Mank, com’è ormai noto, è la storia di Herman J. Mankiewicz (Gary Oldman), per gli amici "Mank", grande sceneggiatore che lavorò a Hollywood dalla fine degli anni Venti. Alcolizzato e spesso in rotta con i produttori, Mankiewicz un giorno venne chiamato da Orson Welles per realizzare il copione di quello che sarebbe poi diventato uno dei film più importanti della storia del cinema: Quarto potere, del 1941.
Mank di David Fincher, che la genesi vera e propria di quel capolavoro la tiene quasi fuori campo (e lo fa per ideologica scelta di campo), è un sontuoso trattato su Hollywoodland (nome che a quel tempo ancora deteneva), come grande inganno crudele e insieme consolatorio, radiografia impetuosa di un’energia creativa ingestibile, autolesionista e contraddittoria (quella di Mank, certo, ma anche della “fabbrica dei sogni” tout court): una Victorville, per citare il cartello della città californiana con cui si apre Mank, dove i vincitori e vinti, nel tragico come nel ridicolo, fatalmente coesistono, come due facce identiche di uno stesso, a seconda dei casi inutile o salvifico, testa o croce col destino, l’azzardo, l’inatteso. Una zona franca dell’immaginario dove l’unica cosa che importa, alla fine della fiera, è che il pubblico creda che “King Kong sia alto 11 piani e che Mary Pickford sia vergine a 40 anni”. Perché dopotutto, se continui a dire le cose alle persone a voce e abbastanza a lungo, è probabile che ci credano.
In Mank facciamo i conti con una “macchina da soldi” e un "oppio dei popoli” che, a forza di guardarsi allo specchio e fare la conta dei propri demoni, si scoprono a sorpresa balsamo per la mente e per il cuore, bugia definitiva e indispensabile dopo la quale tutto svanisce, trucco infantile e dunque esaltante, motore e approdo ultimo di ogni ossessione, prigione dorata più accogliente che si possa immaginare. La fotografia in bianco e nero di Eric Messerschmidt (già DOP per Fincher e Neflix in Mindhunter), che simula quella dell’epoca, crea una sospensione dell’incredulità in cui la crisi e i fantasmi del cinema, quelli di ieri e quelli di oggi, in tempi così fragili e incerti, sono convocati simultaneamente e consegnati allo spettatore in un intreccio di presente e passato. A contare, dopotutto, come si dice nella Writers Room delle grandiose penne per il cinema di quegli anni, è la nefasta inutilità dell’uomo che imita Dio, il patto faustiano tra la vita e la morte (c’è qualcosa di più cinematografico di questa coesistenza tra presenza e assenza rispetto alla vita, che il cinema non a caso cattura come nessun altro medium?), lo spirito della bestialità incanalato nella nostra fin troppo solida corporeità.
Non sarebbe certo il caso di applicare al film di Fincher forzose e sterili letture contemporanee, va da sé. Eppure, per la natura intrinseca del prodotto e per la collocazione temporale in un anno segnato dalla pandemia e dalla messa in discussione della fruizione nelle sale, è anche un meccanismo inevitabile. Guardando Mank, la forza del suo para-testo legato a ciò che stiamo vivendo è già tutto lì, presente e vivo: il lungometraggio è stato scritto dal padre del regista, Jack, scomparso nel 2003 e rimasto l’unico a essere accreditato alla sceneggiatura (anche se è difficile credere il figlio non ci abbia rimesso mano in tutto questo tempo), eppure potrebbe sembrare scritto domani.
All’inizio degli anni ’30 Mank conosce infatti William Randolph Hearst (Charles Dance), editore e sommo magnate e tycoon dei media, sul set di una produzione MGM, studio hollywoodiano di cui è finanziatore e azionista in tempi di recessione. La stessa funzione salvatrice che Netflix ha esercitato su Mank: costoso biopic, tra l'altro sui generis, in bianco e nero e per un pubblico di fatto ristretto (il film, dopo la sua uscita, è ben lontano dal figurare nelle top ten dei titoli più visti della piattaforma di Los Gatos) e manufatto cinematografico arthouse che poche major di questi tempi si sarebbero sobbarcate, come già accaduto con Roma di Alfonso Cuarón e The Irishman di Martin Scorsese. Hearst, dal canto suo, dice a Mank che i tempi stanno cambiando, non solo in rapporto alla Grande Depressione, che i registi dovranno mettersi al servizio di un nuovo intrattenimento e che lui intende far leva sui letterati in un panorama creativo ormai dedito solo a gangster e buffoni, intenti a ingolfare le sale americane in quantità industriale anche se la maggior parte degli statunitensi, di gangster, difficilmente ne incontrerà anche solo uno in una vita intera.
