«Non si cresce in questa casa»
Percorrendo la variegata filmografia di Steven Spielberg appare evidente come sia dominante uno sguardo fanciullesco verso la realtà, un approccio al racconto da parte di un regista che, a modo suo, non ha mai smesso di crescere. O meglio, che ha saputo conservare e nutrire il bambino che era ed è dentro di lui, invitando gli spettatori a fare altrettanto: non è un caso che i suoi protagonisti siano spesso piccoli (E.T., Il GGG) o sognatori (Incontri ravvicinati del terzo tipo). In questo, sicuramente, ha influito molto la sua biografia, soprattutto se si pensa ad un padre assente e totalmente assorbito dal lavoro, condizione che ha poi portato al divorzio dei suoi genitori. Due elementi che emergono spesso nella filmografia del regista, ma che trovano maggiormente spazio in un’ipotetica trilogia sui bimbi sperduti, di cui lui stesso molto probabilmente si sente parte: Hook – Capitan Uncino, Prova a prendermi e Ready Player One.
«Non vogliamo, non vogliamo, non vogliamo crescere... mai»
Non è un caso che le prime inquadrature di Hook siano destinate ai primissimi piani di bambini con uno sguardo incantato mentre sul palco di una recita scolastica sta andando in scena Peter Pan, o più precisamente, l’incontro tra Peter e Wendy. Un telefono cellulare squilla, Robin Williams risponde, distraendosi proprio nel momento in cui i bambini stanno cantando di non voler crescere mai, mentre la moglie lo invita a non perdersi il meglio dello spettacolo: lui una volta era il simbolo dell’eterna fanciullezza e del gioco, da bambino senza tempo è diventato un adulto che non ha più tempo. Soprattutto per la famiglia e i figli, troppo assorbito dal lavoro e dagli affari, che lo hanno trasformato in un pirata, come sottolinea sagacemente nonna Wendy: l’unico gioco che gli vediamo fare, infatti, è fingere un duello western in ufficio per vedere chi risponde prima quando il telefono cellulare squilla. Pan sradicato da Peter al punto che soffre di vertigini e ha paura di volare: solo quando rischia di perdere i suoi figli inizia a rendersi conto che la sua vita non funziona, trascinato da Trilly sull’Isola che non c’è, dove Capitan Uncino li ha rapiti. Un non-luogo dove un uomo ossessionato dal tempo che passa non trova orologi, se non uno, che gira a vuoto nella bocca di un coccordillo imbalsamato: paure che sono state fermate, ma mai sconfitte del tutto, sempre presenti. Un non-luogo dove l’essere troppo adulto di Peter ha imprigionato i suoi figli, mettendo in pratica quanto detto a parole al piccolo Jack in aereo: «Cresci!». Il film, infatti, può essere simbolicamente letto come una grande discesa nelle profondità della propria anima, dove Hook altro non è (da sempre) che il simbolo dei peggiori difetti dell’adulto, che ora mette in serio pericolo i bambini di Peter, e non solo, vuole uccidere definitivamente Peter Pan, il bimbo che vive in lui: solo riuscendo a ritrovarsi, a capire i suoi figli, riuscirà a salvarli. Non è un percorso facile, anzi, richiede sacrificio e sofferenza (anche fisica, visto come viene trattato inizialmente dai bimbi sperduti) e, soprattutto una forte consapevolezza: non importa, infatti, quante persone gli dicano di credere in lui e che lui sia Peter Pan, è qualcosa cui lui deve arrivare da solo, lavorando su di sé. Una sorta di percorso psicanalitico, che arriva al culmine quando, grazie al suo orsacchiotto d’infanzia, ritrova il ricordo di sua madre, ricorda i motivi per cui non voleva crescere («Tutti quelli che crescono prima o poi devono morire») e ciò che lo ha spinto a diventare grande, il suo pensiero felice («Io volevo essere un padre»): solo allora può tornare a volare ed esultare, come Pan. Diverse le sequenze memorabili, a riguardo: estremamente simbolico il fatto che il primo ad accorgersi di chi sia davvero Peter sia il più piccolo dei bimbi sperduti, come il continuo rimando ai ruoli genitoriali («Il pensiero di mia madre», «Trovati una mamma, perché ne hai tanto, tanto bisogno!», «Voglio la mia mamma!», fino al toccante «Vorrei aver avuto un padre come te»), arrivando alla cena di fantasia in cui Peter inizia a prendere coscienza di chi sia. Giocando.
