Divo per eccellenza, icona cinematografica entrata nell'immaginario collettivo, quintessenza dell'attore "moderno" capace di creare un nuovo modello di riferimento in termini di performance al cinema. Marlon Brando (3 aprile 1924 – 1º luglio 2004) ha rappresentato un'autentica rivoluzione nel rapporto tra interprete e personaggio, segnando una cesura storica all'interno dello star sytem hollywoodiano. Siamo nel 1951, le grevi scorie della guerra non si sono ancora sedimentate, la volontà di rinascita seguendo l'allettante american way of life si chiama evasione ma anche desiderio. Ecco apparire sul grande schermo Stanley Kowalski, il film è Un tram che si chiama Desiderio, alla regia c'è Elia Kazan, figura chiave per Brando, il quale con la sola presenza scenica scardina ogni convenzione precostituita, facendo degli insegnamenti dell'Actor's Studio e della capacità di introspezione psicologica acquisita attraverso il Metodo Stanislavskij il proprio manifesto espressivo. La sua capacità di immedesimazione nel ruolo è sbalorditiva, tanto da influenzare intere generazioni future di attori. Esiste un prima e un dopo Marlon Brando.
Ed è quindi con gli anni '50 che inizia il mito. Marlon Brando si afferma come sex symbol duro e inquieto dalla fisicità prorompente e il volto d'angelo: innocenza e perdizione non sono mai andate così magnificamente a braccetto. Una parabola artistica che segna in maniera indelebile la storia del cinema, al fianco di autori come Kazan, Coppola, Bertolucci, Huston, Mankiewicz e Arthur Penn, unica e irripetibile come il suo carattere, compressa in tre decenni, senza mai vedere una fase crepuscolare degna di nota, spegnendosi mestamente dopo una lunga fase di oblio iniziata subito dopo aver superato i confini del capolavoro con Apocalypse Now (1979). Un vero peccato, ma non dobbiamo pretendere la Luna, abbiamo già le stelle.
Un duro dal cuore d'oro: ecco Brando a casa di sua zia in California durante le riprese del coraggioso dramma Il mio corpo ti appartiene (1950) di Fred Zinnemann. La pellicola segna l'esordio al cinema dell'attore, già protagonista alla sua prima interpretazione.
© Ed Clark, The LIFE Picture Collection/Getty Images
«Dopo Montogomery Clift venne Marlon Brando, e dopo Brando venne James Dean» (Peter Bogdanovich)
© Ed Clark, The LIFE Picture Collection/Getty Images (1949)
«Era bello in modo incredibile, portava i blue-jeans e una t-shirt bianca che gli fasciava il corpo. Noi in Italia non avevamo mai visto una cosa così» (Lucia Bosé). Un tram che si chiama Desiderio (1951) segna la definitiva consacrazione di Brando, il quale diventa una star già al suo secondo film. L'interpretazione dell'attore è così intensa che per anni il pubblico lo identifica con il rude e sensuale Kowalski.
Il selvaggio (1953) è un titolo cult per l'aura mitica che circonda Marlon Brando in ogni inquadratura e per la capacità del regista Laslo Benedek di raccontare con forza i tormenti giovanili dell'epoca. Due anni prima di Gioventù bruciata (1955), la pellicola mette alla berlina i pregiudizi dei benpensanti di provincia, e lascia voce a quei ribelli dal cuore tenero, violenti per noia e disperazione, alla ricerca di un sentimento autentico a cui appoggiarsi.
La più pura e celebre opera di Elia Kazan è un magistrale ritratto del mondo sindacale e malavitoso d'America. Fronte del porto (1954) è cinema d'impegno civile di primissima qualità di una potenza visiva che colpisce ancora oggi, capace di fondere in modo sublime la denuncia sociale con l'intensità del melodramma. Indimenticabile Brando, premiato con Oscar, Golden Globe e Bafta, la cui sbalorditiva performance nell'interpretare l'ex pugile e scaricatore di porto Terry Malloy ha segnato una tappa fondamentale nella storia del cinema.
Non solo dramma: solo un autore raffinato come Joseph L. Mankiewicz poteva arruolare Marlon Brando per lo sgargiante musical MGM Bulli e pupe (1955), tratto dal celebre spettacolo di Broadway. Il risultato non è entusiasmante, ma la direzione degli attori è, ça va sans dire, magistrale. Nella foto, i quattro protagonisti: Brando, Jean Simmons, Frank Sinatra e Vivian Blaine. Che classe, signori.
