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I cinque sensi in cinque film: multisensorialità nel cinema italiano

Vi è mai capitato, durante la visione di un film, di percepire una stimolazione multisensoriale inaspettata?

Al cospetto del grande (o piccolo) schermo, è indiscutibile vista e udito vengano chiamati all'interazione per primi, ma nel momento in cui ci abbandoniamo completamente allo spettacolo cinematografico il coinvolgimento può risultare tanto viscerale da far vibrare anche l’olfatto, il tatto e, perché no, il gusto: come dimenticarsi, ad esempio, di Chocolat e dei suoi avvolgenti vizietti al cacao?





Cinque registi italiani, ognuno contraddistinto da una poetica e una “grammatica” cinematografiche personalissime, per ciascuno dei cinque sensi: nel tentativo di ammaliare la vostra percettività attraverso la magia della Settima Arte, abbiamo stilato una personale cinquina di film permeati da un fascino indiscutibile dal punto di vista dell’estetica sensoriale.


VISTAIl Conformista di Bernardo Bertolucci (1970)





Bernardo Bertolucci eredita dall’idolo (e amico) Jean-Luc Godard, instancabile sperimentatore della commistione cinema-pittura, l’elegante e inconfondibile gusto per il pittoricismo. Ma è soprattutto grazie alla collaborazione con il grande direttore della fotografia Vittorio Storaro se l’intera filmografia del regista parmense si rivela costellata di immagini di rara bellezza iconografica, pregne di riferimenti sublimi alle arti figurative. In Strategia del ragno (1970), ad esempio, fanno da sfondo ai titoli di testa le tigri ruggenti del pittore Antonio Ligabue; ma ancor più evidente è l’omaggio al surrealismo di René Magritte, in particolare ai suoi ‘Golconda’ (1953) e ‘Le vacanze di Hegel’ (1958).


 




Ad ogni modo, è con Il conformista (1970) che il sodalizio tra Bernardo Bertolucci e Vittorio Storaro dà alla luce un dipinto scenografico rappresentante un unicum nella storia del nostro cinema (forse del cinema tutto).



Regista e direttore della fotografia compongono un mosaico visivo ― e vivente ― nel quale si incastrano perfettamente pieni e vuoti, luci e ombre, bianchi e neri


Quello portato in scena da regista e DoP è un tessuto urbano in cui spazi ed edifici apparentemente maestosi si rivelano inabitati: veri e propri non luoghi asettici entro i quali si muovono figure dell’assenza. Il risultato è un disegno finissimo e dal fascino indiscutibile, dove risuona l’eco della pittura metafisica di Giorgio De Chirico, del Novecentismo di Mario Sironi e dell’Art Nouveau.





 



UDITOC’era una volta il West di Sergio Leone (1968)

Quando si nomina C’era una volta il West, il primo pensiero non può che volare a quel celeberrimo dolly che, sulle meravigliose note di Ennio Morricone, spalanca davanti ai nostri occhi l’universo  della frontiera: un universo prossimo a un cambiamento radicale, come suggerisce la ferrovia in costruzione. In questo frangente, però, oggetto particolare della nostra attenzione (e ammirazione) è l’incipit del film: l’arrivo di Armonica alla stazione. 





In appena dieci minuti Sergio Leone ed Ennio Morricone orchestrano una vera e propria sinfonia di suoni diegetici ed extra-diegetici, costruendo un climax musicale (e tensivo) senza eguali. Il concerto prende il via con una serie di rumori appartenenti alla prima categoria: alcuni sono suoni tenui e piacevoli, quasi cullanti; altri verrebbero comunemente classificati come sgradevoli e irritanti, ma è bene sottolineare che, in questo specifico caso, non risultano mai cacofonici. Ciascuno di questi suoni costituisce una sorta di “epiteto” acustico per ogni personaggio in scena: lo scrocchiare delle dita (Knuckles), la mosca che tormenta Jack Elam, l’acqua che picchietta sulla testa di Woody Strode. Ad essi andranno ad aggiungersi progressivamente i boati del treno e il cigolio della pala eolica. Infine, come un canto funebre, ecco sopraggiungere l’armonica dell’antieroe protagonista, sulla cui base si innesta il motivo orchestrale extra-diegetico di Morricone.






GUSTOLa grande abbuffata di Marco Ferreri (1973)

A proposito di gusto e di piaceri sensoriali, come non guardare a La grande abbuffata di Marco Ferreri? 