«Si erano dimenticati di me»
Cosa hanno a che vedere Peter Pan e uno dei truffatori più famosi della storia americana? Cinematograficamente parlando, innanzitutto, una sequenza, con cui Spielberg esplicita il fatto che tra il giovane Peter e Frank Abagnale Jr. ci sia ben più di un elemento in comune. Periodo natalizio (non casuale: quello che maggiormente si lega agli affetti familiari), un bambino vola alla finestra di quella che un tempo è stata casa sua, guardando malinconicamente i suoi genitori che hanno avuto un altro bambino, secondo lui dimenticandolo: lo stesso avviene con Frank, proprio alla vigilia di Natale, quando sbriciando nella finestra di casa della madre, vede che lei ormai si è rifatta una vita, non pensando più a lui.
Ma è giusto fare un passo indietro:
Al di là dell’interesse generale che può suscitare la storia vera di Frank Abagnale Jr., è importante notare come Prova a prendermi riprenda a tutti gli effetti una delle tematiche più care al cinema di Spielberg: la famiglia. Assente, presente, sfasciata, sognata, proiettata: ci sono tutte queste dimensioni nel film, che attraverso le continue fughe di Frank mostri in realtà il grande bisogno di attenzione di un ragazzo che si sente abbandonato, tradito, non voluto. Ma prima di scappare, la vita del giovane sembra essere quasi ideale, e lo sguardo rientra nelle dimensioni principali su cui Spielberg sembra porre l’attenzione, in diversi modi: gli occhi con cui Leonardo DiCaprio guarda Christopher Walken ricevere il premio al Rotary Club vanno oltre alla semplice ammirazione, come va oltre l’incanto il modo in cui lui guarda i suoi genitori ballare, ma lo sguardo è anche quello di intesa tra padre e figlio dopo il primo scambio di identità di Frank. Dopotutto, che sia una dimensione importante, lo esplicita anche Frank Abagnale Senior: «Sai perché gli Yankees vincono sempre? Perché gli avversari non riescono a staccare gli occhi dalle righine delle loro divise». Ma ben presto, la situazione per lui precipita: un padre evasore e una madre fedifraga portano al divorzio, che lui scopre come un fulmine a ciel sereno, tornando da scuola, quando gli avvocati gli chiedono di scegliere con chi debba stare: Spielberg rende perfettamente il senso di confusione e disperazione del ragazzo, in un montaggio rapidissimo tra fuga (interiore? Non solo) e inquadrature soffocanti in camera da letto, con tutti i presenti e i dialoghi che si sovrappongono. A conti fatti Spielberg racconta la storia di un ragazzo che ha imparato ad arrangiarsi perché lasciato a sé stesso, da entrambi i genitori, sempre alla ricerca di una nuova famiglia, e non è un caso che l’unica risata genuina di Frank avviene quando sta cantando assieme a Brenda (esordiente Amy Adams) e ai suoi genitori: la famiglia che lui vorrebbe. Il focus, comunque, è sulla figura paterna, che potremmo definire duplice: la prima è un padre biologico che è una figura a tutti gli effetti negativa, mostrata per aver insegnato a suo figlio a imbrogliare, legato solamente all’apparenza, ma nonostante questo idolatrato da un figlio che sino alla fine cercherà quasi morbosamente di ottenere approvazione e ammirazione da parte sua. Dall’altra parte, Carl Hanratty (Tom Hanks), agente FBI che gli dà la caccia sin dalle prime sequenze ma che ha nei suoi confronti un atteggiamento quasi accudente e che – e non è un caso – ha contatto con lui alla vigilia di Natale, come poi esplicitato dallo stesso Frank: «Carl? Carl!! Buon Natale! Buon Natale Carl! Come mai ci parliamo sempre a natale tu e io?». Anche Carl è divorziato, con una figlia che vede «una volta ogni tanto», ed è proprio lui a confessarlo al ragazzo, dopo che Frank gli ha appena detto «Non sono tuo figlio», accusandolo poi di aver mentito sulla sua situazione familiare. Ed è proprio in questa sequenza finale che si esplicita il desiderio del giovane di essere voluto, accettato, e che le sue continue fughe altro non sono che una incessante ricerca di attenzione:
«A volte è più facile vivere nella menzogna. Ti lascerò volare stasera, Frank. Non proverò neanche a fermarti, perché so che lunedì sarai al lavoro»
«Ah sì? E come fai a saperlo?»
«Guarda, Frank. Nessuno ti dà la caccia».
