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Le 10 migliori Coppe Volpi maschili della storia della Mostra di Venezia
James Stewart, River Phoenix e Brad Pitt sono alcuni dei grandi attori che si sono aggiudicati l'ambitissima Coppa Volpi alla Mostra del Cinema di Venezia. Un traguardo artistico che vale un'intera carriera.

Ecco la nostra classifica delle 10 migliori interpretazioni maschili premiate a Venezia:

1) Joaquin Phoenix e Philip Seymour Hoffman, 2012 (The Master)



Il sesto, straordinario film di Paul Thomas Anderson è il ritratto di un'America ferita, a caccia di certezze e maestri da seguire. L'uomo americano, stretto tra gli orrori della Seconda guerra mondiale e l'imminente conflitto in Corea, si muove in cerca di qualcuno che possa guidarlo e aiutarlo a incanalare in maniera costruttiva forza e brutalità dettate dalla disperazione e da nervi a pezzi. «L'uomo non è un animale. Non facciamo parte del regno animale». Affascinante ed ermetica, la pellicola (girata nel formato 70mm) rimane un punto fermo nel recente cinema a stelle e strisce. Uno dei film meglio recitati di sempre, reso unico da una contrapposizione di caratteri di raro spessore concettuale: da una parte Lancaster Dodd (Hoffman), mefistofelico leader ispirato alla figura di L. Ron Hubbard, fondatore di Scientology, dall'altra Freddie Quell (Phoenix), reduce della Marina segnato da ossessioni e impulsi animaleschi, evidenti fin dalla postura. Joaquin Phoenix e Philip Seymour Hoffman, meritatamente premiati entrambi, si sfidano in bravura, ma il risultato è un sostanziale pareggio nel segno dell'eccellenza.

2) River Phoenix, 1991 (Belli e dannati)



Due ragazzi di vita si prostituiscono ma, alla fine, scelgono percorsi molto diversi: Mike (River Phoenix) è un narcolettico che vorrebbe rintracciare la madre; Scott (Keanu Reeves), insofferente alla sua famiglia agiata, abbandonerà la sua vita per amore di una ragazza italiana. Titolo cult firmato Gus Van Sant, Belli e dannati segna il fortunato punto di incontro tra il cinema indie americano e la grande produzione che strizza l'occhio al pubblico mainstream. Sotto il segno di una marcata identità stilistica e visiva e una forte componente autoriale (l'ispirazione, alla lontana, viene dall'Enrico IV di William Shakespeare), il film passa dall'underground al commerciale, alternando vertici di sublime poesia a parentesi un po' ingenue. Trasgressivo, libero e vitale, rimane un piccolo classico anni '90. Memorabile prova di River Phoenix (1970-1993), fratello maggiore di Joaquin, prematuramente scomparso a soli 23 anni in seguito a un'overdose.

3) Michael Fassbender, 2011 (Shame)



Brandon (Michael Fassbender) è un affascinante e stimato professionista newyorkese afflitto da una forte sessuomania che sfoga in incontri occasionali e nella dipendenza da materiale pornografico, senza riuscire a costruire veri rapporti interpersonali. L'arrivo in città della sorella Sissy (Carey Mulligan), problematica e autolesionista, aumenta ulteriormente i suoi problemi. Alla sua opera seconda, Steve McQueen prosegue il suo lavoro di straordinario iperrealismo sul corpo, imprigionato (in un carcere fisico come accadeva nel precedente Hunger o mentale, come in questo caso), spogliato, martoriato, mostrato senza pudori. La sensibilità visuale dell'autore, anche videoartista, migra dalle opprimenti celle nordirlandesi del suo film d'esordio agli asettici interni di una New York tutt'altro che turistica e si giova di un mostruoso Fassbender che, nell'inesorabile discesa agli inferi di Brandon, accetta di sottoporsi a ogni genere di perversione, impressionando per come riesca a mettere a nudo l'anima del personaggio.

4) John Marley, 1968 (Volti)


Prima vera espressione dell'approccio totalitario di John Cassavetes alla sua idea di cinema senza compromessi, costruita in questo caso su un girato dal minutaggio spropositato e su un lavoro al montaggio pluriennale e altrettanto immersivo. Il titolo esprime appieno la voracità dello sguardo del cineasta, forse la voce in assoluto più autarchica di tutta la New Hollywood, rispetto all'utilizzo dei primi piani e alla presa diretta quanto più ravvicinata possibile della recitazione degli attori. Rispetto a Ombre (1959) l'operazione appare viziata da uno spirito più ricercato, impostato e meno autentico, più di maniera e forse troppo diluita nel minutaggio. Ma la potenza deflagrante di quest'affresco privo di qualsiasi mitologia, a gamba tesa contro la dottrina incolore della buona e ipocrita famiglia perfetta americana, non può certo dirsi inferiore. Raramente si è vista una recitazione così spontanea e naturale. Nonostante la scorza anticommerciale e la realizzazione pionieristica completamente off rispetto all'industria hollywoodiana, la pellicola ha ottenuto tre nomination agli Oscar: miglior sceneggiatura originale (Cassavetes,) miglior attrice non protagonista (Lynn Carlin) e miglior attore non protagonista (Seymour Cassel).