Quattro uomini di estrazione borghese – Marcello (Mastroianni), pilota d’aerei, Ugo (Tognazzi), chef, Philippe (Noiret), uomo di legge, Michel (Piccoli), regista televisivo – si ritirano in una cupa villa di Parigi insieme ad alcune prostitute. Il fine? Compiere un emblematico suicidio indotto da una scorpacciata senza fine di cibo e sesso. Regista anticonformista per eccellenza, autore scandaloso e uomo di pancia (e di sostanza), Ferreri porta in scena un kammerspiel interamente improntato sugli eccessi e gli istinti primari, inclusi quelli più pruriginosi e volgari. Presentato in concorso al Festival di Cannes nel 1973, la conturbante opera di Ferreri fu accolta da sputi e fischi: ma a chi lo accusava di cattivo gusto e consumismo, il regista rispondeva che, al contrario, il suo film parlava di ecologia. Affresco allegorico, vorace e conturbante dell’autodistruzione e nella coazione a ripetere propria del sistema capitalista, è proprio nell’eccesso gastronomico che Ferreri veicola la propria critica nei confronti della vacuità del lusso.



Siete grotteschi, grotteschi e disgustosi. Perché mangiate, se non avete fame? Non è possibile, non è fame!



 


OLFATTOChiamami col tuo nome di Luca Guadagnino (2017)



Oh, to see without my eyes




Opinione personale e profondamente soggettiva (i lettori potrebbero non aver percepito le nostre stesse sensazioni): la visione di Chiamami col tuo nome ha risvegliato la nostra memoria olfattiva come nessun altro film aveva mai fatto fino ad ora. Il rischio è di risultare eccessivamente romantici e nostalgici, è vero, ma è altrettanto reale la commozione che ha suscitato in noi questo delicato idillio cremasco: sollecitando i ricordi attraverso una serie di quadri permeati da odori estivi, il film diviene un album di diapositive mnemoniche davanti alle quali è impossibile non sussultare per l’emozione.





Le corse in bicicletta in mezzo ai campi, le serate nelle discoteche all’aperto tra (troppi) drink e sigarette, l’acqua gelida dei ruscelli che scorre frettolosa, i frutti appena colti, le cene al tramonto con i capelli ancora bagnati – dolci o salati, il sudore della pelle, le fronde verdi smeraldo sulle quali scrosciano i temporali: ogni elemento audiovisivo di questo film profuma d’estate. E profuma della sua spensieratezza, così come della sua malinconia: nei confronti delle amicizie lontane, degli amori fugaci (ma intensi), di quel sole che appena si fa agosto inizia già a tramontare troppo presto.


 





 


TATTO - Il mestiere delle armi di Ermanno Olmi (2001)

La parola tatto fa rima con manualità. Ed è proprio la manualità, o meglio, l'artigianalità a costituire il cuore pulsante della cinematografia di Ermanno Olmi. Padre ferroviere e madre operaia, da giovane è iscritto all'Accademia di Arte Drammatica di Milano e lavora come fattorino presso la Edison-Volta, dove già era impiegata la madre. Qui viene incaricato di dirigere le attività ricreative dei dipendenti e di documentare la produzione industriale attraverso filmati: è la prima volta che tocca con mano il mezzo cinema. Da questo momento in avanti, mattone dopo mattone, Ermanno Olmi andrà costruendo minuziosamente, indefessamente un nido sicuro per il popolo umile e lavoratore: un corpus di opere i cui protagonisti - quasi sempre non attori - si tramutano in archetipi della tradizione contadina; un ciclo epico dal sapore arcaico in cui la spiritualità risiede nella materia, fosse anche logora o dimessa.




Se tatto fa rima con manualità, artigianalità fa rima con mestiere: delle armi, nel caso del film realizzato da Olmi nel 2001.



È il denaro che fa la guerra


Cronaca degli ultimi giorni di vita del condottiero Giovanni delle Bande Nere (1526), il lungometraggio possiede un'importante valenza storiografica. Al centro della narrazione, infatti, vi è la cruciale svolta tecnologica che cambiò per sempre l'arte della guerra: cosa possono le armature contro i falconetti dei Lanzichenecchi? Sorpassata la tradizione guerresca dello scontro corpo a corpo, quanto possono valere il coraggio e la possanza del singolo guerriero?
Il nobile mestiere delle armi è giunto al tramonto: protagonisti di ardimentose gesta (destinate a sopravvivere, per fortuna, nelle migliori pagine della storia letteraria), gli intrepidi cavalieri periscono inermi sotto i colpi dei cannoni. È la fine di un'epoca e di un intero sistema di valori.


Viola Franchini

Maximal Interjector
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