupe offesa e in lacrime, che si fa exemplum delle leggi di un matrimonio alto-borghese. Al netto della classe sociale di appartenenza, la base del regista è comunque ritrattistica. Infatti è lui stesso ad affermare: «Credo che sia lo schizzo del carattere di una donna moderna come ne conosco tante, soprattutto nella società milanese, una donna moderna che dà veramente molta importanza a tutto ciò che è il denaro, il lusso, l’automobile, la loggia alla Scala, e tutte queste cose, e non dà peso alle cose veramente importanti». Si tratta però di una realtà filtrata attraverso le tradizionali matrici decameroniane, tra l’altro comuni a tutto il film: amore, denaro, arti e mestieri. Non è un caso che il titolo stesso de Il lavoro alluda al matrimonio paragonandolo alla prostituzione, impiego che per di più comprende gli altri elementi sopracitati.

L’aspetto paradossale, che genera il sorriso dello spettatore, finisce a sua volta per essere inglobato nel processo. Non potendo squarciare direttamente il velo di Maya, Visconti ritrova il suo modo di fare cinema rendendo i suoi protagonisti delle maschere. La chiave dell’esperimento non sta nel ricercare una copia esatta dell’Italia da lui analizzata, bensì trovare una vivida traccia di italianità da specchiare in personaggi decisamente caricaturali. È questo che infine rende Il lavoro e l’intero film una tragicommedia.

Alessandro Cricca

IV atto, Vittorio De Sica: La riffa

Se il terzo atto termina con il primo piano di una fenomenale Romy Schneider, il quarto si apre sulle note di Soldi soldi soldi cantata per l’occasione dalla stessa Sophia Loren. In una Lugo (Ravenna) che sarebbe piaciuta a Leo Longanesi, fatta di strade sterrate e carri trainati da buoi, i volti che incontriamo sono sporchi, sudati dal lavoro, ornati spesso da buffi baffi sotto i quali la bocca sdentata fatica a non parlare in vernacolo romagnolo. L’atmosfera è goliardica e caotica, esattamente come si vedeva nelle fotografie che i nostri nonni ci facevano vedere da piccoli.

Continuando nell’analogia con il Decameron, se questo atto fosse stato una novella, sarebbe stata sicuramente raccontata da Dioneo, che dei ragazzi della brigata era il più malizioso e carismatico. Durante il viavai degli animali, tra maiali e mucche, un uomo mingherlino si faceva (a fatica) largo tra la folla, con un blocchetto di biglietti della lotteria in mano. Incontrando un conoscente, la questione entra subito nel vivo con le polemiche giocose di quest’ultimo. A quanto pare, il contadino avrebbe acquistato un biglietto la volta precedente rimanendo con il cerino in mano, senza vincere. Tuttavia, lungi dall’imparare la lezione, non solo ne compra anche in questa occasione, ma invita tutti i suoi amici ad acquistare il tagliandino, promettendo, nel caso di vittoria, un premio eccezionale. La curiosità inizia a farsi largo tra la gente con tanto di goduria del mingherlino, a cui velocemente si gonfiano le tasche.


Emerge che, in occasione della sagra paesana, l’arrivo delle giostre ha portato anche il tiro a segno, diretto niente meno che dal personaggio della splendida Sophia Loren. A quanto pare, ossessionata (come anticipato) dai soldi, la signorina, in affari con quell’altro (il mingherlino), di giorno sta al tiro a segno, mentre di sera arrotonda con un business al di fuori della legalità. Tutta Lugo è così interessata all’acquisto del bigliettino, sperando in una notte di fuoco con lei, che, a dire il vero, compie l’attività malvolentieri.. Intanto, la combriccola di amici ha acquistato ben settanta biglietti su novanta disponibili, al punto che, in una scena che potrebbe benissimo essere narrata in una delle poesie di Carlo Porta, dopo aver fatto una botta di conti, il contadino non trattiene l’entusiasmo ed esclama, in romagnolo: «Il pollo deve ussire da qvésto polàio! (sic!)», che è una di quei modi di dire tipicamente dialettali traducibili in: «È molto probabile che a vincere sia uno di noi». È chiaro che il pollo non uscirà da quel pollaio, altrimenti che commedia sarebbe?

Sul piano puramente cinematografico, la fotografia cattura in toto un tipico comune italiano dell’Italia pre-Boom economico. Il clima è scompigliato e allegro, ma appartiene ad un mondo in cui i prestiti di denaro si suggellavano con una stretta di mano, con il mantenimento della parola e con una genuinità ormai totalmente perduta. Lugo sullo sfondo è riconoscibile solo dall’eterna Rocca Estense, ma il resto è quasi completamente cambiato.

Sophia Loren è magistrale: l’episodio gira sostanzialmente intorno a lei e in soli quarantacinque minuti, con una grande capacità espressiva, riesce a conferire anche una profondità non scontata al suo personaggio. Il contorno è di stampo neorealista, con attori principianti, a cui è stato chiesto di essere loro stessi e così hanno fatto. L'atto di De Sica chiosa perfettamente l’opera: Boccaccio ’70 riesce e si potrebbe definire un rendez-vous di talenti.

Alessandro Randi 

Contributo realizzato in collaborazione con la Redazione di FILMEETING.

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