Uno slittamento al quale nei prossimi anni potremmo verosimilmente doverci rassegnare, con le sale chiamate a ospitare solo blockbuster e cinecomic (tra l'altro con finestre on demand contemporanee) e prodotti medio-piccoli e di nicchia a rimanere appannaggio dello streaming, demonizzato dai cinefili più oltranzisti e invece caricato, nemmeno troppo sottobanco, di una responsabilità cruciale sul piano storico. Mank, un po' sornionamente, sembra individuare una salvezza e una forma di resistenza terminale proprio nella “scrittura” del cinema più che nella messa in scena, ed è una transizione del prodotto d’autore cui nei prossimi anni potremmo altrettanto facilmente assistere. Fincher, che nel frattempo ha firmato un accordo di 4 anni con Netflix, ha dichiarato in proposito: “L’ascesa dei servizi di streaming corrisponde a un periodo in cui pare che nessuna major possa permettersi di finanziare un film che incassa meno di un miliardo di dollari: oggi, senza streaming, dovremmo tutti scimmiottare la Marvel”.
Mank, in virtù di tutto ciò, si presenta come un ingranaggio di scrittura a orologeria dove ovviamente la megalomania del grande scrittore incompreso, per una volta, conta più del titanismo risaputo del regista-totale e il puro dato lascia il posto e presta il fianco alla contro-Storia apocrifa, con in sottofondo un preciso discorso teorico sui serbatoi e i limiti della creatività. Da un lato l’eterno presente della crisi del cinema, arte spuria, giovanissima e condannata alla fatalità del mercato fin dalle sue origini, e dall’altro il cinema che ha resistito a tutte le temperie del ventesimo secolo e non ne vuole sapere di soccombere, nemmeno alla fine del secondo decennio del ventunesimo.
Nella velocità forsennata e bulimica della scrittura, nel suo impeto performativo e nel ribaltamento della Storia e del già noto, in Mank c’è perfino un slancio proprio dell’ultimo Tarantino, quello da Bastardi senza gloria in poi, con lo stesso piacere malsano per scene madri dialogatissime che sono enormi set-up (ma anche set pieces) in cui il virtuosismo furoreggia. Il ridimensionamento nella lavorazione di Quarto potere del titano Orson Welles (ridotto a mistero buffo, a risata diabolica e sfocata, sulle orme della contestata lezione di Pauline Kael) diventa una sorta di trionfo postumo del verosimile nemmeno troppo plausibile: la lesa maestà del genio si traduce però soprattutto, come in un Tarantino storicamente sovversivo catapultato in dei soffusi ma vividissimi anni ’30, in un’ode estrema alla vulnerabilità della parola, della sceneggiatura, di questa forma d’arte così fondamentale ma anche così transitoria e precaria, sicuramente messa in secondo piano dall’affermazione universalmente riconosciuta, nell’agenda cinefila della modernità, della politica degli autori. E tuttavia così simile, sembra dirci Fincher, alla natura più profonda e inafferrabild del cinema stesso: Mank, in tal senso, è forse il più grande omaggio di ogni ordine e grado mai realizzato, da parte di un regista, alla figura dello sceneggiatore, ed è giusto e legittimo che gli sceneggiatori di professione lo eleggano a loro sommo totem e nume tutelare. Da esibire, magari, con la vanità mondana di una spilla sulla giacca, tirandolo fuori al momento opportuno per difendere una categoria spesso sotto-studiata e sotto-considerata.
A risplendere di luce opaca e dannata, al posto del declassato Welles, sono i tormenti forbiti di Mank, i suoi svolazzi ammalianti da paroliere e giullare coltissimo, il suo aggrapparsi agli spettri - di carta, su carta - del Novecento un attimo prima che vengano spazzati via dalla prepotenza della “modernità” cinematografica che sta per arrivare, e della quale Quarto potere è il simbolo più immediato, celebre, codificato e risonante. Uscirne come i più intelligenti del gruppo, alla luce di ciò, è solo la più magra delle consolazioni. Lo sa bene, oltre ovviamente a Mank, anche Upton Sinclair, lo scrittore socialista autore di Petrolio! (da cui Paul Thomas Anderson trarrà il suo Il petroliere), che in quegli anni cerca di diventare governatore della California inseguendo chimere utopiche per l’America, con una vocazione marginale ma fortemente archetipica e identitaria non dissimile da un Bernie Sanders o una Alexandria Ocasio-Cortez di oggi.