La prima e unica esperienza di Marlon Brando da regista è un ambizioso western che rispecchia il titanismo del suo autore, il quale, insoddisfatto di Kubrick e Peckinpah (!) ha deciso di mettersi anche dietro la macchina da presa. Opera eccessiva e discontinua ma affascinante, sospesa tra violenza, mélo disperato e revenge story dai toni edipici e omoerotici, I due volti della vendetta (1961) è un titolo che ha acquisito, con il passare degli anni, lo status di cult movie.
Fallimentare dal punto di vista commerciale ma esaltante nella dimensione avventurosa vecchio stile (girata in Super Panavision 70), Gli ammutinati del Bounty (1962) racchiude tutta la consumata esperienza del maestro Lewis Milestone, regista del capolavoro All'Ovest niente di nuovo (1930), qui al suo ultimo film. Assolutamente indimenticabile Brando nel ruolo che fu di Clark Gable nel 1935, il quale carica di inquietudine e tormento interiore l'aristocratico primo tenente di vascello Fletcher Christian, promotore dell'ammutinamento. Sul set del film scoppiò l'amore tra Brando e la giovane polinesiana Tarita Teriipia, qui al suo primo e unico film: i due si sposarono nel 1962 e vissero sull'isola di Tetiaroa, di proprietà dell'attore, fino al divorzio, avvenuto nel 1972.
Quasi visionario e sperimentale nel rompere gli schemi di una narrazione classica, anticipando le suggestioni della New Hollywood, La caccia (1966) è uno dei titoli chiave del cinema americano degli anni '60. Arthur Penn, tessendo una fitta rete di personaggi che da più angolazioni converge verso i due protagonisti della vicenda, lo sceriffo Calder (Brando) e il fuggiasco Reeves (Robert Redford), dà vita a un desolante e amarissimo affresco di umana sconfitta. Grandissimo Brando, ancora una volta perfetto nel calarsi nel personaggio, vittima di una scena di pestaggio che mette a disagio ancora oggi per la sua cruda violenza.
Adattando l'omonimo romanzo di Carson McCullers, con Riflessi in un occhio d'oro (1967) John Huston porta in una Hollywood ormai aperta allo sdoganamento di molti tabù un'opera percorsa da temi scabrosi: tradimento, omosessualità, voyeurismo, repressione sessuale. Non è un caso che lo sfondo sia il mondo militare, privato di ogni connotazione bellica e reso come una sorta di gabbia le cui chiuse regole contrastano con le pulsioni che percorrono i protagonisti. Brando, eccezionale nei panni del maggiore Penderton, sposato con la capricciosa Leonora (Elizabeth Taylor), prese il posto di Montgomery Clift, morto poco prima delle riprese. Fotogrammi di Marlon Brando in uniforme militare americana vennero usati dal regista Francis Ford Coppola durante la realizzazione del film Apocalypse Now.
Marlon Bando mentre viene truccato per diventare Don Vito Corleone durante la lavorazione de Il padrino (1972). Alle sue spalle, un divertito Francis Ford Coppola. La storia (del cinema) racchiusa in una foto.
Il cappotto di cammello e l'appartamento sfitto, regressione animalesca e dissertazioni filosofiche, il sax di Gato Barbieri e la fotografia di Vittorio Storaro, ribellione e straziante male di vivere, Francis Bacon e il burro. Tutto questo e molto altro è Ultimo tango a Parigi (1972), più che un film, un mito eterno, controverso e intramontabile. Il disagio esistenziale di Marlon Brando nel film è qualcosa che va oltre i semplici confini del cinema. Perché quando Bernardo Bertolucci raggiunge questi livelli, non ce n'è per nessuno.
Marlon Brando e Jack Nicholson, entrambi all'apice della popolarità, hanno recitato insieme nel picaresco western Missouri (1976) di Arthur Penn. Il contributo di Brando è andato però ben oltre la semplice recitazione: l'eccentrico personaggio dello stravagante cacciatore di taglie Lee Clayton è interamente una sua creazione e resta una delle maschere più memorabili della sua carriera. Ossessionato dall'igiene, capace di improbabili travestimenti, micidiale tiratore, Clayton ha dentro di sé tutto l'istrionismo, il genio e la titanica imponenza di quello che molti, Nicholson incluso, hanno indicato come il più grande attore di tutti i tempi.
