La storia dell’infanzia cinematografica è una storia molto articolata, soggetto di numerosi studi e interpretazioni, che vede spesso al centro personaggi-bambini portatori di un nuovo sguardo, di sogni e libertà, di fragilità e innocenza. Il bambino, soprattutto nel cinema neorealista, non è solamente il protagonista di una narrazione, di una storia, quanto l’istanza etica attraverso la quale il mondo può essere visto, affrontato e vissuto: stupore e meraviglia, povertà e miseria, sogni e desideri. Quando questo sguardo si ricollega a quello stato di libertà dell’autore stesso, si vanno a indagare nuove forme di meraviglia: il racconto retrospettivo che un regista fa della propria esistenza, mettendo in risalto la propria vita individuale, in particolare la storia della propria infanzia, restituisce allo spettatore quello sguardo autobiografico su un mondo perduto. Nel cinema della modernità, questo sguardo si ricollega spesso a quei caratteri, quegli aspetti o eventi, che hanno inciso sulla vita dell’autore e che lo hanno portato ad amare la propria arte. E se per Paolo Sorrentino è stata la mano di Dio, per Steven Spielberg è stato Cecil B. DeMille.
The Fabelmans (2022) è un flusso emotivo profondo e commovente in cui l'arte e la famiglia convivono e si riflettono a vicenda, fungendo da riferimenti complementari che hanno influenzato l'estro creativo del regista americano. L’opera è un'analisi complicata della natura dell'immagine che inizia con lo stupore del piccolo Sammy, per la prima volta in una sala cinematografica, nel vedere l’incidente del treno ne Il più grande spettacolo del mondo di DeMille proiettato sul grande schermo. Per il piccolo protagonista, quella sequenza è davvero il più grande spettacolo del mondo, tant’è che decide di filmarla con i propri mezzi e con il proprio treno in una sorta di remake casalingo. Quel mondo di giganti, che all’inizio lo spaventava, ora lo rapisce e affascina: il giovane Sammy, fra le mura di casa, sperimenta le potenzialità del mezzo cinematografico concentrandosi sulla creazione artistica come manifestazione del suo talento (per ora) inesplorato, senza tralasciare le vicissitudini famigliari. Dunque, attingendo dalle proprie memorie, Steven Spielberg, con il suo racconto di formazione, apre il suo cuore e accompagna per mano lo spettatore nel suo personalissimo teatro infantile, con la quotidianità, vista attraverso gli occhi del personaggio-bambino, che si fa immagine in movimento su pellicola.
Prima dell’operazione cinematografica di Spielberg, molti altri registi hanno lavorato su opere autobiografiche attingendo ai ricordi della propria infanzia. Nel caso del già citato Sorrentino, il regista napoletano con È stata la mano di Dio (2021) racconta la propria adolescenza — e, come nel caso di Spielberg, cosa lo ha avvicinato al mondo del cinema — tramite gli occhi di Fabietto, un ragazzo che lotta per trovare il proprio posto nel mondo. È stata la mano di Dio, nonostante il richiamo al famoso “número diez”, non è un film su Maradona, così come non è un film sulla città Napoli; l’ultimo capolavoro di Sorrentino è un film intimo, delicato e audace sull’adolescenza del regista stesso. La morte dei genitori, il desiderio di diventare un regista, l’incontro con Antonio Capuano, la passione per le prodezze del centravanti argentino, sono tutti aspetti che portano il giovane Fabietto a interrogarsi sul proprio futuro. Come per il giovane Spielberg in The Fabelmans, anche in questo racconto di formazione Fabietto è costretto ad abbandonare Napoli, la sua città, per seguire il suo sogno: lavorare nel mondo del cinema.
Nello stesso anno, un altro autore cinematografico decide di aprire il proprio cuore al pubblico attraverso un racconto che guarda direttamente alla sua storia personale: è il caso di Belfast (2021) di Kenneth Branagh. Nonostante sia sicuramente un film meno riuscito rispetto ai già citati — soprattutto per via di una sceneggiatura a tratti troppo retorica, ricca di momenti ridondanti —, il dramma monocromatico del regista irlandese passa attraverso lo sguardo di Buddy, un bambino di 9 anni che vive in un quartiere popolare di Belfast. Il bagaglio di ricordi di Branagh, colmo di emozioni, dolorosi episodi e calore familiare, è circoscritto all’interno di alcuni isolati. In quei pochi metri di strada è presente il mondo del piccolo Buddy: la compagna di scuola, gli affetti e quel teatro capace di regalargli sogni e speranze. Nel racconto cinematografico della sua infanzia, Branagh ci propone un personaggio-bambino che, spinto dalla nonna a non voltarsi indietro, alla fine del film muove i primi passi lontano dalla realtà irlandese verso quel mondo accademico e shakespeariano (che non vediamo ma, conoscendo la sua carriera artistica, possiamo intuire), grazie al quale si affermerà come autore teatrale e cinematografico.