Al di là della verità e dell’attendibilità del dietro le quinte del making of di Quarto potere (di cui poco importa, al cospetto di un tale senso dell’invenzione e dello stupore), il nucleo di Mank sta tutto in questo scarto struggente e malinconico, nella transizione tra ciò era e ciò che sarà. Un film pieno di vezzi vintage eppure spudoratamente declinabile al presente, in cui le possibilità sterminate ma anche le limitazioni della libertà creativa sembrano brutalmente e dannatamente le stesse, ieri come oggi.
Sopravvivono il tutto e il niente, l’effimero e il concreto, a ostruire la vista e occupare la scena tanto con le vecchie major quanto coi nuovi colossi, in un’ideale punto di congiunzione tra la fiorente Netflix (e i suoi dati di visione impalpabili e mai esplicitamente comunicati) e i corridoi, così analogici, rutilanti e circensi, della MGM ma anche della Paramount e dell’RKO che a soli ventiquattro anni diede a Welles libertà totale e incondizionata su forme, contenuti, temi, collaboratori. Mank, dopotutto, ha visto chiunque, ha conosciuto tutti, da Louis B. Mayer (la M della MGM è quella del suo cognome) a David O. Selznick passando per Irving Thalberg, e incredibilmente è sopravvissuto. A chiunque, ma non a se stesso. Nel film, non a caso, è presentato come un Re Lear scampato alla notte nera (e dell’anima) di Hollywood, che al colmo della doppiezza ontologica della "Mecca del Cinema" coincide anche con la sua Golden Age.
Il cinema, specialmente nelle meravigliose sequenze ambientate nella residenza di Hearst e dell’amante Marion Davies (Amanda Seyfried) sulle colline di San Simeon (“Ciò che si sarebbe costruito Dio se avesse avuto i soldi", dice Mank alla Davies citando George Bernard Shaw) si presenta come un ballo in maschera da seduti tra fantasmi vestiti a festa, alla ricerca di un colpo da maestro che possa riscattarli come personaggi (della più grande storia mai raccontata, magari), ancor prima che come esseri umani. E Mank il cinema lo presenta come conforto e come trappola, dovendo scegliere solo due parole (“Avessi avuto più tempo avrei scritto una lettera più breve”, dice Mank saccheggiando Blaise Pascal: un mantra irrinunciabile per chiunque posi una penna su un foglio o un dito su una tastiera), con gusto per lo sberleffo ma anche con abbagliante lucidità, tanto cinica quanto romantica. “A prova di regista”, avrebbe detto, stavolta, proprio Mank in persona.
Davide Stanzione
Mank di David Fincher, che la genesi vera e propria di quel capolavoro la tiene quasi fuori campo (e lo fa per ideologica scelta di campo), è un sontuoso trattato su Hollywoodland (nome che a quel tempo ancora deteneva), come grande inganno crudele e insieme consolatorio, radiografia impetuosa di un’energia creativa ingestibile, autolesionista e contraddittoria (quella di Mank, certo, ma anche della “fabbrica dei sogni” tout court): una Victorville, per citare il cartello della città californiana con cui si apre Mank, dove i vincitori e vinti, nel tragico come nel ridicolo, fatalmente coesistono, come due facce identiche di uno stesso, a seconda dei casi inutile o salvifico, testa o croce col destino, l’azzardo, l’inatteso. Una zona franca dell’immaginario dove l’unica cosa che importa, alla fine della fiera, è che il pubblico creda che “King Kong sia alto 11 piani e che Mary Pickford sia vergine a 40 anni”. Perché dopotutto, se continui a dire le cose alle persone a voce e abbastanza a lungo, è probabile che ci credano.
In Mank facciamo i conti con una “macchina da soldi” e un "oppio dei popoli” che, a forza di guardarsi allo specchio e fare la conta dei propri demoni, si scoprono a sorpresa balsamo per la mente e per il cuore, bugia definitiva e indispensabile dopo la quale tutto svanisce, trucco infantile e dunque esaltante, motore e approdo ultimo di ogni ossessione, prigione dorata più accogliente che si possa immaginare. La fotografia in bianco e nero di Eric Messerschmidt (già DOP per Fincher e Neflix in Mindhunter), che simula quella dell’epoca, crea una sospensione dell’incredulità in cui la crisi e i fantasmi del cinema, quelli di ieri e quelli di oggi, in tempi così fragili e incerti, sono convocati simultaneamente e consegnati allo spettatore in un intreccio di presente e passato. A contare, dopotutto, come si dice nella Writers Room delle grandiose penne per il cinema di quegli anni, è la nefasta inutilità dell’uomo che imita Dio, il patto faustiano tra la vita e la morte (c’è qualcosa di più cinematografico di questa coesistenza tra presenza e assenza rispetto alla vita, che il cinema non a caso cattura come nessun altro medium?), lo spirito della bestialità incanalato nella nostra fin troppo solida corporeità.