«È il voler giudicare che ci sconfigge». La grandezza di Apocalypse Now (1979), inarrivabile capolavoro firmato Francis Ford Coppola, passa anche dalla prova di un Brando a dir poco monumentale: il colonnello Kurtz che emerge dalle tenebre, illuminato dalla luce caravaggesca di Storaro che rimanda il più possibile lo svelamento del volto, è un'immagine scolpita nella memoria collettiva.
Marlon Brando e Michael Jackson a metà anni '80.
Davide Dubinelli
«Il beneficio principale che ho tratto dall'essere un attore sono i soldi che uso per pagare il mio psicanalista»
Ed è quindi con gli anni '50 che inizia il mito. Marlon Brando si afferma come sex symbol duro e inquieto dalla fisicità prorompente e il volto d'angelo: innocenza e perdizione non sono mai andate così magnificamente a braccetto. Una parabola artistica che segna in maniera indelebile la storia del cinema, al fianco di autori come Kazan, Coppola, Bertolucci, Huston, Mankiewicz e Arthur Penn, unica e irripetibile come il suo carattere, compressa in tre decenni, senza mai vedere una fase crepuscolare degna di nota, spegnendosi mestamente dopo una lunga fase di oblio iniziata subito dopo aver superato i confini del capolavoro con Apocalypse Now (1979). Un vero peccato, ma non dobbiamo pretendere la Luna, abbiamo già le stelle.
Un duro dal cuore d'oro: ecco Brando a casa di sua zia in California durante le riprese del coraggioso dramma Il mio corpo ti appartiene (1950) di Fred Zinnemann. La pellicola segna l'esordio al cinema dell'attore, già protagonista alla sua prima interpretazione.
© Ed Clark, The LIFE Picture Collection/Getty Images
«Dopo Montogomery Clift venne Marlon Brando, e dopo Brando venne James Dean» (Peter Bogdanovich)
© Ed Clark, The LIFE Picture Collection/Getty Images (1949)
«Era bello in modo incredibile, portava i blue-jeans e una t-shirt bianca che gli fasciava il corpo. Noi in Italia non avevamo mai visto una cosa così» (Lucia Bosé). Un tram che si chiama Desiderio (1951) segna la definitiva consacrazione di Brando, il quale diventa una star già al suo secondo film. L'interpretazione dell'attore è così intensa che per anni il pubblico lo identifica con il rude e sensuale Kowalski.
Il selvaggio (1953) è un titolo cult per l'aura mitica che circonda Marlon Brando in ogni inquadratura e per la capacità del regista Laslo Benedek di raccontare con forza i tormenti giovanili dell'epoca. Due anni prima di Gioventù bruciata (1955), la pellicola mette alla berlina i pregiudizi dei benpensanti di provincia, e lascia voce a quei ribelli dal cuore tenero, violenti per noia e disperazione, alla ricerca di un sentimento autentico a cui appoggiarsi.
La più pura e celebre opera di Elia Kazan è un magistrale ritratto del mondo sindacale e malavitoso d'America. Fronte del porto (1954) è cinema d'impegno civile di primissima qualità di una potenza visiva che colpisce ancora oggi, capace di fondere in modo sublime la denuncia sociale con l'intensità del melodramma. Indimenticabile Brando, premiato con Oscar, Golden Globe e Bafta, la cui sbalorditiva performance nell'interpretare l'ex pugile e scaricatore di porto Terry Malloy ha segnato una tappa fondamentale nella storia del cinema.
Non solo dramma: solo un autore raffinato come Joseph L. Mankiewicz poteva arruolare Marlon Brando per lo sgargiante musical MGM Bulli e pupe (1955), tratto dal celebre spettacolo di Broadway. Il risultato non è entusiasmante, ma la direzione degli attori è, ça va sans dire, magistrale. Nella foto, i quattro protagonisti: Brando, Jean Simmons, Frank Sinatra e Vivian Blaine. Che classe, signori.
La prima e unica esperienza di Marlon Brando da regista è un ambizioso western che rispecchia il titanismo del suo autore, il quale, insoddisfatto di Kubrick e Peckinpah (!) ha deciso di mettersi anche dietro la macchina da presa. Opera eccessiva e discontinua ma affascinante, sospesa tra violenza, mélo disperato e revenge story dai toni edipici e omoerotici, I due volti della vendetta (1961) è un titolo che ha acquisito, con il passare degli anni, lo status di cult movie.