Su un piano meno autoriale ma pur sempre contemporaneo, Honey Boy (2019), diretto dall’esordiente Alma Har’el, è un progetto che nasce dalla penna dell’attore Shia LaBeouf, il quale si ispira direttamente alle sue esperienze personali e al rapporto con suo padre. Nonostante l’opera non sia un racconto autobiografico della regista, ma dello sceneggiatore-attore, Honey Boy è un racconto di formazione audace e intenso, una seduta di auto-analisi dello stesso LaBeouf che, nel tentativo di liberarsi dei suoi demoni interiori, esorcizza le sue paure raccontando, tramite il personaggio di Otis, prima bambino e poi adolescente, il complicato rapporto genitoriale e le prime esperienze cinematografiche. In questo scenario, LaBeouf ritaglia per sé il ruolo più difficile: quello del padre. La particolarità di quest’opera risiede, dunque, nella rappresentazione di quello sguardo autobiografico che passa attraverso il personaggio-bambino, ma parte dagli occhi dello stesso attore californiano — come parte del suo percorso riabilitativo —, il quale ci regala una splendida interpretazione, emotivamente difficile ma pur sempre controllata.
In ultima analisi, un’altra articolazione dell’infanzia cinematografica passa attraverso l’animazione. L’ultima impresa di uno dei migliori registi del nuovo cinema americano, Richard Linklater, ideatore di un racconto lungo dodici anni come Boyhood, è una pellicola d’animazione che mescola vita e sogno, realtà e finzione, ricordi e fantasie. Apollo 10 e mezzo (2022) ruota attorno all’attesa di milioni di americani, e non solo, di poter vedere l’allunaggio dell’Apollo 11 nel 1969. Tra questi c’è Stan — un ragazzino fortemente ispirato a Linklater, nato anche lui a Houston nel 1960 —, che vive vicino alla sede della NASA e sogna di poter viaggiare un giorno nello spazio. Grazie alla tecnica del rotoscope, Linklater ragiona sulla dimensione immaginifica della memoria, del ricordo poco nitido che riaffiora e diventa narrazione. Il regista americano, ai tempi dello sbarco sulla Luna, ha solo nove anni e, dunque, il suo ricordo è vago, confuso, disorganico, così come lo è la dichiarazione d’intenti del film: la vita è un sogno, la traccia di un qualcosa che abbiamo (o forse no) vissuto.
Quest’ultima pellicola d’animazione ci permette di ragionare sulla declinazione del sogno, del ricordo di un qualcosa che si è vissuto da piccoli e che riaffiora, tra mille difficoltà, per segnare il presente. Questo tema è spesso legato alle memorie che si hanno di un luogo. Se per Linklater questo luogo è la Huston del 1969, per Alfonso Cuaron è la Colonia Roma a Città del Messico
(Roma, 2018) o per Federico Fellini il borgo San Giuliano di Rimini nei primi anni ’30 (Amarcord, 1973). Nell’articolazione dell’infanzia autobiografica in Roma, il regista-autore non si rappresenta direttamente sulla scena, non sceglie un personaggio-bambino che lo interpreti, ma rivive la propria infanzia tramite la coralità dei personaggi — tipi universali, che vanno oltre la dimensione temporale per diventare immortali — e la rievocazione di eventi, circoscritti nei luoghi della memoria, che, come sostanza poetica, distillano sensazioni, umori e suggestioni. Questi luoghi e questi volti sfilano davanti agli occhi dello spettatore in una parata di ricordi, proiettando le proprie ombre nel presente dell’autore. Diversamente, nel caso del capolavoro autobiografico felliniano, il regista emiliano si esprime attraverso gli occhi del personaggio di Titta. Il giovane ragazzo interagisce, come i suoi coetanei, col folklore delle feste paesane, le adunate del sabato fascista, la promiscuità di Ninola “Gradisca” — sogno erotico generazionale —, il passaggio del transatlantico Rex e le disavventure domestiche. Amarcord è la quintessenza di un regista che elabora se stesso e il proprio passato immaginandolo a ruota libera: un ritorno in Romagna celebrato attraverso i piccoli accadimenti di una Rimini in pieno trionfalismo fascista, una rievocazione in chiave nostalgica, narrata da personaggi poco affidabili, che ricorda allo spettatore che il mondo rappresentato non è che un "a m’arcord” cinematografico artefatto.
Davide Biolatti