Non sarebbe certo il caso di applicare al film di Fincher forzose e sterili letture contemporanee, va da sé. Eppure, per la natura intrinseca del prodotto e per la collocazione temporale in un anno segnato dalla pandemia e dalla messa in discussione della fruizione nelle sale, è anche un meccanismo inevitabile. Guardando Mank, la forza del suo para-testo legato a ciò che stiamo vivendo è già tutto lì, presente e vivo: il lungometraggio è stato scritto dal padre del regista, Jack, scomparso nel 2003 e rimasto l’unico a essere accreditato alla sceneggiatura (anche se è difficile credere il figlio non ci abbia rimesso mano in tutto questo tempo), eppure potrebbe sembrare scritto domani.
All’inizio degli anni ’30 Mank conosce infatti William Randolph Hearst (Charles Dance), editore e sommo magnate e tycoon dei media, sul set di una produzione MGM, studio hollywoodiano di cui è finanziatore e azionista in tempi di recessione. La stessa funzione salvatrice che Netflix ha esercitato su Mank: costoso biopic, tra l'altro sui generis, in bianco e nero e per un pubblico di fatto ristretto (il film, dopo la sua uscita, è ben lontano dal figurare nelle top ten dei titoli più visti della piattaforma di Los Gatos) e manufatto cinematografico arthouse che poche major di questi tempi si sarebbero sobbarcate, come già accaduto con Roma di Alfonso Cuarón e The Irishman di Martin Scorsese. Hearst, dal canto suo, dice a Mank che i tempi stanno cambiando, non solo in rapporto alla Grande Depressione, che i registi dovranno mettersi al servizio di un nuovo intrattenimento e che lui intende far leva sui letterati in un panorama creativo ormai dedito solo a gangster e buffoni, intenti a ingolfare le sale americane in quantità industriale anche se la maggior parte degli statunitensi, di gangster, difficilmente ne incontrerà anche solo uno in una vita intera.
Uno slittamento al quale nei prossimi anni potremmo verosimilmente doverci rassegnare, con le sale chiamate a ospitare solo blockbuster e cinecomic (tra l'altro con finestre on demand contemporanee) e prodotti medio-piccoli e di nicchia a rimanere appannaggio dello streaming, demonizzato dai cinefili più oltranzisti e invece caricato, nemmeno troppo sottobanco, di una responsabilità cruciale sul piano storico. Mank, un po' sornionamente, sembra individuare una salvezza e una forma di resistenza terminale proprio nella “scrittura” del cinema più che nella messa in scena, ed è una transizione del prodotto d’autore cui nei prossimi anni potremmo altrettanto facilmente assistere. Fincher, che nel frattempo ha firmato un accordo di 4 anni con Netflix, ha dichiarato in proposito: “L’ascesa dei servizi di streaming corrisponde a un periodo in cui pare che nessuna major possa permettersi di finanziare un film che incassa meno di un miliardo di dollari: oggi, senza streaming, dovremmo tutti scimmiottare la Marvel”.
Mank, in virtù di tutto ciò, si presenta come un ingranaggio di scrittura a orologeria dove ovviamente la megalomania del grande scrittore incompreso, per una volta, conta più del titanismo risaputo del regista-totale e il puro dato lascia il posto e presta il fianco alla contro-Storia apocrifa, con in sottofondo un preciso discorso teorico sui serbatoi e i limiti della creatività. Da un lato l’eterno presente della crisi del cinema, arte spuria, giovanissima e condannata alla fatalità del mercato fin dalle sue origini, e dall’altro il cinema che ha resistito a tutte le temperie del ventesimo secolo e non ne vuole sapere di soccombere, nemmeno alla fine del secondo decennio del ventunesimo.