Fallimentare dal punto di vista commerciale ma esaltante nella dimensione avventurosa vecchio stile (girata in Super Panavision 70), Gli ammutinati del Bounty (1962) racchiude tutta la consumata esperienza del maestro Lewis Milestone, regista del capolavoro All'Ovest niente di nuovo (1930), qui al suo ultimo film. Assolutamente indimenticabile Brando nel ruolo che fu di Clark Gable nel 1935, il quale carica di inquietudine e tormento interiore l'aristocratico primo tenente di vascello Fletcher Christian, promotore dell'ammutinamento. Sul set del film scoppiò l'amore tra Brando e la giovane polinesiana Tarita Teriipia, qui al suo primo e unico film: i due si sposarono nel 1962 e vissero sull'isola di Tetiaroa, di proprietà dell'attore, fino al divorzio, avvenuto nel 1972.
Quasi visionario e sperimentale nel rompere gli schemi di una narrazione classica, anticipando le suggestioni della New Hollywood, La caccia (1966) è uno dei titoli chiave del cinema americano degli anni '60. Arthur Penn, tessendo una fitta rete di personaggi che da più angolazioni converge verso i due protagonisti della vicenda, lo sceriffo Calder (Brando) e il fuggiasco Reeves (Robert Redford), dà vita a un desolante e amarissimo affresco di umana sconfitta. Grandissimo Brando, ancora una volta perfetto nel calarsi nel personaggio, vittima di una scena di pestaggio che mette a disagio ancora oggi per la sua cruda violenza.
Adattando l'omonimo romanzo di Carson McCullers, con Riflessi in un occhio d'oro (1967) John Huston porta in una Hollywood ormai aperta allo sdoganamento di molti tabù un'opera percorsa da temi scabrosi: tradimento, omosessualità, voyeurismo, repressione sessuale. Non è un caso che lo sfondo sia il mondo militare, privato di ogni connotazione bellica e reso come una sorta di gabbia le cui chiuse regole contrastano con le pulsioni che percorrono i protagonisti. Brando, eccezionale nei panni del maggiore Penderton, sposato con la capricciosa Leonora (Elizabeth Taylor), prese il posto di Montgomery Clift, morto poco prima delle riprese. Fotogrammi di Marlon Brando in uniforme militare americana vennero usati dal regista Francis Ford Coppola durante la realizzazione del film Apocalypse Now.
Marlon Bando mentre viene truccato per diventare Don Vito Corleone durante la lavorazione de Il padrino (1972). Alle sue spalle, un divertito Francis Ford Coppola. La storia (del cinema) racchiusa in una foto.
Il cappotto di cammello e l'appartamento sfitto, regressione animalesca e dissertazioni filosofiche, il sax di Gato Barbieri e la fotografia di Vittorio Storaro, ribellione e straziante male di vivere, Francis Bacon e il burro. Tutto questo e molto altro è Ultimo tango a Parigi (1972), più che un film, un mito eterno, controverso e intramontabile. Il disagio esistenziale di Marlon Brando nel film è qualcosa che va oltre i semplici confini del cinema. Perché quando Bernardo Bertolucci raggiunge questi livelli, non ce n'è per nessuno.
Marlon Brando e Jack Nicholson, entrambi all'apice della popolarità, hanno recitato insieme nel picaresco western Missouri (1976) di Arthur Penn. Il contributo di Brando è andato però ben oltre la semplice recitazione: l'eccentrico personaggio dello stravagante cacciatore di taglie Lee Clayton è interamente una sua creazione e resta una delle maschere più memorabili della sua carriera. Ossessionato dall'igiene, capace di improbabili travestimenti, micidiale tiratore, Clayton ha dentro di sé tutto l'istrionismo, il genio e la titanica imponenza di quello che molti, Nicholson incluso, hanno indicato come il più grande attore di tutti i tempi.
«È il voler giudicare che ci sconfigge». La grandezza di Apocalypse Now (1979), inarrivabile capolavoro firmato Francis Ford Coppola, passa anche dalla prova di un Brando a dir poco monumentale: il colonnello Kurtz che emerge dalle tenebre, illuminato dalla luce caravaggesca di Storaro che rimanda il più possibile lo svelamento del volto, è un'immagine scolpita nella memoria collettiva.
Marlon Brando e Michael Jackson a metà anni '80.
Davide Dubinelli