5) Luca Marinelli, 2019 (Martin Eden)



Al suo esordio nella fiction pura, Pietro Marcello si confronta con il celebre romanzo omonimo (1909) di Jack London, attraverso un’operazione che reinterpreta liberamente la pagina scritta. Manifesto poetico dal sapore fiabesco, il film si cala perfettamente nell’immaginario del suo autore, regalando momenti di intenso lirismo. Cuore pulsante dell’opera è, ovviamente, il personaggio di Martin Eden, proletario individualista che non scende a compromessi nel mantenere intatto il suo nobile idealismo, messo in discussione solo dall’amore. Girata in Super 16mm, la pellicola rappresenta anche una esperienza cinematografica fuori dal tempo, la cui ricchezza espressiva, a tratti, rischia di diventare fin troppo esibita, ma l’idea di attraversare le epoche senza separarle in maniera rigida rimane una grande intuizione. Intenso, misurato e dolcissimo, Luca Marinelli concede anima e corpo a un personaggio che sembra sentirsi cucito addosso.

6) Colin Firth, 2009 (A Single Man)



Tratto dall'omonimo romanzo di culto (1964) dello scrittore inglese Christopher Isherwood, A Single Man rappresenta l'esordio dietro la macchina da presa dello stilista Tom Ford. Raffinata indagine sul sentimento amoroso, l'isolamento, l'assenza (di speranza) e l'elaborazione del lutto, il film dipinge il vuoto di un'esistenza ormai priva di significato attraverso una messinscena di impeccabile cura formale: ralenti, accensioni di colore e avvolgenti movimenti di macchina diventano però una cornice barocca che soffoca il quadro. In una dimensione intima e ovattata, in cui gli eventi seguono una tragica ritualità, ha una non trascurabile importanza il contesto storico (la crisi cubana), che suggerisce un funzionale clima di paura e incertezza globale. Colin Firth, eccellente, regge il film sulle sue spalle.

7) Toshirō Mifune, 1961 (La sfida del samurai)



Dopo La fortezza nascosta (1958), Akira Kurosawa continua nel percorso di demitizzazione del genere jidaigeki, ponendo al centro della narrazione un protagonista privo dei valori tipici dei samurai (Sanjuro è un ronin, un guerriero che si vende al miglior offerente), ma esaltandone comunque il profondo e radicato codice morale. Azione, dramma, un pizzico di western e tocchi di grottesca ironia: la sceneggiatura, firmata dal regista con Ryuzō Kikushima, procede tra un ritmo serrato e lampi di humor nerissimo, fondendo elementi diversi per creare qualcosa di completamente nuovo. Funzionale la stilizzazione della violenza e un incipit da antologia, con Sanjuro che, attraversando la piazza del paese, incontra solo un cane con una mano in bocca. Sergio Leone prese ispirazione (rasentando il plagio) per il suo Per un pugno di dollari (1964). Grandissima prova di Toshirō Mifune, attore-simbolo del cinema di Kurosawa.

8) Brad Pitt, 2007 (L'assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford)



Dopo aver diretto Chopper (2000), opera prima incentrata sul famoso criminale australiano Mark Brandon "Chopper" Read, Andrew Dominik continua la sua carriera alla scoperta dei “miti criminali”, dedicandosi al più famoso bandito della storia americana. Il film racconta l'ultimo anno di vita di Jesse James e prosegue anche dopo la sua morte, dedicando le ultime sequenze all'interessantissimo tema della mitizzazione amplificata nell'epoca della riproducibilità tecnica: grazie alla fotografia (novità assoluta per l'epoca), molti cittadini “sudisti” ebbero con sé la foto di colui che diventò un paladino degli ideali confederati. Un western contemporaneo di grandissima atmosfera, che trova nella narrazione dai tempi dilatati e nella magnifica composizione dell'inquadratura due elementi di indubbio fascino. Sontuosa fotografia d Roger Deakins e bellissima colonna sonora di Nick Cave. Ottimo Brad Pitt, impegnato in uno dei ruoli più complessi della sua carriera.

9) James Stewart, 1959 (Anatomia di un omicidio)

 
Tratto dall'omonimo best seller di Robert Traver (uscito nel 1958) e magnificamente adattato dallo sceneggiatore Wendell Mayes, Anatomia di un omicidio è uno dei più importanti film giudiziari della storia del cinema e in assoluto una delle vette del viennese Otto Preminger. Scandito dalla musica jazz di Duke Ellington (che regala anche un delizioso cameo), il film è un perfetto meccanismo a orologeria, accattivante fin dai celebri titoli di testa di Saul Bass e contrassegnato da un ritmo incessante dal primo all'ultimo minuto, che tocca il suo apice nella straordinaria sfida verbale tra il personaggio di James Stewart e i due avvocati dell'accusa. Come molte opere di Preminger, è anche un film particolarmente coraggioso e innovativo: i riferimenti allo stupro e la parola “mutandine” diedero scandalo al momento dell'uscita, tanto da venire attaccato dalle frange più puritane dell'America dell'epoca. Superbo Stewart, in uno dei suoi ruoli più giustamente celebri e celebrati.

10) Carlo Delle Piane, 1986 (Regalo di Natale)



Notte di Natale. Quattro amici, Franco (Diego Abatantuono), Lele (Alessandro Haber), Ugo (Gianni Cavina) e Stefano (George Eastman) si incontrano per una partita di poker. A loro si unisce il riservato avvocato Santelia (Carlo Delle Piane), designato come vittima sacrificale: durante la serata, odio, tensioni e invidie emergeranno prepotentemente. Dramma da camera sottilmente feroce e non consolatorio in cui Avati abbandona i consueti toni nostalgici e crepuscolari per concentrarsi sulla rappresentazione di caratterizzazioni chiaroscurali, tra paure, vizi e desideri di rivincita. Un bell'esempio di cinema italiano di qualità realizzato nel pieno di un decennio, gli anni '80, non proprio entusiasmante dal punto di vista delle produzioni nostrane. Splendido il lavoro dell'intero cast, che avrebbe meritato un premio collettivo. Musiche di Riz Ortolani, fotografia di Pasquale Rachini. 
Maximal Interjector
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