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Pablo Larraín: da Ema a Il club, i 5 migliori film del grande autore cileno

Regista, sceneggiatore e produttore cileno, figlio dell'ex presidente dell'Unione Democratica Indipendente Hernán Larraín e del ministro Magdalena Matte, Pablo Larraín si forma all'Universidad de Artes Ciencias y Comunicación (UNIACC) di Santiago del Cile e fonda in seguito la sua casa di produzione, Fabula. Il suo esordio Fuga (2005), narra di un musicista preda delle sue ossessioni e dà il via a un’esplorazione cruda e radicale della violenza, che troverà posto anche nel successivo e ancora più maturo Tony Manero (2008), con cui trionfa al Torino Film Festival. Il film è un disturbante spaccato del Cile di fine anni '70, con un protagonista liberamente ispirato al personaggio di John Travolta ne La febbre del sabato sera (1977), interpretato da un eccezionale Alfredo Castro, suo attore feticcio. Il suo terzo film, nuovamente interpretato da Castro, è Post Mortem (2010), racconto delle vicende di un catatonico funzionario dell’obitorio che si ritrova faccia a faccia col golpe di Pinochet scrutandolo dalla posizione nient’affatto privilegiata del suo asettico tavolo da lavoro.

Ma è con il successivo No - I giorni dell’arcobaleno (2012) che Larraín spicca il volo, imponendosi come degli autori contemporanei più talentuosi e personali. Da questo momento, il suo percorso artistico giunge a piena maturazione, assumendo i tratti di un affascinante turbinìo di emozione, pathos, riflessione storica e rielaborazione dei codici cinematografici classici, sempre all'insegna della modernità. Il club (2015), Neruda (2016), Jackie (2016), Ema (2019): tutti grandissimi film, insostituibili tasselli di una poetica straordinaria.

In attesa del nostro workshop (https://bit.ly/3f38x17), i cinque migliori film di Pablo Larraín:


5) Ema (2019)



Un melodramma in musica, che vuole mettere in crisi cosa sia oggi una famiglia: lo si potrebbe definire per alcuni versi un film TeorEma, non soltanto come riferimento alla pellicola di Pier Paolo Pasolini del 1968, ma anche per la portata teorica di un’operazione profondamente astratta e concettuale, volta a rompere ogni convenzione precostituita (non solamente narrativa). Il desiderio di non seguire le regole imposte dalla società sta alla base di un film potente e modernissimo, a tratti irrisolto ma indubbiamente capace di rapportarsi con la contemporaneità. Una vera e propria jam session audiovisiva, oltre che un film sulla maternità, vista come forza di creazione ma anche di distruzione, simboleggiata da un fuoco a cui si torna costantemente, fino all'ultima, emblematica inquadratura finale.


4) Neruda (2016)



Il cineasta cileno si smarca completamente dai timori reverenziali nei confronti di uno dei suoi più importanti connazionali e affronta di petto il racconto della fuga dal regime dello scrittore premio Nobel per la letteratura nel 1971. Una elegia poetica in immagini, con l'opera di Neruda capace di influenzare sia i dialoghi, spesso inframmezzati da poesie recitate dai personaggi, sia la messa in scena, rapsodica e caratterizzata da continui cambi di scenario. Il tutto però è perfettamente funzionale al racconto, un fiume di avvenimenti in cui l’eroe e l’antieroe convergono in un’unica entità, politicamente agli antipodi ma spiritualmente vicinissimi. Un'accorata pellicola di straordinaria umanità, dove la ricerca costante di identità sembra riguardare i protagonisti ma anche una intera nazione. Magistrale l'equilibrio tra tensione drammatica e impegno politico ma ancora più sorprendente è la personalità che dimostra Larraín nell'attraversare i generi (dramma, noir, western crepuscolare) e nel restituire l'aria dell'epoca.


3) Jackie (2016)



Partendo da uno dei temi più cari del suo cinema, il contrasto tra pubblico e privato (e tra la realtà e la sua rappresentazione), Larraín costruisce intorno alla sua protagonista (una splendida Natalie Portman) un affresco profondamente umano su una icona che è prima di tutto donna, con le sue fragilità e le sue paure, le sue contraddizioni e la sua capacità di amare in maniera pura, sincera e incondizionata, mostrandosi al contempo risoluta e sperduta davanti a un mondo che le crolla addosso. Ma Jackie è anche una riflessione sulla crudele labilità del tempo e della memoria, oltre che sull’universale senso di solitudine e inadeguatezza dinanzi al volgere degli eventi che accomuna ogni essere umano. Un'opera ellittica dalla personale struttura narrativa, che si discosta anni luce dai consueti canoni del film biografico. Magnifico. Premio per la miglior sceneggiatura (Noah Oppenheim) alla Mostra del Cinema di Venezia.


2) No – I giorni dell'arcobaleno (2012)



Cile, 1988. Un referendum sulla presidenza di Augusto Pinochet spinge l'opposizione politica a cercare il sostegno del giovane e anticonvenzionale pubblicitario René Saavedra (Gael García Bernal). Quest'ultimo, non senza ostacoli e contrasti interni, tenterà di stemperare il soffocante e ormai radicato clima di terrore. Basandosi sulla pièce El Plebiscito di Antonio Skáremata (adattata da Pedro Peirano), Larraín si immerge totalmente nell'atmosfera dell'epoca (anche e soprattutto a livello stilistico, basti pensare alla contaminazione del girato con filmati d'archivio, al formato dell'immagine, alla fotografia volutamente graffiata e alla mobilità antilineare della macchina da presa), delineando lo stallo morale di un Paese e lo scollamento tra pratiche governative e attitudine popolare. Il risultato è uno splendido e spizzante apologo antitotalitarista, elogio sfrenato alla libertà di pensiero e inno a una doverosa, quanto troppo a lungo negata, democrazia. Regia di altissimo livello e cast in stato di grazia. Presentato al Festival di Cannes e candidato all'Oscar come miglior film straniero.


1) Il club (2015)



Spietata allegoria della Chiesa cattolica e dei suoi peccati, sviscerati con occhio mai accomodante da un regista che ha sempre messo l'impegno in primo piano, Il club è un autentico pugno nello stomaco capace di scuotere e far riflettere. Colpa e solitudine, bene e male, spiritualità e materialismo permeano un racconto che procede inesorabile, che guarda dritto negli occhi (anche letteralmente, grazie al sapiente uso dei primi pani frontali)  un inquietante microcosmo governato da leggi molto diverse da quelle pronunciate da Dio. Un'opera durissima che non arretra di fronte a nulla, in cui alla potenza della parola si affianca un magnifico apparato visivo, lontanissimo da qualsiasi forma di manierismo stilistico. Vincitore del Gran Premio della Giuria del Festival di Berlino. Imperdibile.

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