Nella velocità forsennata e bulimica della scrittura, nel suo impeto performativo e nel ribaltamento della Storia e del già noto, in Mank c’è perfino un slancio proprio dell’ultimo Tarantino, quello da Bastardi senza gloria in poi, con lo stesso piacere malsano per scene madri dialogatissime che sono enormi set-up (ma anche set pieces) in cui il virtuosismo furoreggia. Il ridimensionamento nella lavorazione di Quarto potere del titano Orson Welles (ridotto a mistero buffo, a risata diabolica e sfocata, sulle orme della contestata lezione di Pauline Kael) diventa una sorta di trionfo postumo del verosimile nemmeno troppo plausibile: la lesa maestà del genio si traduce però soprattutto, come in un Tarantino storicamente sovversivo catapultato in dei soffusi ma vividissimi anni ’30, in un’ode estrema alla vulnerabilità della parola, della sceneggiatura, di questa forma d’arte così fondamentale ma anche così transitoria e precaria, sicuramente messa in secondo piano dall’affermazione universalmente riconosciuta, nell’agenda cinefila della modernità, della politica degli autori. E tuttavia così simile, sembra dirci Fincher, alla natura più profonda e inafferrabild del cinema stesso: Mank, in tal senso, è forse il più grande omaggio di ogni ordine e grado mai realizzato, da parte di un regista, alla figura dello sceneggiatore, ed è giusto e legittimo che gli sceneggiatori di professione lo eleggano a loro sommo totem e nume tutelare. Da esibire, magari, con la vanità mondana di una spilla sulla giacca, tirandolo fuori al momento opportuno per difendere una categoria spesso sotto-studiata e sotto-considerata.
A risplendere di luce opaca e dannata, al posto del declassato Welles, sono i tormenti forbiti di Mank, i suoi svolazzi ammalianti da paroliere e giullare coltissimo, il suo aggrapparsi agli spettri - di carta, su carta - del Novecento un attimo prima che vengano spazzati via dalla prepotenza della “modernità” cinematografica che sta per arrivare, e della quale Quarto potere è il simbolo più immediato, celebre, codificato e risonante. Uscirne come i più intelligenti del gruppo, alla luce di ciò, è solo la più magra delle consolazioni. Lo sa bene, oltre ovviamente a Mank, anche Upton Sinclair, lo scrittore socialista autore di Petrolio! (da cui Paul Thomas Anderson trarrà il suo Il petroliere), che in quegli anni cerca di diventare governatore della California inseguendo chimere utopiche per l’America, con una vocazione marginale ma fortemente archetipica e identitaria non dissimile da un Bernie Sanders o una Alexandria Ocasio-Cortez di oggi.
Al di là della verità e dell’attendibilità del dietro le quinte del making of di Quarto potere (di cui poco importa, al cospetto di un tale senso dell’invenzione e dello stupore), il nucleo di Mank sta tutto in questo scarto struggente e malinconico, nella transizione tra ciò era e ciò che sarà. Un film pieno di vezzi vintage eppure spudoratamente declinabile al presente, in cui le possibilità sterminate ma anche le limitazioni della libertà creativa sembrano brutalmente e dannatamente le stesse, ieri come oggi.
Sopravvivono il tutto e il niente, l’effimero e il concreto, a ostruire la vista e occupare la scena tanto con le vecchie major quanto coi nuovi colossi, in un’ideale punto di congiunzione tra la fiorente Netflix (e i suoi dati di visione impalpabili e mai esplicitamente comunicati) e i corridoi, così analogici, rutilanti e circensi, della MGM ma anche della Paramount e dell’RKO che a soli ventiquattro anni diede a Welles libertà totale e incondizionata su forme, contenuti, temi, collaboratori. Mank, dopotutto, ha visto chiunque, ha conosciuto tutti, da Louis B. Mayer (la M della MGM è quella del suo cognome) a David O. Selznick passando per Irving Thalberg, e incredibilmente è sopravvissuto. A chiunque, ma non a se stesso. Nel film, non a caso, è presentato come un Re Lear scampato alla notte nera (e dell’anima) di Hollywood, che al colmo della doppiezza ontologica della "Mecca del Cinema" coincide anche con la sua Golden Age.
Il cinema, specialmente nelle meravigliose sequenze ambientate nella residenza di Hearst e dell’amante Marion Davies (Amanda Seyfried) sulle colline di San Simeon (“Ciò che si sarebbe costruito Dio se avesse avuto i soldi", dice Mank alla Davies citando George Bernard Shaw) si presenta come un ballo in maschera da seduti tra fantasmi vestiti a festa, alla ricerca di un colpo da maestro che possa riscattarli come personaggi (della più grande storia mai raccontata, magari), ancor prima che come esseri umani. E Mank il cinema lo presenta come conforto e come trappola, dovendo scegliere solo due parole (“Avessi avuto più tempo avrei scritto una lettera più breve”, dice Mank saccheggiando Blaise Pascal: un mantra irrinunciabile per chiunque posi una penna su un foglio o un dito su una tastiera), con gusto per lo sberleffo ma anche con abbagliante lucidità, tanto cinica quanto romantica. “A prova di regista”, avrebbe detto, stavolta, proprio Mank in persona.
Davide Stanzione