«Sono nato nel 2027. Dopo la carestia di sciroppo del mais e le rivolte per la larghezza di banda. Dopo che la gente ha smesso di cercare di risolvere i problemi e si limita a tirare avanti. I miei non hanno superato quel periodo, quindi vivo qui in Columbus, in Ohio, con mia zia Alice»
Wade Watts – nome e cognome con la stessa iniziale, come tanti celebri eroi Marvel (Peter Parker, Matt Murdock, Bruce Banner...) – è il protagonista di Ready Player One, film con cui Steven Spielberg ha aggiunto un nuovo capitolo alla sua ricerca della fantascienza, ma non solo. Se è vero che, con la consueta capacità di stare al passo con i tempi, la decisione di adattare le pagine di Ernest Cline arriva proprio nel momento in cui il mondo del web (tra social e videogiochi) per certi versi ha preso il sopravvento su quello reale, torna anche la tematica della fuga, che questa volta è su Oasis. Una fuga non solitaria, ma non è casuale che il protagonista sia un ragazzo senza genitori che in James Halliday vede una sorta di mentore e figura paterna immaginaria, il modello da inseguire quasi ossessivamente, districandosi tra gli innumerevoli easter eggs presenti in Oasis, gioia per gli occhi per un appassionato di cultura pop anni ’80. Eppure, durante la ricerca anche il mito di Halliday finirà quasi per crollare, visto che ilragazzo scoprirà tutte le fragilità e le debolezze, oltre ai grandi errori e conseguenti rimpianti che hanno caratterizzato la vita (reale) del programmatore e inventore di Oasis. Come i pirati in Hook, anche in questo caso i nemici sono adulti, con Nolan Sorrento a vestire i panni del cinico e crudele uomo senza sogni, che vede in Oasis solo un modo per fare soldi e non per coltivare sogni. Allo stesso modo, Wade e i suoi amici sono i bimbi sperduti che cercano di arrivare al termine della ricerca delle tre chiavi per il gusto dell’avventura, per il piacere del gioco, benché consapevoli che si tratti di qualcosa di davvero serio, da affrontare con gli occhi di eterni bambini, quelli che Spielberg non ha mai perso.
«Grazie per avere giocato»
Lorenzo Bianchi
Percorrendo la variegata filmografia di Steven Spielberg appare evidente come sia dominante uno sguardo fanciullesco verso la realtà, un approccio al racconto da parte di un regista che, a modo suo, non ha mai smesso di crescere. O meglio, che ha saputo conservare e nutrire il bambino che era ed è dentro di lui, invitando gli spettatori a fare altrettanto: non è un caso che i suoi protagonisti siano spesso piccoli (E.T., Il GGG) o sognatori (Incontri ravvicinati del terzo tipo). In questo, sicuramente, ha influito molto la sua biografia, soprattutto se si pensa ad un padre assente e totalmente assorbito dal lavoro, condizione che ha poi portato al divorzio dei suoi genitori. Due elementi che emergono spesso nella filmografia del regista, ma che trovano maggiormente spazio in un’ipotetica trilogia sui bimbi sperduti, di cui lui stesso molto probabilmente si sente parte: Hook – Capitan Uncino, Prova a prendermi e Ready Player One.
