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Violenza e poesia nel cinema astratto di Kim Ki-duk
Kim Ki-duk (20 dicembre 1960 – 11 dicembre 2020) è stato senza ombra di dubbio uno dei registi più interessanti del cinema contemporaneo, non solo per quanto riguarda l'oriente. Sin dal suo esordio, con Crocodile, il cineasta coreano ha mostrato una poetica ben precisa, complessa e rarefatta, ma anche attenta ai temi del potere, della violenza e del corpo: ecco la nostra classifica dei suoi diceci migliori film.

10) Crocodile (1996)



Operaio, ufficiale nell'esercito, pittore di strada a Parigi: dopo una vita da apolide e “cittadino del mondo”, a 35 anni Kim Ki-duk esordisce al cinema, ed è subito colpo di fulmine. Crocodile contiene in embrione già tutte le caratteristiche che renderanno il regista asiatico uno dei nomi più importanti e “anomali” della sua generazione, osannato all'estero e poco considerato in patria. A partire dalla feroce critica alla Corea – e alla corsa al capitalismo – contemporanea: il protagonista Coccodrillo è un essere umano abietto, uno scherzo della natura in quanto riflesso e figlio degenere di una società imbevuta di odio perché soggiogata alle proprie pulsioni. 

9) Soffio (2007)



Dal realismo “magico” si passa a una visione più “terrena” e disperata, in cui la necessità di creare nuovi vincoli affettivi alieni da quelli programmatici e asettici della quotidianità redime e allo stesso tempo condanna. La passione e il sentimento, nella logica di Kim, forse non ci salveranno più. O perlomeno val la pena osservare e accettare entrambi i lati della medaglia, ben rappresentati dalla metafora del “soffio” che dà il titolo alla pellicola: il respiro è vita/presenza e contiene quasi per definizione una connotazione positiva, ma è anche morte/assenza, perché destinato a non poter durare in eterno.

8) Indirizzo sconosciuto (2001)



Pyongtaek è sede di una delle più importanti battaglie svoltesi durante la Guerra di Corea. I personaggi al centro della scena non compaiono dal nulla, ma fanno quotidianamente i conti con un contesto storico che li ha privati di identità relegandoli ai margini. In questo contesto assumono un'importanza cruciale i silenzi, l'unico modo di esprimersi di esistenze vuote e “a perdere”, che hanno smarrito il proprio significato nel mondo e a cui non resta che un'attesa – quella delle lettere rispedite al mittente a causa dell'indirizzo inesistente che dà il titolo al film – destinata al fallimento. 

7) The Coast Guard (2002)



Il “sonno della ragione” va individuato nella frattura insita in una nazione che a causa della guerra ha smarrito la propria identità non solo civile, ma anche umana. Sembra quasi un cammino di sfogo e redenzione per il medesimo Kim, che sente la necessità di non nascondersi più dietro l'eccesso di metafore e simbolismi. I “mostri” prendono la forma “patologica” di corpi fantasmatici ossessionati dalla violenza e dalla follia, strumenti destinati a espiare i peccati del mondo per permettere al cineasta dietro la macchina da presa di chiudere un ciclo e iniziarne un altro.

6) Bad Guy (2002)



Hang-gi è il personaggio archetipico di Kim, quasi sempre presente nella prima parte della sua carriera: un essere umano reietto e rigettato dalla società, animalesco nei gesti e nella visione della vita. Un solitario, cui tuttavia viene concesso il beneficio di un incontro che apparentemente non ha alcuna ragion d'essere. La provocazione di Bad Guy sta tutta nella scelta di rendere il punto di vista dello spettatore aderente a quello di un carattere “anormale” che ci repelle, sviluppando una complicità grottesca e paradossale atta alla finale sospensione del giudizio nei suoi confronti.

5) L'isola (2000)



Il regista Kim Ki-duk si sposta dal contesto cittadino a un non-luogo sospeso nel nulla, in cui poter radicalizzare la propria riflessione sul cinema e sulla vita. Sull'isola ogni legge è sospesa e, nella mancanza apparente delle istituzioni, si creano nuovi codici (im)morali da seguire. La dimensione urbana viene sostituita da una regressione allo stato brado, fondata sulla “corporalità” come unica modalità linguistica possibile. 

4) La samaritana (2004)



Suddiviso nei capitoli Vasumitra, Samaria e Sonata, La samaritana affonda nuovamente le mani in un contesto di sopraffazione, violenza e anomala sacralità. Kim al solito osserva e non giudica, mostrando tuttavia un insolito pudore: che si tratti di sessualità o di aggressività suicida-omicida, il “gesto” viene lasciato fuori campo o solo sommariamente descritto. È una precisa scelta di stile, per non distrarre dal senso ultimo dell'allegoria: il mondo oscilla fra incomunicabilità e perversione, e per la protagonista l'unica espiazione possibile sarà una sorta di personale “evangelizzazione”. 

3) Pieta (2012)



A colpire è la caratterizzazione data ai personaggi, scritta con cura sin dalle prime sequenze: la violenza dell'esattore protagonista è feroce e smodata, così come la sottomissione della madre supera ampiamente la soglia del masochismo. L'opera mette sul piatto una cattiveria e una disperazione simboliche e significative, necessarie – come afferma lo stesso Kim – per «resistere alla crudeltà del capitalismo che uccide gli esseri umani». Lo sguardo nei confronti della “sua” Corea si fa aspro, la società sfrutta se stessa ed è dominata da un determinismo che degrada e umilia. 

2) Primavera, estate, autunno,inverno... e ancora primavera (2003) 



La vita è una eterna coazione a ripetere, che segue la circolarità imperturbabile delle stagioni, e l'essere umano asseconda inesorabilmente questa logica. Il susseguirsi di conoscenze e sofferenze, di gioie e dispiaceri è per Kim un disegno già scritto, non il frutto di libere scelte: gli insegnamenti dei maestri non servono a evitare gli errori, bensì a comprenderli e a farne uso quando a nostra volta ci ritroveremo a “istruire” coloro i quali ne avranno bisogno. Una riflessione limpida e articolata attraverso i cinque capitoli di riferimento, associati a cinque animali “simbolo” – un cane, un gallo, un gatto, un serpente e una tartaruga – e ad altrettanti registri narrativi: fiaba e commedia, dramma e ironia, fino al catartico epilogo morale.

1) Ferro 3 – La casa vuota (2004) 



In poco meno di 90 minuti il regista coreano Kim Ki-duk condensa tutte le caratteristiche e i connotati che ne hanno fatto la fortuna in Occidente (e che ne hanno sancito definitivamente il pressoché totale disinteresse in patria), a partire dalla ardita e insondabile commistione fra realtà e fantasia, che percorre l'intera messinscena “in punta di cinepresa” senza costringerci a interpretazioni e morali univoche, con una commistione di toni e livelli sorprendente, vibrante, eccezionale. Il cinema di Kim è fatto per alimentare dubbi, non per fornire risposte: il percorso dei due protagonisti potrebbe sembrare ingenuo e irritante ma è invece sospeso e intrigante come poche altre cose del cinema contemporaneo, il registro filmico utilizzato, invece, sfiora la trascendenza e con la medesima naturalezza affonda le mani nella violenza.

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