«Non vogliamo, non vogliamo, non vogliamo crescere... mai»
Non è un caso che le prime inquadrature di Hook siano destinate ai primissimi piani di bambini con uno sguardo incantato mentre sul palco di una recita scolastica sta andando in scena Peter Pan, o più precisamente, l’incontro tra Peter e Wendy. Un telefono cellulare squilla, Robin Williams risponde, distraendosi proprio nel momento in cui i bambini stanno cantando di non voler crescere mai, mentre la moglie lo invita a non perdersi il meglio dello spettacolo: lui una volta era il simbolo dell’eterna fanciullezza e del gioco, da bambino senza tempo è diventato un adulto che non ha più tempo. Soprattutto per la famiglia e i figli, troppo assorbito dal lavoro e dagli affari, che lo hanno trasformato in un pirata, come sottolinea sagacemente nonna Wendy: l’unico gioco che gli vediamo fare, infatti, è fingere un duello western in ufficio per vedere chi risponde prima quando il telefono cellulare squilla. Pan sradicato da Peter al punto che soffre di vertigini e ha paura di volare: solo quando rischia di perdere i suoi figli inizia a rendersi conto che la sua vita non funziona, trascinato da Trilly sull’Isola che non c’è, dove Capitan Uncino li ha rapiti. Un non-luogo dove un uomo ossessionato dal tempo che passa non trova orologi, se non uno, che gira a vuoto nella bocca di un coccordillo imbalsamato: paure che sono state fermate, ma mai sconfitte del tutto, sempre presenti. Un non-luogo dove l’essere troppo adulto di Peter ha imprigionato i suoi figli, mettendo in pratica quanto detto a parole al piccolo Jack in aereo: «Cresci!». Il film, infatti, può essere simbolicamente letto come una grande discesa nelle profondità della propria anima, dove Hook altro non è (da sempre) che il simbolo dei peggiori difetti dell’adulto, che ora mette in serio pericolo i bambini di Peter, e non solo, vuole uccidere definitivamente Peter Pan, il bimbo che vive in lui: solo riuscendo a ritrovarsi, a capire i suoi figli, riuscirà a salvarli. Non è un percorso facile, anzi, richiede sacrificio e sofferenza (anche fisica, visto come viene trattato inizialmente dai bimbi sperduti) e, soprattutto una forte consapevolezza: non importa, infatti, quante persone gli dicano di credere in lui e che lui sia Peter Pan, è qualcosa cui lui deve arrivare da solo, lavorando su di sé. Una sorta di percorso psicanalitico, che arriva al culmine quando, grazie al suo orsacchiotto d’infanzia, ritrova il ricordo di sua madre, ricorda i motivi per cui non voleva crescere («Tutti quelli che crescono prima o poi devono morire») e ciò che lo ha spinto a diventare grande, il suo pensiero felice («Io volevo essere un padre»): solo allora può tornare a volare ed esultare, come Pan. Diverse le sequenze memorabili, a riguardo: estremamente simbolico il fatto che il primo ad accorgersi di chi sia davvero Peter sia il più piccolo dei bimbi sperduti, come il continuo rimando ai ruoli genitoriali («Il pensiero di mia madre», «Trovati una mamma, perché ne hai tanto, tanto bisogno!», «Voglio la mia mamma!», fino al toccante «Vorrei aver avuto un padre come te»), arrivando alla cena di fantasia in cui Peter inizia a prendere coscienza di chi sia. Giocando.
«Si erano dimenticati di me»
Cosa hanno a che vedere Peter Pan e uno dei truffatori più famosi della storia americana? Cinematograficamente parlando, innanzitutto, una sequenza, con cui Spielberg esplicita il fatto che tra il giovane Peter e Frank Abagnale Jr. ci sia ben più di un elemento in comune. Periodo natalizio (non casuale: quello che maggiormente si lega agli affetti familiari), un bambino vola alla finestra di quella che un tempo è stata casa sua, guardando malinconicamente i suoi genitori che hanno avuto un altro bambino, secondo lui dimenticandolo: lo stesso avviene con Frank, proprio alla vigilia di Natale, quando sbriciando nella finestra di casa della madre, vede che lei ormai si è rifatta una vita, non pensando più a lui.
Ma è giusto fare un passo indietro:
Al di là dell’interesse generale che può suscitare la storia vera di Frank Abagnale Jr., è importante notare come Prova a prendermi riprenda a tutti gli effetti una delle tematiche più care al cinema di Spielberg: la famiglia. Assente, presente, sfasciata, sognata, proiettata: ci sono tutte queste dimensioni nel film, che attraverso le continue fughe di Frank mostri in realtà il grande bisogno di attenzione di un ragazzo che si sente abbandonato, tradito, non voluto. Ma prima di scappare, la vita del giovane sembra essere quasi ideale, e lo sguardo rientra nelle dimensioni principali su cui Spielberg sembra porre l’attenzione, in diversi modi: gli occhi con cui Leonardo DiCaprio guarda Christopher Walken ricevere il premio al Rotary Club vanno oltre alla semplice ammirazione, come va oltre l’incanto il modo in cui lui guarda i suoi genitori ballare, ma lo sguardo è anche quello di intesa tra padre e figlio dopo il primo scambio di identità di Frank. Dopotutto, che sia una dimensione importante, lo esplicita anche Frank Abagnale Senior: «Sai perché gli Yankees vincono sempre? Perché gli avversari non riescono a staccare gli occhi dalle righine delle loro divise». Ma ben presto, la situazione per lui precipita: un padre evasore e una madre fedifraga portano al divorzio, che lui scopre come un fulmine a ciel sereno, tornando da scuola, quando gli avvocati gli chiedono di scegliere con chi debba stare: Spielberg rende perfettamente il senso di confusione e disperazione del ragazzo, in un montaggio rapidissimo tra fuga (interiore? Non solo) e inquadrature soffocanti in camera da letto, con tutti i presenti e i dialoghi che si sovrappongono. A conti fatti Spielberg racconta la storia di un ragazzo che ha imparato ad arrangiarsi perché lasciato a sé stesso, da entrambi i genitori, sempre alla ricerca di una nuova famiglia, e non è un caso che l’unica risata genuina di Frank avviene quando sta cantando assieme a Brenda (esordiente Amy Adams) e ai suoi genitori: la famiglia che lui vorrebbe. Il focus, comunque, è sulla figura paterna, che potremmo definire duplice: la prima è un padre biologico che è una figura a tutti gli effetti negativa, mostrata per aver insegnato a suo figlio a imbrogliare, legato solamente all’apparenza, ma nonostante questo idolatrato da un figlio che sino alla fine cercherà quasi morbosamente di ottenere approvazione e ammirazione da parte sua. Dall’altra parte, Carl Hanratty (Tom Hanks), agente FBI che gli dà la caccia sin dalle prime sequenze ma che ha nei suoi confronti un atteggiamento quasi accudente e che – e non è un caso – ha contatto con lui alla vigilia di Natale, come poi esplicitato dallo stesso Frank: «Carl? Carl!! Buon Natale! Buon Natale Carl! Come mai ci parliamo sempre a natale tu e io?». Anche Carl è divorziato, con una figlia che vede «una volta ogni tanto», ed è proprio lui a confessarlo al ragazzo, dopo che Frank gli ha appena detto «Non sono tuo figlio», accusandolo poi di aver mentito sulla sua situazione familiare. Ed è proprio in questa sequenza finale che si esplicita il desiderio del giovane di essere voluto, accettato, e che le sue continue fughe altro non sono che una incessante ricerca di attenzione:
«A volte è più facile vivere nella menzogna. Ti lascerò volare stasera, Frank. Non proverò neanche a fermarti, perché so che lunedì sarai al lavoro»
«Ah sì? E come fai a saperlo?»
«Guarda, Frank. Nessuno ti dà la caccia».
«Sono nato nel 2027. Dopo la carestia di sciroppo del mais e le rivolte per la larghezza di banda. Dopo che la gente ha smesso di cercare di risolvere i problemi e si limita a tirare avanti. I miei non hanno superato quel periodo, quindi vivo qui in Columbus, in Ohio, con mia zia Alice»
Wade Watts – nome e cognome con la stessa iniziale, come tanti celebri eroi Marvel (Peter Parker, Matt Murdock, Bruce Banner...) – è il protagonista di Ready Player One, film con cui Steven Spielberg ha aggiunto un nuovo capitolo alla sua ricerca della fantascienza, ma non solo. Se è vero che, con la consueta capacità di stare al passo con i tempi, la decisione di adattare le pagine di Ernest Cline arriva proprio nel momento in cui il mondo del web (tra social e videogiochi) per certi versi ha preso il sopravvento su quello reale, torna anche la tematica della fuga, che questa volta è su Oasis. Una fuga non solitaria, ma non è casuale che il protagonista sia un ragazzo senza genitori che in James Halliday vede una sorta di mentore e figura paterna immaginaria, il modello da inseguire quasi ossessivamente, districandosi tra gli innumerevoli easter eggs presenti in Oasis, gioia per gli occhi per un appassionato di cultura pop anni ’80. Eppure, durante la ricerca anche il mito di Halliday finirà quasi per crollare, visto che ilragazzo scoprirà tutte le fragilità e le debolezze, oltre ai grandi errori e conseguenti rimpianti che hanno caratterizzato la vita (reale) del programmatore e inventore di Oasis. Come i pirati in Hook, anche in questo caso i nemici sono adulti, con Nolan Sorrento a vestire i panni del cinico e crudele uomo senza sogni, che vede in Oasis solo un modo per fare soldi e non per coltivare sogni. Allo stesso modo, Wade e i suoi amici sono i bimbi sperduti che cercano di arrivare al termine della ricerca delle tre chiavi per il gusto dell’avventura, per il piacere del gioco, benché consapevoli che si tratti di qualcosa di davvero serio, da affrontare con gli occhi di eterni bambini, quelli che Spielberg non ha mai perso.
«Grazie per avere giocato»
Lorenzo Bianchi